Discorso di David Sassoli, presidente del Parlamento Europeo, a Marzabotto nella ricorrenza dell’eccidio, il 6 ottobre 2019 – Discorso preparato e discorso pronunciato

11 ottobre 2019

Grazie.

Un saluto ai cittadini di Marzabotto, alle famiglie dei martiri, alle autorità civili e religiose, alle associazioni partigiane provenienti da tutta Italia, alle associazioni degli ex internati nei campi di concentramento, alle tante rappresentanze comunali che sono presenti, davvero tante. Volevo salutare i partiti e i sindacati, che sono strumenti della democrazia. Vorrei salutare con affetto le medaglie d’oro. E un ringraziamento particolare alla Sindaca di Marzabotto e al presidente Walter Cardi del Comitato regionale per le onoranze ai caduti di Monte Sole. Marzabotto per l’onore che Mi è stato concesso un grande onore di prendere la parola oggi in questa cerimonia che anno dopo anno non smette di interrogare la nostra coscienza.

La barbarie e la disumanità degli eccidi che sono stati compiuti dai nazifascisti nelle terre alle pendici di Monte Sole ci pone ancora molte domande e ogni anno offre spunti di riflessione a seconda del contesto politico e culturale in cui si svolge.

Fin dove è potuto arrivare l’odio? Fin dove si è spinta la guerra, la volontà di potenza, la strategia di sopraffazione? Fin dove il disprezzo dell’uomo?

Questo è un luogo della memoria. E La memoria è certamente un fardello perché chiede coerenza e costringe tutti a tenere gli occhi aperti, a non lanciare messaggi sbagliati, ad essere accurati nell’ nelle analisi, a discernere perché non è vero che l’orrore non potrà tornare, che le nostre libertà saranno sempre salde, che la democrazia accompagnerà per sempre la vita dei nostri paesi. No: non è vero, perché attorno a noi si sviluppano dinamiche che portano anche le istituzioni ad assecondare fenomeni di rimozione.

Confesso subito che quando giorni fa pensavo a questo all’appuntamento di stamattina c’era qualcosa che mi frullava nella testa. Non riuscivo a capire cosa, ma sentivo che si trattava di qualcosa di molto personale, se di personale si può parlare in tragedie collettive che hanno coinvolto e sconvolto generazioni di uomini e donne, provocato macerie: macerie di morti, macerie di città, macerie morali.

Concentrandomi meglio mi sono reso conto che si trattava della data della strage, di quei giorni dell’ottobre a cavallo tra il settembre e l’ottobre del 1944 che hanno per sempre reso Marzabotto luogo della memoria europea. E riflettendo sulla data mi è tornato alla memoria che negli stessi giorni in Jugoslavia si combatteva la battaglia per la liberazione di Belgrado, dura e feroce quanto la difesa di Stalingrado.

Un’associazione di pensieri personale, dicevo, che voglio condividere con voi: perché in quella battaglia c’era anche mio padre, che era arrivato lì; soldato italiano in Montenegro prima, partigiano nelle fila dell’Esercito di Liberazione della Jugoslavia dal ’43, prigioniero nel carcere tedesco di Mostar, ai lavori forzati nelle miniere di Bor, poi nel campo di concentramento di Saimjste alle porte di Belgrado.

Negli stessi giorni, qui c’erano tedeschi e fascisti impegnati nell’opera di annientamento di popolazioni civili innocenti, e al di là dell’Adriatico c’erano tedeschi che scappavano perché sulle sponde della Sava era finalmente arrivata l’Armata rossa.
Dal campo di Belgrado un gruppo di prigionieri riesce a scappare e a raggiungere il Comando russo di Sefkerin, nel Banato.

«Dai russi fui accolto molto bene – scriverà mio padre nella relazione per il Distretto militare di Firenze quando tornò una volta tornato a casa – ed avendo chiesto di combattere contro i tedeschi fui accolto in un battaglione ucraino col quale ho combattuto a Belgrado».

Mio padre non fu mai comunista, ma salendo fino a fin qui mi sono chiesto cosa avrebbe pensato, e con lui i suoi compagni, se qualcuno gli avesse detto che la sua guerra contro i nazisti, e la guerra che impegnava l’ stava impegnando i soldati dell’Armata rossa, fosse stata un giorno equiparata e associata solo di sfuggita alla criminalità nazista!

Cos’avrebbe pensato?

E cosa avrebbero pensato quanti, dopo l’8 settembre, gli eccidi, le stragi, i rastrellamenti, e le deportazioni, ebbero la forza di compiere la loro scelta di vita per la liberazione dell’Italia del nostro Paese? Cos’avrebbero pensato anche loro?

E allora ripetiamolo insieme, perché siamo qui per questo oggi, perché altrimenti, Walter, non avrebbe senso essere qui:, che il fascismo e il nazismo non sono opinioni, ma sono crimini!

Se io per primo, ma tutti eh, siamo tenuti a rispettare le Istituzioni, questo non significa essere d’accordo con conclusioni imprecise e confuse, perché la storia non si scrive a maggioranza e la storia non si scrive nei nostri Parlamenti. Rispetto non significa condivisione. Rispetto non significa alimentare confusione fra chi fu vittima e chi fu carnefice.

Capire le ragioni di giovani tedeschi che si spinsero fin qui a sterminare gente inerme – molti dei quali, come scrive Giuseppe Dossetti, poco tempo prima avranno anche partecipato al Te Deum – non può significare giustificarne ideologia e responsabilità.

Bene ha fatto la signora Sindaca e con lei il Comune di Marzabotto a richiamare tutti, anche le istituzioni europee, ad evitare equivoci, alimentare revisionismi, pronunciare giudizi superficiali.

Io raccolgo il loro invito e mi impegno perché presto vi sia un confronto fra il Comune di Marzabotto e il Comitato regionale presieduto da Walter Cardi per le vittime di Marzabotto con i gruppi parlamentari al Parlamento Europeo europeisti che hanno condiviso quella risoluzione. Abbiamo bisogno di spiegare, di spiegare, far conoscere e di condividere, magari insieme.

Dire mai più totalitarismi in Europa, in un momento in cui le forze estremiste e neofasciste nei nostri paesi hanno ripreso fiato, è utile e doveroso. Intervenire nella riscrittura della storia, invece, può prestarsi a distorsioni.

La guerra di liberazione dal nazifascismo in Europa è cosa molto precisa e ha consentito a noi di godere di libertà fondamentali, di ricostruire sistemi democratici, di lanciarci in un’avventura straordinaria come quella dell’unità europea.

Equiparazioni improprie minano la nostra identità; revisionismi superficiali o interessati a giustificare quello che non può essere giustificato, provocano la perdita della nostra identità e non rendono giustizia, ad esempio, a quanti nelle formazioni partigiane comuniste e nel Partito comunista italiano hanno lottato insieme ad altri democratici per la nostra libertà, e hanno contribuito alla nascita della nostra Repubblica, sono stati fra i protagonisti alla Costituente e non hanno mai smesso di impegnarsi a per rafforzare il nostro sistema democratico.

Noi non possiamo dimenticare da dove veniamo.

Il contesto in cui si svolge questo anniversario ci costringe oggi a riflettere sui rischi della perdita della di memoria.

«Quando si dice che la storia è maestra di vita – diceva un grande storico, Gaetano Salvemini, antifascista ed esule – quando si dice che la storia è maestra di vita, diceva, si rischia di dire una grande banalità, perché la storia non ci dice cosa dobbiamo fare – proseguiva Salvemini –, ma ci aiuta a capire meglio chi siamo, a conoscerci meglio, a sapere da dove veniamo».

L’Italia democratica è nata dal punto di massimo dolore.

Tornare ogni anno a Marzabotto significa riflettere se lontano da qui si è riusciti ad evitare l’oblio. Perché è lontano da dai luoghi come questo che la seduzione ideologica e diabolica dei fascismi e del nazismo si presta a presenta in forme nuove e corrosive.

È accaduto una volta, caro amico. Può ancora accadere ancora. E dobbiamo sentire l’impegno, ha scritto don Giuseppe Dossetti, «per una lucida coscienza storica», per rendere sempre testimonianza veritiera agli eventi che sono accaduti. Per impedire negazioni e amnesie, magari dettate da volgari opportunismi, come ha detto bene la sindaca di Marzabotto. Ma Dossetti ha anche aggiunto che la coscienza storica da sola non basta.
La nostra coscienza deve essere anche «vigile», capace cioè di «opporsi a ogni inizio di sistema di male, finché ci sia tempo».

Dossetti era uomo acutissimo, attento e sensibile ai segni dei tempi.

«Sentinella, quanto resta della notte?»

La sentinella non ha nostalgia del giorno passato. Vuole assicurare serenità e benessere alla propria comunità nel giorno che sta per nascere.

Il ricordo di comunità, che oggi compiamo, ci fa sentire figli della grande storia. Quella che ha provocato milioni di morti in Europa e nel mondo. Quella ha toccato il culmine nell’Olocausto. Quella che ha aperto la strada della Liberazione e ad una civiltà, certamente imperfetta, ma che è stata capace di promuovere pari dignità, diritti universali, crescita, opportunità, sicurezza sociale.

Questo ricordo, però, ci chiama anche ai nostri doveri di cittadini, di democratici e di europei. Alla nostra funzione di sentinelle del domani dei nostri figli. Non possiamo addormentarci. Non possiamo bendarci gli occhi.

Ecco perché, parafrasando Piero Calamandrei, invito i miei colleghi del Parlamento Europeo se vogliono vedere dove è nata l’Europa, a venire a Marzabotto, a leggere le date di nascita e di morte delle vittime, come abbiamo fatto stamattina, a guardare le foto sbiadite dei martiri, a pensare a come erano stati educati negli anni Venti del ’900 i loro assassini, a cosa si erano formati uomini che anche la fede non aveva reso immuni dall’orrore, e a chiedersi perché nella scala di questo sacrario sono state evocate le città e i luoghi delle città martiri in cui quella disumanità si è espressa.

Qui potranno trovare le loro radici perché il nazismo, come insegna il prof. Enzo Collotti, era impegnato in un nuovo ordine europeo che a partire proprio dall’invasione della Russia, e dalla tenace resistenza del popolo russo, ha cominciato ad entrare in crisi e ha capovolto la storia  alla fine è stato fermato. Ecco perché qui vi sono le nostre radici.

Ma non solo quelle dell’Italia repubblicana, non solo quelle o dell’Europa delle istituzioni democratiche.

No, qui si custodisce anche qualcos’altro: si custodisce il diaframma fra noi e il disumano, che significa il modo con cui noi guardiamo alla vita e alla sua dignità e alla nostra capacità di indignazione ogniqualvolta vediamo per diritti non garantiti, soprusi perpetrati nell’indifferenza, vite umiliate, ingiustizie mai risarcite. Qui si custodisce anche tutto questo.

I luoghi della memoria, d’altronde, non servono a far ricordare a chi non potrà mai dimenticare il baratro dell’umanità, in cui ragazzi tedeschi e fascisti vennero su questi monti ad assassinare dei bambini, a mitragliare le donne, a scannare uomini inermi in un «delitto castale», come lo definì Dossetti con la precisione del giurista.

Questi luoghi servono anche a chi è vive lontano da qui e alle istituzioni politiche a ricordare loro che la democrazia non si conquista una volta per sempre, che le nostre libertà sono fragilissime perché basta qualche investimento sui social per manipolare l’opinione pubblica, che i nazionalismi sono ancora incubatori di conflitti fra le nazioni europee. E noi siamo ancora convinti, come disse il presidente Mitterrand, che «il nazionalismo è la guerra». Di questo noi siamo convinti.

Ecco perché la seduzione ideologica e diabolica dei fascismi e dei nazisti deve essere evocata, ricordata, studiata, compresa, condannata ovunque, ma soprattutto lontano da questi luoghi.
È nelle facoltà di scienze, nelle nostre università che andrebbe messa una bella lapide che dica: «Erano scienziati coloro che firmarono il Manifesto della razza» (e scienziati tanti dei perseguitati). È Oppure nelle facoltà di diritto, di giurisprudenza che andrebbe messa una bella lapide che ricordi: «Erano magistrati coloro quelli che firmarono le condanne a morte della Rosa Bianca» in Germania. Erano magistrati.

L’Europa non è il frutto di una ribellione anticoloniale come gli Stati Uniti e non ha nemmeno una storia imperial-confessionale come quella della la Russia.

Noi cittadine e cittadini ddell’Europa siamo la risposta ai nostri errori, l’argine agli orrori che abbiamo perpetrato e di cui abbiamo verificato di essere capaci. Noi portiamo insieme il peso della colpa, della redenzione, della liberazione, e anche il dovere della vigilanza.

Prendete il razzismo e l’antisemitismo: noi lo abbiamo ripudiato in modo netto, sia in Europa che sia in Italia. Ma la scorsa settimana è venuto a trovarmi il Comitato dei Rabbini d’Europa per segnalarmi che famiglie ebree europee stanno lasciando lasciano l’Europa per un vento antisemita e razzista che ha ripreso a montare nei nostri Paesi… Vigilanza, dunque , nella difesa intransigente dei diritti e del diritto ad avere diritti.

Oggi ricordiamo le vittime di Marzabotto; lo facciamo con il capo chino. I loro nomi e i loro volti sono per noi memoria perenne, che nutre ancor più la responsabilità che abbiamo verso il bene comune e verso le generazioni che verranno. Memoria di persone che sentiamo come fratelli e sorelle. Proprio per questo parliamo di memoria di comunità e di memoria europea.

Viviamo un tempo affascinante e al tempo stesso pericoloso.

Le trasformazioni in atto offrono opportunità straordinarie, che dobbiamo saper utilizzare per migliorare la qualità della nostra vita, per correggere lo sviluppo dell’economia, e della società, nel senso della sostenibilità sociale, e ambientale, per ridurre le distanze, e le diseguaglianze. Ma il nostro tempo alimenta anche paure, egoismi, rancori, chiusure, violenze, talvolta irrazionali, e pericolose tentazioni di ritorno indietro.

Per avere un’assicurazione sulla vita delle nostre democrazie dobbiamo rafforzare lo spazio europeo.
L’Europa stessa è nata nel segno dell’apertura, della cooperazione, della consapevolezza di che abbiamo tutti un destino comune. È nata da una grande visione, da un ideale coraggioso che solo poteva trarre forza da una tragedia così immane come quella provocata dalla seconda guerra mondiale e dal folle disegno nazifascista nazista.

«Nel crogiolo della Resistenza – è scritto in un foglio clandestino del Movimento federalista europeo, L’unità europea, diffuso proprio nei giorni in cui c’era si compiva l’eccidio di MarzabottoNel crogiolo della Resistenza – scrivevano – si è scoperta la solidarietà fra i popoli liberi del Continente. Si è scoperta la nostra comunità di destino, la quale vuole che libertà, pace e progresso siano dei beni di cui tutti i popoli europei devono congiuntamente godere o che tutti devono congiuntamente perdere». Pensate: questo veniva scritto in quei giorni terribili di dolore che si annidavano sulle pendici di Monte Sole.

Sì, Perché l’Europa è ancora il nostro destino. Ecco perché all’inizio di questa legislatura, dopo il consenso ricevuto dai cittadini, serve oggi, adesso, uno sforzo per rafforzare gli strumenti della democrazia europea.

È stato detto bene stamattina in chiesa: non partiamo però da zero perché in Europa in questi 75 anni è successo qualcosa di straordinario, mai accaduto altrove e mai accaduto prima.

Che nazioni abituate a conflitti e a farsi la guerra oggi discutono e si confrontano in uno spirito di cooperazione, di pace ed avendo tutti come riferimento le norme del diritto europeo. Per noi democratici questi anni non sono passati invano come vogliono invece farci credere coloro che vorrebbero dividerci e farci tornare indietro. No: noi viviamo bene con le nostre libertà.

La libertà innanzitutto di poterci esprimere, di poterci muovere, di poterci innamorare senza costrizioni, di poter vivere la propria sessualità senza discriminazioni, di non poter essere reclusi per le nostre opinioni, di vivere in paesi in cui la pena di morte è condannata per sempre e in cui la democrazia e lo stato di diritto sono il filo conduttore per poter rafforzare l’Unione Europea.

Siamo anche fieri di un’altra cosa, che non è consueta fieri di tutto questo e anche del fatto, non consueto fuori dallo spazio europeo, che ogni Stato membro sia sotto costante esame e se violazioni allo stato di diritto avvengono vi siano procedure di infrazione capaci di riaffermare i valori comuni. Sta succedendo, eh. Sta succedendo nei confronti di alcuni paesi europei e questo dimostra la nostra vitalità civiltà.

Riprendo un pensiero del presidente Sergio Mattarella, che salutiamo con affetto e riconoscenza, proprio contenuto proprio nel messaggio che abbiamo letto prima nella dichiarazione per il 75° dell’eccidio di Marzabotto: la storia, anche quella dolorosa, ci fa dire «mai più» ai nazionalismi che esasperano i contrasti.

L’Unione Europea nasce «unità nella diversità» e può testimoniare con orgoglio questo valore al mondo intero. Il pianeta ha bisogno di un’Europa all’altezza dei suoi ideali, ideali di giustizia che non si raggiungono una volta per sempre. Sappiamo che l’Europa non è quella che noi vorremmo. Che ha limiti, lacune, e nel suo spazio e nei nostri Paesi si producono troppe ingiustizie. Che tanti gli egoismi ci frenano e le istituzioni hanno bisogno di maggiore coraggio politico. Ma non c’è un’altra strada che possiamo percorrere e noi dobbiamo farlo con le opinioni pubbliche, non con i poteri forti. Con i cittadini. Questo deve renderci più coraggiosi.

A volte paure ed opportunismi ci spingono a pensare che si può rallentare l’integrazione, che si può derogare alla solidarietà, che si possono fare eccezioni alla tolleranza, al rispetto degli altri, che si può persino transigere sull’umanità delle nostre scelte.

Guai se per paura o per demagogia amputeremo le nostre più autentiche radici. Non sfuggiremo ai pericoli nascondendo il nostro volto, cambiando il nostro essere, e il nostro modello sociale. Così la daremmo solo vinta alla paura. E ai tanti che cavalcano la paura.

Cento anni fa in un famoso discorso ai Fasci di combattimento, Mussolini disse diceva ai suoi: «Dobbiamo riuscire a trasformare la paura in odio».

Purtroppo sono parole molto attuali.

Noi cent’anni dopo qui a Marzabotto possiamo dire che invece dobbiamo trasformare la paura in solidarietà. Perché la solidarietà è moltiplicatore di benessere e ed è moltiplicatore di sicurezza per tutti. Ma questo è possibile solo con una società viva, plurale, dialogante, democratica, sorretta da principi di umanità.

Ieri mi chiedevano: “Cosa ne pensa della legge sullo ius culturae?”. C’è qualcuno che pensa che approvare quella legge sia fare un favore a Salvini. Io penso che se non si approva quella legge si fa un favore a Salvini.

«Sogno un’Europa di cui si possa dire che il suo ultimo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia», ci ha ricordato papa Francesco al Premio Carlo Magno. Anch’io lo penso, dobbiamo pensarlo tutti: mai rinunciare, abdicare alla nostra umanità. Ma dobbiamo restare molto saldi.

E a 75 anni dall’eccidio di Marzabotto non dimenticare che qui, nel dolore e nella violenza, fra le raffiche e le urla, nella pietà che non si è manifestata, è nata la nostra Repubblica e l’Europa democratica e che purtroppo vi sono virus che cercheranno sempre di farci tornare indietro.

Uno in particolare, il più pericoloso, che è quello dell’indifferenza.

«L’indifferenza – ripete la senatrice Liliana Segre, che salutiamo«è l’apatia morale – ripete la senatrice Liliana Segre – di chi si volta dall’altra parte: e succede anche oggi verso il razzismo e gli altri orrori del mondo».

Non voltiamoci mai dall’altra parte, non pensiamo mai che non ci riguardi.

E allora essere oggi a Marzabotto riacquista per tutti un grande significato per la nostra vita. Grazie.

Legenda
Il testo in nero corrisponde al discorso scritto ed effettivamente pronunciato.
Il testo in beige corrisponde alle parti aggiunte a voce rispetto al discorso scritto.
Il testo barrato corrisponde alle parti del discorso scritto che non sono state pronunciate a voce.
Vengono indicate con gli stessi mezzi frasi e parole spostate, nonché lievi differenze testuali. La base della punteggiatura è quella del discorso scritto, ma è stata modificata in modo da corrispondere al discorso effettivamente pronunciato.
La fonte del discorso scritto è il testo pubblicato sulla pagina Facebook “PD Castelnuovo di Porto”. La fonte del discorso pronunciato sono i video pubblicati da Paolo Gatti sul suo profilo Facebook. Ringrazio entrambi e inoltre, rispettivamente, Simona Biagi e Anna Maria Testa per avermeli segnalati.

 


Con Maurizio Martina, e perché

27 novembre 2018

– Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che significavano qualcosa,
anche se eri troppo piccolo per capire il perché. […] Le persone di quelle storie
avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto.
Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa.
– Noi a cosa siamo aggrappati, Sam?
– C’è del buono in questo mondo, padron Frodo.
È giusto combattere per questo.

  

Un giudizio laico sugli ultimi anni: rivendicare i risultati, ammettere gli errori

Nella riflessione interna al PD trovo piuttosto speculare, e specularmente irresponsabile, l’immaturità di chi ritiene che in questi anni non abbiamo sbagliato nulla e quella di chi ritiene che abbiamo sbagliato tutto. Vedo la tentazione di proseguire, da un lato, in un’estenuazione del renzismo ortodosso; dall’altro, nell’antirenzismo militante. Mi sembrano entrambe non tanto delle strategie fuori tempo massimo, quanto due scaramanzie difensive contrapposte e immobilizzanti – e in questo drammaticamente convergenti –: sicuramente, nessuna delle due mi pare una soluzione. Tantopiù se cedono alla tentazione di trasformare ancora una volta il percorso congressuale in una delegittimazione continua, in una caricaturizzazione violenta, in una balcanizzazione che non potrà rimanere senza strascichi.

Occorre un coraggio profondamente laico, e un atteggiamento profondamente inclusivo, per ammettere gli errori fatti, rivendicando i risultati ottenuti. Dare la colpa agli altri non serve a niente. Il che non significa negare la pericolosità e la virulenza dei nostri avversari, delle loro strategie, dei loro strumenti, e in generale del clima che si è largamente impadronito del Paese: pericolosità non per il PD, ma per la qualità della nostra democrazia e del nostro dibattito civile. Una presa di coscienza – peraltro fortunatamente viva in non pochi settori della nostra società – che non ammette alcuna indulgenza, né alcun desiderio d’imitazione. Ma occorre riconoscere che non abbiamo saputo vedere la forza e la pervasività di ciò che stava arrivando, e che si autoproclamava imperiosamente alternativo alla nostra azione politica e di governo: azione che non è stata percepita, nonostante tutto, come sufficientemente credibile e sufficientemente condivisa.

Riformismo radicale e altri ossimori

È necessario ribadire un approccio riformista: ma questo dev’essere lo strumento per riscoprire finalmente, com’è indispensabile e urgente, il primato della politica, sottraendolo all’abbraccio mortale dell’illusione populista. Limitarci a deridere gli insuccessi del governo e delle amministrazioni locali dei nostri avversari, le cui promesse s’infrangono miseramente di fronte alla realtà, non è una risposta sufficiente. Occorre chiedersi a quali bisogni reali – ancorché sovente deformati – quelle promesse pretendono di rispondere: e dare ad essi risposte per nulla indulgenti, anzi franche e severe, e tuttavia allo stesso tempo solidali ed empatiche.

Occorre, certo, difendere strenuamente il campo della ragione, dei dati, delle competenze come unico spazio possibile per la discussione pubblica e per la stessa convivenza civile. Ma bisogna anche sollecitare uno sforzo collettivo di pensiero verso una nuova visione del mondo.

Essere riformisti non può mai significare la rinuncia totale a svolgere una critica al capitalismo e al liberismo: perfino quando – contingenzialmente – se ne auspichi e favorisca un migliore sviluppo e un più completo compimento. Non spetta alla sinistra innalzare il vessillo della mera libertà assoluta, né in senso economico né in senso etico: lo mostra, non bastasse altro, la gravità e l’urgenza della questione ambientale (che è forse l’unico elemento unificatore nella grande varietà delle esperienze progressiste più innovative e di successo negli ultimi anni). Anche se un’alleanza con le forze autenticamente liberali è strategica e indifferibile nell’attuale panorama politico internazionale.

 

Tornare a essere luogo

Per noi non si tratta soltanto di ritornare a una visione ad alto raggio, a una narrazione forte, di lungo periodo, che appare l’unico mezzo per non ricadere nell’occasionalismo, nel maquillage, nella gestione dell’emergenza e del quotidiano (basti pensare all’amministrazione locale), e affinché la comunicazione politica sia al servizio della politica, e non viceversa.

Si tratta soprattutto di tornare a essere un luogo credibile a cui chiamare le migliori forze del Paese – individui e corpi intermedi, con rispetto per i luoghi tradizionali ma con un occhio particolare alle nuove aggregazioni – per sollecitarle a formulare le loro istanze, per arrivare a proposte che sappiano a un tempo essere radicali e parlare a una pluralità di soggetti sociali. Ritrovare un modello di partito non pesante ma pensante (questa sì un’espressione felice di Matteo Renzi, cui purtroppo non è seguita, mi pare – per responsabilità non solo sua –, alcuna azione concreta); un centro di gravità, non luogo di compromesso ma connettore di storie e costruttore di esperienze: solido e consapevole, ma in virtù di ciò poroso e disponibile all’osmosi.

L’alternativa è un partito asfittico, tra una mediocrazia di superstiti funzionari di partito, parlamentari e amministratori e un esile corpo di militanti cui troppo spesso non viene offerta una struttura collettiva in cui crescere e formarsi nella discussione informata, nel confronto ordinato, nel rispetto. Insomma, una comunità. Di cui abbiamo dannatamente bisogno.

In questo contesto, una visione di centrosinistra ampia e aggregante, da cui spero mi si possa concedere di non aver mai deflettuto, non serve certo a non avere «nessun nemico a sinistra» – anzi, non di rado occorre dire dei «no» molto secchi, come non bisogna temere di riceverne –, ma a perseverare in quell’attitudine inclusiva che è alla base dell’esperienza stessa del PD.

 

Una scelta

Come qualcuno sa, avevo iniziato a stilare queste righe quando ancora non erano chiari i contorni della sfida congressuale. Certo, sentivo forte l’esigenza di una candidatura che rompesse lo schema, per me pernicioso, che ho delineato all’inizio. Che non fosse, al tempo stesso, velleitaria, di nicchia o di settore, perché questo tipo di candidature non perturba, ma anzi rafforza lo schema principale. Una candidatura che, senza invocare l’ennesima «nuova era», portasse semplici ragioni di unità: non confezionando col bilancino un’impossibile ricetta, ma aprendo con umiltà a un futuro non prigioniero di una qualche frazione del passato, a un orizzonte da traguardare insieme.

Per questo, piuttosto imprevedibilmente – anche se con più forza dopo l’importante manifestazione del 30 settembre –, mi sono scoperto  sperare che Maurizio Martina decidesse di candidarsi. Apprendere che Graziano Delrio – di cui nei mesi precedenti avevo auspicato la candidatura – stava sostenendo quella scelta è stata per me una conferma importante; così come considero una buona notizia, giusto stamattina, che Matteo Richetti abbia deciso di convergere entro un progetto più ampio.

Nel mio piccolissimo, portando con allegria il bagaglio delle mie scelte, dei miei errori e dei miei fallimenti, mi metto con estrema semplicità al servizio di questo progetto. Con la sola ambizione di dare una mano.

Le ragioni di questa mia scelta implicano il rispetto assoluto verso tutti gli altri candidati e i loro sostenitori; prima ancora, il rispetto del partito, dei suoi luoghi, dei suoi metodi. E anche dei suoi limiti e delle sue difficoltà. Implicano anche la volontà di portare avanti più che mai un confronto di idee e di proposte, senza temere ma anzi favorendo contaminazioni e trasversalità.
Non ha senso sostenere Martina se non si vuole far crescere tutto il partito. Tutto. Senza perdite, senza fratture, senza abbandoni silenziosi che sono, ciascuno, una nostra muta sconfitta. È l’unica logica che ritengo ammissibile, tantopiù in questo momento. Ecco, lo sarebbe perfino se vivessimo in tempi normali. Non so se mi spiego.


A cent’anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale

5 novembre 2018

(testo dell’intervento pronunciato ieri, 4 novembre 2018, a Bazzano, presso il monumento ai Caduti di tutte le guerre durante la celebrazione della Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate)

È un grande onore rappresentare il Comune di Valsamoggia e la Municipalità di Bazzano in questa ricorrenza, in cui in qualche modo il velo della storia sembra distendersi sulla nostra quotidianità. Esattamente cento anni fa, infatti, terminava quella guerra che tuttora, nel vocabolario ancor prima che nell’immaginario degli italiani, definiamo “Grande”.
L’Amministrazione Comunale ha ricordato questo evento con varie iniziative – in particolare con una mostra nella Rocca dei Bentivoglio –, grazie alle quali i tanti visitatori hanno potuto farsi un’idea di che cosa abbia voluto dire quella drammatica esperienza. Non solo per i tanti che erano al fronte – abbiamo appena visto, incisi nel marmo, i nomi dei tanti bazzanesi che hanno lasciato la vita nelle trincee e nei campi, insieme a centinaia di migliaia di altri ragazzi di tutt’Italia, a milioni di giovani in tutt’Europa –; ma anche per tutti coloro che, pur lontani dal fronte, vivevano le conseguenze della guerra nella propria vita: nella miseria, che spesso era il peggioramento di una endemica povertà; nella precarietà, nella trepidazione per i propri cari in battaglia, nella paura per sé e per la propria famiglia…

Onorare il sacrificio dei tanti che hanno dato la vita per il proprio Paese non è in alcun modo in contraddizione col ricordare l’atrocità di quella guerra, che papa Benedetto XV ebbe a chiamare “l’inutile strage”, aggiungendo subito dopo: “nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra!”. Un monito valido anche oggi: per ricordarci che è con il dialogo, con la diplomazia, con la giusta rivendicazione delle proprie ragioni che i popoli possono efficacemente difendere i loro legittimi interessi: è insieme che si possono risolvere le inevitabili dispute; è insieme, ancor più, che si possono affrontare i grandi problemi che non hanno alcuna vera soluzione se non a livello continentale o, ancor più, globale. I tanti cimiteri di guerra, i tanti sacrari che costellano metà dell’arco alpino, che istoriano dalle due parti tanti confini nel seno dell’Europa devono essere monumenti edificati nel sangue per la fratellanza e l’amicizia tra i popoli.

Anche celebrare l’unità nazionale, del resto, come facciamo oggi, significa tornare alle ragioni profonde della nostra convivenza civile; significa opporsi all’individualismo, all’egoismo, al particolarismo, all’indifferentismo: una sfida che vive prima di tutto dentro di noi.

Oggi ricordiamo tutti coloro che servono lo Stato, che servono la nostra comunità, garantendo ad essa pace, ordine, sicurezza. Un servizio di cui beneficiano anzitutto i più deboli, i più inermi, coloro che mai riuscirebbero a difendersi da soli. Vorrei menzionare particolarmente tutti coloro che, a diverso titolo, sono impegnati nel soccorrere le popolazioni di tante aree d’Italia colpite duramente dal maltempo di questi giorni: ulteriore esempio di problemi che non si possono risolvere se non con uno sforzo collettivo.

Servire la patria in armi può apparire un privilegio, ma implica una grande responsabilità. Da un lato, significa essere pronti a rischiare la vita tutte le volte che il dovere lo richieda: anche da un momento all’altro, in modo completamente imprevisto. Dall’altro, significa la consapevolezza che ogni eventuale abuso del proprio potere non solo disonora il corpo a cui si appartiene, non solo scandalizza le persone bisognose di protezione, ma viola lo stesso patto di convivenza su cui si fonda la nostra società.

Ringrazio tutte le associazioni e le realtà che hanno partecipato alle celebrazioni: in particolare l’ANPI, l’Associazione Nazionale Carabinieri, l’ANED. Vi invito a partecipare anche al giro dei cippi e delle targhe ai Caduti che si trovano nel nostro territorio, che compiremo ora, per completare questo doveroso atto di onore che diventa anche un modo per perpetuare la memoria locale.

 


Episcopalis communio: papa Francesco riforma il Sinodo dei vescovi

24 settembre 2018

Lunedì 17 settembre è stata pubblicata la nuova costituzione apostolica di papa Francesco sul Sinodo dei vescovi Episcopalis communio. Il documento è entrato in vigore al momento della pubblicazione, quindi sarà applicato, per quanto possibile, alle assemblee sinodali già convocate come quella imminente sui giovani e quella sull’Amazzonia.

Cos’è il Sinodo dei vescovi

Il Sinodo dei vescovi è una riunione di vescovi – prevalentemente nominati dalle conferenze episcopali di ogni nazione – convocata dal papa per trattare temi importanti della vita della Chiesa. Dopo la convocazione vi è una fase preparatoria, che dura parecchi mesi e nella quale vengono elaborati alcuni documenti di lavoro; segue la riunione vera e propria, della durata di qualche settimana. Per consuetudine avviene in ottobre. Un sinodo ordinario comprende più di 200 membri, più svariate decine di esperti e uditori (compresi alcuni rappresentanti di altre Chiese cristiane, detti “delegati fraterni”). Vi sono poi sinodi più ristretti (detti straordinari) e altri dedicati a una singola area geografica (detti speciali).

Il Sinodo dei vescovi è stato istituito da Paolo VI nel 1965 col motu proprio Apostolica sollicitudo, durante l’ultima fase del Concilio Vaticano II. Introdurre uno strumento di consultazione dei vescovi, seppure giocoforza ridotto rispetto a un concilio, pareva allora un modo per conservare e innestare permanentemente nella vita della Chiesa un elemento importante dell’esperienza conciliare.
Oggi il sinodo è un momento importante della vita della Chiesa, anche se è spesso criticato – oltre che per essere composto da soli vescovi – perché fortemente controllato dalla Curia, che redige i documenti preparatori su cui la discussione in assemblea spesso non riesce a incidere in modo sostanziale. Nel 2006, sotto il pontificato di Benedetto XVI venne emanato un regolamento che sostituiva i precedenti e introduceva alcune limitate riforme (per esempio riservando un certo spazio al libero confronto tra i membri).

Il seminario di studio del 2016

La costituzione apostolica di papa Francesco rivede complessivamente il funzionamento del Sinodo, pur conservandone gli elementi sostanziali. Per i dettagli, il documento rimanda a future istruzioni e regolamenti demandati alla Segreteria generale del sinodo (che è una sorta di comitato permanente a cui è demandata l’organizzazione delle assemblee).
Non mi pare sia stato ancora rimarcato che le principali novità ricalcano con notevole precisione le conclusioni di un seminario di studio organizzato dalla Segreteria generale del Sinodo nel febbraio del 2016, in cui già si adombrava l’idea di «una revisione della normativa sul Sinodo dei vescovi». Il breve comunicato riportato in questo link – che a sua volta si riferisce al discorso di papa Francesco per il 50° dell’istituzione del Sinodo – è denso e illuminante e andrebbe esaminato in dettaglio dagli studiosi. A sua volta, alcune delle innovazioni proposte dal comunicato del 2016 sono state tratte dall’esperienza dei sinodi sulla famiglia del 2014 e 2015.

Il proemio dottrinale: cenni di teologia del sinodo

Come si vede, il suggerimento di un «proemio dottrinale» è stato sostanzialmente seguito. L’introduzione della costituzione apostolica – non particolarmente ampia, ma molto più lunga rispetto al motu proprio di Paolo VI del 1965 – ha infatti un carattere prevalentemente storico e pastorale, ma al suo interno si possono rintracciare facilmente concetti teologici significativi.
Ciò vale prima di tutto per l’enunciazione iniziale per cui «La comunione episcopale (Episcopalis communio), con Pietro e sotto Pietro, si manifesta in modo peculiare nel Sinodo dei vescovi»: infatti – come è detto non molto più avanti – «la dimensione sovradiocesana del munus episcopale», se propriamente «si esercita in modo solenne nella veneranda istituzione del concilio ecumenico», tuttavia «si esprime pure nell’azione congiunta dei vescovi sparsi su tutta la terra, azione che sia indetta o liberamente recepita dal romano pontefice». Inoltre, si sottolinea che «il vescovo è contemporaneamente maestro e discepolo. Egli è maestro quando, dotato di una speciale assistenza dello Spirito Santo, annuncia ai fedeli la Parola di verità in nome di Cristo capo e pastore. Ma egli è anche discepolo quando, sapendo che lo Spirito è elargito a ogni battezzato, si pone in ascolto della voce di Cristo che parla attraverso l’intero popolo di Dio, rendendolo “infallibile in credendo”». Proprio in questo senso, «il Sinodo dei vescovi deve sempre più diventare uno strumento privilegiato di ascolto del popolo di Dio»: infatti, «benché nella sua composizione si configuri come un organismo essenzialmente episcopale, il Sinodo non vive pertanto separato dal resto dei fedeli. Esso, al contrario, è uno strumento adatto a dare voce all’intero Popolo di Dio proprio per mezzo dei vescovi»… «mostrandosi di assemblea in assemblea un’espressione eloquente della sinodalità come “dimensione costitutiva della Chiesa”».

La fase preparatoria: consultazione dei fedeli

In generale, i concetti espressi nella parte introduttiva servono a giustificare e contestualizzare quanto stabilito dalla parte dispositiva, in particolare le novità.

Tra esse, spicca sicuramente l’attenzione riservata alla consultazione dei fedeli, che viene definita come lo scopo della fase preparatoria del sinodo. Il risalto che viene dato a questa fase è fortemente innovativo. Si stabilisce che «la consultazione del popolo di Dio si svolge nelle Chiese particolari» (cioè nelle singole diocesi e quindi non solo a livello di conferenze episcopali), e anzi «in ciascuna Chiesa particolare i vescovi svolgono la consultazione del popolo di Dio avvalendosi degli organismi di partecipazione previsti dal diritto, senza escludere ogni altra modalità che essi giudichino opportuna» (nell’introduzione si afferma esplicitamente: «può rivelarsi fondamentale il contributo degli organismi di partecipazione della Chiesa particolare, specialmente il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale»).
Per i religiosi, se prima era prevista la mera consultazione dell’Unione dei superiori generali, ora si precisa che «le unioni, le federazioni e le conferenze maschili e femminili degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica consultano i superiori maggiori, che a loro volta possono interpellare i propri consigli e anche altri membri». Si aggiunge inoltre che «anche le associazioni di fedeli riconosciute dalla Santa Sede consultano i loro membri». dei suddetti Istituti e Società. Ma «la Segreteria generale del sinodo può individuare pure altre forme di consultazione».
Viene altresì previsto il «coinvolgimento degli istituti di studi superiori». Infine, viene sancito che «rimane integro il diritto dei fedeli, singolarmente o associati, di inviare direttamente i loro contributi alla Segreteria generale del sinodo»: ad onta della terminologia usata, si tratta di una prassi invalsa con il sinodo sulla famiglia, ma precedentemente sconosciuta.

Il ruolo della Segreteria generale

Altra possibilità prefigurata dal percorso sinodale sulla famiglia – in cui l’assemblea del 2014 è stata legata a quella del 2015 in un unico processo – è quella per cui «l’assemblea del sinodo può essere celebrata in più periodi tra loro distinti». Qui spicca il ruolo della Segreteria generale (sia pur «insieme al relatore generale e al segretario speciale dell’assemblea») di «promuovere lo sviluppo della riflessione sul tema o su alcuni aspetti di particolare rilievo emersi dai lavori assembleari». Va nella stessa direzione la possibilità (già verificatasi per il Sinodo sui giovani) di «promuovere la convocazione di una riunione presinodale con la partecipazione di alcuni fedeli» designati dalla Segreteria stessa.
Il rafforzamento complessivo della Segreteria generale del sinodo, pure auspicato dal documento del 2016 che parlava della possibilità di «prospettare in certo modo il carattere permanente dell’organismo sinodale» (concetto peraltro già introdotto nel regolamento del 2006), avviene non solo introducendo la figura del sottosegretario e assicurando esplicitamente la presenza di «un congruo numero di officiali e di consultori», ma con l’affermazione che la Segreteria è «competente nella preparazione e nell’attuazione delle assemblee del sinodo, nonché nelle altre questioni che il romano pontefice vorrà sottoporle per il bene della Chiesa universale».

Le assemblee del sinodo

La composizione del sinodo e la fase celebrativa dello stesso rappresentano probabilmente l’aspetto meno innovativo della costituzione apostolica, eccezion fatta per l’importante previsione per cui «secondo il tema e le circostanze, possono essere chiamati all’Assemblea del Sinodo anche alcuni altri, che non siano insigniti del munus episcopale [cioè: non vescovi], il ruolo dei quali viene determinato di volta in volta dal romano pontefice». Era una possibilità non esclusa dal Codice di diritto canonico (che parla semplicemente di “maggioranza di vescovi”), ma di fatto non sfruttata se non per l’inserimento di alcuni religiosi. Bisogna inoltre notare che l’elezione dei membri non viene normata in modo particolareggiato: l’istruzione applicativa potrà quindi contenere elementi innovativi.
Per il resto, se il documento del 2016 proponeva «un maggiore ascolto e coinvolgimento dei fedeli che partecipano all’assemblea sinodale… valorizzando ulteriormente la presenza nelle assemblee sinodali degli esperti e degli uditori», Episcopalis communio non pare indicare a tale proposito nuove piste; andrà piuttosto notato che viene recepito dal regolamento del 2006, e dalla prassi invalsa dall’anno precedente, il momento di «libero scambio di opinioni tra i membri».
Viene però rilevata l’importanza della dimensione liturgica nel sinodo stesso («È … necessario che, nel corso dei lavori sinodali, ricevano particolare risalto le celebrazioni liturgiche e le altre forme di preghiera corale, per invocare sui membri dell’Assemblea il dono del discernimento e della concordia. È altresì opportuno che, secondo l’antica tradizione sinodale, il libro dei vangeli sia solennemente intronizzato all’inizio di ogni giornata, rammentando anche simbolicamente a tutti i partecipanti la necessità di rendersi docili alla Parola divina, che è “Parola di verità” [Col 1, 5]»): una sottolineatura che andrebbe confrontata a quanto papa Francesco ha sovente rimarcato descrivendo l’esperienza della Conferenza dell’episcopato latinoamericano ad Aparecida.

La fase attuativa

È invece profondamente innovativo il fatto che la «fase attuativa» del sinodo, cioè l’«accoglienza e l’attuazione delle conclusioni dell’assemblea», sia considerata – così auspicava il documento del 2016 – «un momento interno al processo sinodale»: essa è demandata primariamente ai vescovi (anche qui è previsto «l’aiuto degli organismi di partecipazione previsti dal diritto») e coordinata dalle conferenze episcopali, che possono «predisporre iniziative comuni». È però prevista anche un’azione da parte della Segreteria generale – di concerto col dicastero vaticano pertinente –, che può costituire a tale scopo una commissione di esperti, predisporre studi e altre iniziative, ma anche, «con il mandato del romano pontefice, … emanare documenti applicativi, sentito il dicastero competente».

Il documento finale

Quest’ultima novità si lega all’altro elemento di particolare importanza introdotto da Episcopalis communio e giustamente rimarcato dai commentatori: cioè lo status del documento finale dell’assemblea.
Occorre ricordare che, fino al 2005, l’unico documento del sinodo che veniva pubblicato era il messaggio dei padri sinodali, generalmente un breve documento di carattere esortativo e di scarsa rilevanza dottrinale e pastorale.  L’assemblea sfociava sì in un «elenco finale delle proposizioni» formulate – in latino –, votate dai padri sinodali al termine del sinodo e «presentate alla considerazione del sommo pontefice»; ma tali proposizioni non erano di pubblico dominio. L’unico esito pubblico e ufficiale del sinodo era pertanto il documento post-sinodale emanato direttamente dal papa, normalmente uno-due anni dopo. La dialettica interna al sinodo e tra il sinodo e il documento papale rimaneva quindi completamente occultata.
Benedetto XVI fin dal 2005 autorizzò invece la pubblicazione delle proposizioni (seppure in «una versione in lingua italiana, provvisoria, ufficiosa e non ufficiale»), consuetudine da allora invalsa. Al sinodo del 2014 vi fu un’ulteriore importante innovazione: anzitutto, l’elenco delle proposizioni venne sostituito da una «relazione del sinodo»; questo non solo fu pubblicato, ma vennero anche riportati i voti ottenuti dai singoli paragrafi. Il fatto è tantopiù rilevante perché quella relazione venne poi a costituire il documento preliminare per il sinodo del 2015. Anche nel 2015 la relazione finale venne pubblicata con i voti ottenuti dai singoli punti.

La nuova costituzione apostolica prevede invece che «se approvato espressamente dal romano pontefice, il documento finale partecipa del magistero ordinario del successore di Pietro». Inoltre «qualora poi il romano pontefice abbia concesso all’Assemblea del sinodo potestà deliberativa, a norma del can. 343 del Codice di diritto canonico, il documento finale partecipa del magistero ordinario del successore di Pietro una volta da lui ratificato e promulgato. In questo caso il documento finale viene pubblicato con la firma del romano pontefice insieme a quella dei membri». Occorre ricordare che la possibile potestà deliberativa dell’assemblea sinodale era già stata indicata nell’Apostolica sollicitudo di Paolo VI, ma non era mai stata applicata. Ora, comunque, si stabilisce che, sia pure a seguito dell’approvazione del papa, oppure della ratifica e promulgazione da parte dello stesso, il documento finale del sinodo gode di per sé dell’autorità di un documento papale. Ciò conferisce, com’è evidente, una dignità precipua al percorso sinodale: certo senza impedire in alcun modo al papa di pubblicare un proprio documento che ne recepisca il frutto (anzi, ciò si renderà probabilmente necessario qualora si tratti di introdurre innovazioni giuridiche specifiche), ma conferendo al Sinodo – cum Petro et sub Petro – la pienezza di quel valore che era affermato fin dalla sua origine, nel seno stesso del concilio Vaticano II.


Due cose su Saviano e Salvini

22 giugno 2018

Ieri ho fatto un tweet sulla questione Salvini-Saviano, scrivendo: “Se Salvini ritiene che si siano condizioni per togliere la scorta a Saviano, lo faccia e se ne assuma la responsabilità. Ma non dia l’impressione di trattarla come una questione di simpatie e antipatie, anziché della vita di una persona a cui la mafia ha giurato morte”. Ne è nato, su Facebook, un dibattito lungo e articolato, in parte anche con interventi spiacevoli. Stamattina ho voluto riprendere in mano la questione con un post. Visto che sta suscitando un certo interesse, lo pubblico anche qui. Per i posteri 😉

Non sono un fan di Saviano, credo che sulle mafie sia molto bravo, coraggioso e documentato, mentre su molti altri argomenti penso che la sua opinione, sia pur informata, valga quella di altri; in questo penso che abbia sbagliato a cedere a un certo star system che lo ha voluto trasformare in un maitre à penser su ogni branca dell’impegno civile. D’altra parte un ragazzo che si trova a dover gestire sia una fama nazionale impressionante e improvvisa, soldi e tutto il resto, sia una minaccia mafiosa che lo costringe a una vita complicata e surreale (il suo livello di protezione non è certo come quello di un comune politico con la scorta) può anche fare degli errori, e dover gestire pure quelli.
Credo anche che con le minacce alla vita, da qualunque parte provengano, non si scherza. Se i ministeri di governi molto differenti tra loro hanno stabilito di assegnare a Saviano un tale livello di protezione, bisogna presupporre fino a prova contraria che abbiano dei motivi serissimi per farlo. Chi sostiene che un ministero agisca in supporto dell’ufficio marketing di qualcuno deve saper dimostrare le sue affermazioni, perché altrimenti sono affermazioni cretine. E chi sostiene che tali valutazioni debbano essere riviste, sappia che ciò avviene periodicamente. Se è il ministro, lo deve sapere. E se ritiene che ci sia bisogno di un’ulteriore revisione, la ordini oltre ad annunciarla. Ognuno si prenderà le proprie responsabilità.
Credo infine che Salvini sappia benissimo che può contare su una diffusa sensazione di antipatia per Saviano (fatta di dissenso politico, di invidia sociale, di semplice e legittimo star sulle palle), che, insieme a quella, pure assai diffusa, di simpatia e sostegno per Saviano stesso, garantisce grande visibilità alle sue affermazioni per un’altra giornata. Salvini dovrà imparare molto in fretta che fare il ministro non vuol dire fare il politicante. Vuol dire amministrare il Paese in alcuni suoi aspetti fondamentali, con la fatica e la delicatezza che ciò comporta. La politica dell’annuncio roboante, dell’affermazione forte, funziona. Ma poi smette di funzionare. Perché i cittadini a un certo punto iniziano a dare la colpa a te e non più a chi c’era prima. Ma anche semplicemente perché si rompono le palle. Per dissenso politico, per invidia sociale, per semplice e legittimo star sulle palle. Arriverà quel momento, anche per Salvini. In quel momento vedremo quali risultati saprà tirar fuori dalla sua borsa di ministro.


Il discorso di Conte al Senato: pillole in 16 tweet

5 giugno 2018

1. Per me la parte più preoccupante del discorso di Conte è l’inizio: la celebrazione tra l’eversivo e il fuffarolo del rovesciamento dell'”ordinario percorso istituzionale”. Prima ancora del superamento della distinzione destra/sinistra e della rivendicazione del populismo.

2. Siamo nel cuore dell’ideologia grillista, meno ingenua ma più compiuta di come la conoscevamo finora dai proclami della Raggi. Del resto Conte questo è: un grillino – sia pur tecnico – fatto e finito. Aspettiamoci dosi da cavallo di questa roba.

3. Conte parla di “diritti sociali … progressivamente smantellati” negli ultimi anni: una narrazione che punta a sfondare a sinistra. Le parole d’ordine sono il salario minimo orario e il reddito di cittadinanza; i nemici, l’austerity e la corruzione.

4. Nel discorso di Conte i cenni al lavoro e all’ambiente sono condivisibili (e piuttosto “grillini-prima maniera”) anche se generici; apprezzabile che siano fittamente intrecciati con la questione tecnologica.

5. L’indicazione (assai asciutta) degli USA come “alleato privilegiato” e soprattutto la visione positiva dell’UE temperano nel discorso di Conte l’apertura alla Russia, che tuttavia è impressionante sentir enunciare così esplicitamente.

6. Su vitalizi, giustizia, lotta alla corruzione e alle mafie Conte si muove come sul burro. Degno di lode il riferimento alla funzione riabilitativa della pena. Interessante il riferimento circostanziato al conflitto d’interesse: sarà da seguire l’attuazione.

7. Come è stato notato, Conte parla di “pensioni di cittadinanza” (?) ma non fa cenno alla Fornero. Il reddito di cittadinanza vero e proprio viene già spostato a una fase 2.

8. Occorre riconoscere che nel discorso di Conte la questione dell’immigrazione è trattata in modo appropriato ed equilibrato. Vedremo come ciò si relazionerà con le mosse di Salvini: pessime negli ultimi giorni.

8bis. Lodevole il richiamo all’uccisione di Soumayla che chiude autorevolmente un giorno e mezzo d’ingiustificato silenzio.

9. Nel capitolo sul fisco Conte mostra le corde: la proporzionalità della flat tax, ovverosia la quadratura del cerchio. L’annuncio del carcere per i grandi evasori è come lo zucchero a velo. Lodevole che si eviti la retorica del povero italiano tartassato da Equitalia.

10. Sulla sanità Conte dice cose ovvie. Sulla ricerca pure: cosa deludente da parte di un professore universitario. Interessante il paragrafo su internet e sul digitale. Non scontato il lungo soffermarsi sul terzo settore.

11. Interessanti i riferimenti di Conte alla responsabilità sociale delle imprese e alla legge fallimentare. Irenico il riferimento alle parti sociali. Tutte da verificare le promesse sulla deburocratizzazione.

12. Il compitino di Conte sugli italiani all’estero e sulle regioni a statuto speciale è una classica marchetta da Prima Repubblica per prendersi qualche voto in più.

13. L’ampia trattazione dei rapporti col Parlamento invece individua una sede in cui Conte potrebbe recuperare centralità e protagonismo anche mediatico rispetto ai “soci di maggioranza”. Vedremo.

14. Ai terremotati Conte dedica il “pensiero finale” e l’annuncio di una visita, ma nessuna promessa.

15. Grandi assenti nel discorso di Conte: le donne (un solo breve riferimento); le famiglie (tradizionali e non); il patrimonio culturale; il turismo; l’agricoltura; molto poco sulla sicurezza, nulla sulla difesa. Praticamente nulla sulla scuola. Altro?

16. In gran sintesi, il discorso di Conte è quintessenza di grillismo avveduto ma ideologicamente forte, un po’ “prima maniera”, che occhieggia a sinistra e punta (anche con qualche imbarazzo ed excusatio non petita) a occultare e ammorbidire la componente leghista del contratto.

Nota bene: inizialmente ho diffuso questo post col titolo erroneo “Il discorso di Conte alla Camera…”. Scusate l’errore.


Salvare il PD: no al governo col M5S (ma non basta)

3 Maggio 2018

Per me impedire l’accordo M5S-PD significa salvare il PD. Non so se giovedì, da Fazio, Renzi ha fatto questo, o se ha colto l’occasione improvvidamente fornitagli da un manipolo di suoi avversari interni o ex alleati per intestarsi una battaglia che, come mostrano non solo i consensi raccolti dal documento che gira da ieri in vista della Direzione, ma soprattutto le voci di elettori e militanti, è molto più trasversale.

Non so se l’accordo fosse veramente più avanti di quanto sia trasparito a livello ufficiale (nel caso, aver detto esplicitamente, con tanto di nomi, che alcuni attuali ministri del PD erano stati “apprezzati” è stato per Di Maio ingenuamente controproducente oltre che gravemente contraddittorio). Però appare verosimile che l’accordo fosse, per alcuni dei suoi sostenitori, il modo e il punto da cui partire per mettere Renzi definitivamente “di lato”, rendendolo inoffensivo. Operazione complicata, anche qualora i favorevoli in Direzione fossero più del previsto, dal momento che alla fine il coltello dalla parte del manico ce l’hanno i gruppi parlamentari, questi in gran parte di salda fede renziana (e quei voti in Parlamento servono tutti, o quasi tutti, anche contando l’appoggio di LeU e di qualche altro parlamentare qua e là). A me sembra verosimile che Martina abbia cercato, di per sé lodevolmente, di trovare una quadra maggiormente inclusiva rispetto alla semplice maggioranza renziana, ma abbia poi subìto l’accelerazione altrui: fino alla concreta possibilità che la Direzione si trovasse formalmente a votare l’avvio di un dialogo, ma sostanzialmente a dare il via alla confezione di un “pacchetto” già pretederminato. Da qui la reazione di chi si diceva contrario a qualunque dialogo: una posizione scomoda e apparentemente anche poco logica, ma nei fatti sanamente prudente. Del resto per Martina – che, fino a un voto dell’Assemblea nazionale, è semplicemente il vicesegretario di Renzi (nominato da quest’ultimo ma sulla base di un “ticket” ben chiaro durante il percorso congressuale) ora facente funzione a seguito delle dimissioni di quest’ultimo – sarebbe non solo temerario, ma anche scorretto distanziarsi dalla constituency originaria. L’assestarsi su precondizioni decisamente poco esigenti, in particolare non negare la possibilità di un governo a guida Di Maio – quindi la piena vittoria politica non solo dei Cinque Stelle ma anche del loro “capo politico”, a cui non sarebbe stato chiesto nessun sacrificio – era l’elemento che maggiormente faceva temere questo scivolamento. E che non per nulla è stato proprio il punto su cui Renzi – come ha notato Cerasa – ha chirurgicamente mollato il suo ceffone: l’accordo col M5S è morto nel momento in cui l’ex segretario ha sillabato che i voti dei senatori PD – a quanto gli constava – Di Maio se li poteva scordare. E i notabili del PD non hanno potuto opporgli nulla nei fatti: perché gli constava giusto.

 

Ma perché penso che l’accordo col M5S significhi l’annientamento del PD? Per ragioni tattiche e per ragioni strutturali.
Le ragioni tattiche dicono che in queste condizioni essere “quelli che possono far cadere il governo” è un’arma assolutamente spuntata. Che il PD da un lato finirebbe ad avere una funzione di freno alle iniziative del M5S, dall’altro a essere costretto all’inseguimento del M5S stesso: una tenaglia mortale, sotto il fuoco di fila delle armi propagandistiche non solo del M5S stesso ma anche del centrodestra.
Le ragioni strutturali – anche al di là delle considerazioni sui rapporti tra M5S e democrazia (non solo la gestione della democrazia interna, ma soprattutto la loro idea e il loro modo di trattare la democrazia rappresentativa nonché il pubblico dibattito) e della falsa vulgata per cui i Cinque Stelle sarebbero sostanzialmente “di sinistra”, su cui ci sarebbe da scrivere libri e libri – dicono che l’accordo significherebbe la fine della vocazione maggioritaria del PD, l’accodarsi a partito gregario: confidando in una base elettorale che il 5 marzo ha già mostrato, certo, minoritaria, ma che, lungi dal considerarsi una nicchia residuale, resta e si sente radicalmente alternativa al M5S non meno che al centrodestra. L’idea di un accordo col M5S significa da un lato un’eccessiva fiducia nella capacità istituzionale e amministrativa del PD, come se i grillini fossero tutto sommato innocui mattacchioni facili da tenere sotto controllo con un po’ di tecnica e un po’ di tattica, qualche virtuosismo e schermaglie parlamentari, oltre a una nutrita pattuglia di ministri e sottosegretari. Dall’altro significa una drammatica sfiducia nella capacità del PD di fare politica – in Parlamento e nel Paese –, di individuarsi e mostrarsi come polo minoritario, ma alternativo e dinamico, capace di fare proposte incalzanti e di inventare campagne d’opinione che sappiano provocare le altre forze e dettare l’agenda politica italiana. Chi ha orrore di un PD arroccato al proprio calante potere e incapace di ritrovare la connessione sentimentale con il suo popolo (almeno con quello rimasto) dovrebbe essere molto spaventato dalla prospettiva di un accordo.

Detto questo, non posso fermarmi sullo chapeau a Renzi e alla sua mossa magistrale. Non tanto perché non sia convinto del suo “rilancio” di un governo di tutti e di una legislatura costituente, dal momento che penso che questa proposta sia semplicemente un’abile mossa dialettica per togliersi dall’angolo della domanda sul “che fare”, ma non abbia una reale praticabilità, e che Renzi lo sappia benissimo.
Ma perché, come avevo scritto nei giorni successivi alle elezioni, ritengo che il Partito Democratico abbia l’assoluta urgenza di avviare un percorso ampio (anche congressuale, ma non immediatamente congressuale, e con tempi distesi) non solo di confronto coi militanti e i simpatizzanti ma soprattutto di ascolto dei cittadini – fuori dagli organismi di partito e dalle aule delle istituzioni – e delle loro paure, angosce, speranze; un percorso di riscoperta e di rinnovamento delle sue ragioni fondanti, di elaborazione di proposte politiche forti e adatte a questi tempi. Dire che gli elettori non ci hanno capito non basta. Ammettere di avere fatto errori non equivale a squadernarli, questi errori, e a decidere in che direzione drizzare la barra per porvi rimedio. Pensare che basti il ritorno di Renzi o che basti disfarsi di Renzi per evitare questo difficile percorso – che non potrà avere esiti scontati se vorrà essere autentico – rappresentano due errori uguali e contrari alla ricerca di un’ultima, maledetta scorciatoia: converrà tenercene ugualmente distanti. “Io vi scongiuro, o miei fedeli: restate fedeli alla terra!”.


Due spiccioli sulle elezioni regionali in Molise

23 aprile 2018

Il Molise non è l’Ohio e l’idea che i risultati delle regionali dettino l’agenda a Mattarella è risibile come sarebbe affidare a De Toma – il candidato del centrodestra che si è ormai aggiudicato la presidenza della Regione – la formazione del nuovo governo a Roma.

Ciò detto, qualche riflessione su queste elezioni si può pure fare.

1) L’onda Cinque Stelle non è inarrestabile, nemmeno al Centro-Sud.

2) I Cinque Stelle hanno comunque ottenuto un risultato enorme rispetto alle precedenti regionali (37% contro 12%).

3) I Cinque Stelle si confermano più deboli sul piano locale, essendo ancora carenti nel radicamento territoriale. Da questo punto di vista, aver moltiplicato le liste mettendo in campo una grandissima quantità di candidati locali è stata sicuramente una mossa vincente per il centrodestra. (Mentre rinunciare a qualunque genere di coalizione e presentarsi con la sola lista M5S rischia di diventare un handicap per il Movimento proprio mentre ci sono le condizioni per un suo avanzamento nei territori.)

4) Il centrosinistra cala rispetto al risultato già pessimo delle politiche. E’ un tracollo che la coalizione “larga” non riesce assolutamente a frenare. Il risultato molto brutto del PD non si spiega unicamente con il “sacrificio” rispetto alle civiche, peraltro poco utile, né con motivazioni legate al malcontento per l’amministrazione uscente – che certo non ha giovato. L’impressione è quella di una grave marginalità e labilità. Anche LeU è in calo.

5) La molteplicità delle sigle vizia qualunque confronto interno tra le liste “nazionali” del centrodestra. Converrà limitarsi che la Lega, nonostante lo scarso radicamento locale, non cala rispetto alle politiche, e che il bacino dell’area che fa capo a Forza Italia è alquanto ampio; accanto ad esso, riprende vigore un’area “moderata” era in gran parte confluita in FI. Non male anche FdI.

6) Azzardando ipotesi sui flussi di voto: sicuramente il M5S viene penalizzato dall’astensione più alta (seppur relativamente fisiologica: al dato complessivo va tolto quello degli oltre 70.000 molisani residenti all’estero, che non erano computati alle politiche); difficile che abbia influito un calo di consenso per il comportamento del Movimento a Roma dopo le politiche; molto più probabile che un certo numero di elettori M5S delle politiche abbia deciso, alle regionali, di premiare candidati (soprattutto di centrodestra) a lui più “vicini”. Da questo punto di vista la nuova legge elettorale regionale, che impediva il voto disgiunto, ha probabilmente avuto un influsso non trascurabile.
Il centrosinistra probabilmente cede al centrodestra voti legati ai candidati “transfughi” (alcuni consiglieri uscenti di centrosinistra si sono ricandidati, e saranno eletti, col centrodestra); ma più in generale, forse, sconta un “effetto ballottaggio” con la concentrazione di voti (d’opinione) sui due candidati che venivano avvertito come più competitivi.

 

Vedremo come questi dati si combineranno con quelli delle regionali del Friuli-Venezia Giulia domenica prossima (in quell’occasione si voterà anche per le comunali a Udine e in altri 18 comuni della Regione) prima delle elezioni comunali del 10 giugno, che interesseranno 762 comuni, tra cui Ancona e altri 20 capoluoghi di provincia. In Emilia-Romagna si voterà in 18 comuni; nel Bolognese, oltre all’importante test di Imola, ci saranno le elezioni anche a Camugnano; nel Modenese a Guiglia, Serramazzoni, Camposanto e Polinago.


Di nuovo alle Ariette, in primavera

11 aprile 2018

Domenica pomeriggio il Teatro delle Ariette ha celebrato la sua festa di compleanno (dall’8 aprile 2017 il Deposito Attrezzi è ufficialmente “Teatro”) e ha presentato il suo nuovo progetto “Un’Odissea in Valsamoggia, esperimento di teatro per una comunità”. E mentre si ragionava liberamente – in quella pubblica intimità che è la cifra di tante cose che avvengono in quel posto – di Ulisse, di Penelope, delle nostre piccole e grandi e forse inconsapevoli Itache, ho sentito che anche quello, per me, era un piccolo ritorno: era tanto tempo che non venivo alle Ariette. Sulle pendici luminosissime della collina fiorivano i peschi e i ciliegi, guizzavano bisce nell’erba verdissima; tra le pareti, nella penombra – le cure parentali mi spingevano a un frequente dentro e fuori – prendevano forma le prime idee che vestivano quello schizzo acerbo di progetto. Il senso germinale delle Ariette, colto nel suo primo farsi. Il ritrovarsi insieme, piccola comunità, per la grande comunità – da “ricucire”, da riconoscere, da crescere –, come il lievito. Un’assoluta semplicità che consente ambizioni inaudite – come la pianta di fagiolo che svetta verso il cielo, l’uovo d’aquila, il cucciolo d’uomo. (Agata correva sul prato, mangiava la crescente, si colorava di sole.)


Francesco, Scalfari e l’inferno del non mettersi in gioco

2 aprile 2018

Nel valutare la questione dell’intervista di Eugenio Scalfari a papa Francesco pubblicata da Repubblica e poi smentita – nel suo carattere d’intervista e nei virgolettati attribuiti a Bergoglio, contenenti alcune affermazioni dottrinalmente discutibili, ad esempio sull’esistenza dell’inferno, ma non negata come colloquio effettivamente avvenuto – dalla Santa Sede, occorre prima di tutto una premessa.

Serve cioè avere ben chiara la distinzione tra dottrina e teologia: con la seconda che funge da “punta avanzata” dell’esplorazione del messaggio del vangelo, e la prima che – dalle origini del cristianesimo – si limita a mettere dei paletti, segnalando le elaborazioni teologiche eccessivamente devianti. La dottrina non si sviluppa come una monolitica e coerente verità ufficiale, ma come una progressiva conglomerazione di negazioni, ciascuna delle quali non di rado nega l’estremizzazione della negazione precedente, di modo che un’effettiva fisionomia emerge casomai per successive scheggiature, o in qualche modo di riflesso, a sbalzo. Se la teologia è un pendio, la dottrina non è un sentiero definito, ma tuttalpiù una larga pista da slalom supergigante, che si limita a indicare i dirupi e i vicoli ciechi senz’altro da non imboccare. Questa conformazione “per negazione” (apofatica) della dottrina si è conservata in modo più puro nella tradizione ortodossa, mentre il cattolicesimo più spesso, dalla Scolastica in poi, ha flirtato con la tentazione di adottare una teologica “positiva” ufficiale.

Ciò per dire che cosa? Che non c’è nulla di strano se un prete, che pure è il papa ma non ha affatto intenzione di smettere del tutto di fare il prete, in un dialogo – che è conversazione, prima che conversione, oltre che reciproco diletto e conforto – con un anziano amico intellettualmente inquieto e stimolante, percorra strade anche impervie e suggestive, e magari fragili, attorno a un concetto (un luogo teologico, un teologùmeno) come l’inferno, in cui i contenuti fissati dalla dottrina (davvero pochi e scarni, basti un’occhiata al Catechismo cattolico) lasciano obiettivamente molto spazio di possibile elaborazione teologica, di cui i primi secoli mostrano esempi notevoli.
È importante, naturalmente, che ciò non venga preso ad alcun titolo per un pronunciamento dottrinale; sarebbe pernicioso sia per la dottrina, sia per la teologia considerare come affermazione dotata di valore magisteriale ciò che è invece una suggestione, tuttalpiù un brandello di ragionamento fluttuante e in alcun modo determinato: da qui, è facile capire, le precisazioni sulla conversazione, che è appunto tale e non intervista, perché l’intervista, sia pure di livello autoritativo dubbio nel sistema articolato – e flessibile, come dimostrato anche da prima di Bergoglio – dei generi letterari papali, è pur sempre uno strumento per trasmettere volontariamente, “urbi et orbi”, un contenuto specifico.
Ma la testimonianza di quella conversazione rimane, in modo tutt’altro che casuale. Ciò che Francesco vuole dirci, con essa, non è sul piano dei contenuti, ma del metodo. Quanto ai contenuti, infatti, papa Bergoglio ha dimostrato di saper dire senza alcun problema, in contesti pubblici e sovente anche ufficiali, cose anomale, impreviste, scomode, o affatto importune sotto vari aspetti. Ed è chiaro che il papa è completamente padrone – al netto di imprecisioni e infortuni che pure possono capitare – della propria comunicazione, e che il sistema comunicativo del Vaticano (attualmente sotto riforma) si modella attorno alla comunicazione del papa e non viceversa, cosa vera più per Bergoglio – come per un altro grande comunicatore come Giovanni Paolo II, morto esattamente tredici anni fa – che per altri suoi non remoti predecessori. Per altro verso, la perizia teologica sovente dimostrata dal gesuita Bergoglio – al netto di un’interessata e maldestra vulgata – mostra un evidente sostrato latinoamericano, in cui l’insistenza per gli aspetti sociali si mescola, in modo alquanto naturale, con aspetti tradizionali come la devozione per Maria e i santi e – fra l’altro – richiami non infrequenti al diavolo.
Improbabile davvero, quindi, ipotizzare che la chiacchierata con Scalfari serva a Bergoglio per dire-non-dire chissà quale presunto contenuto teologico. Tuttavia essa ha indubbiamente un’utilità e uno scopo. Precisamente quello di mostrare un cristiano e un prete – che è papa – intento a mettersi in gioco a tutto tondo nel dialogo, senza lasciarsi ostacolare e irrigidire da uno schema dottrinale; un papa che si lascia provocare, rispondendo creativamente, senza disporsi in occhiuta difesa, lontano dall’apologetica, in una libertà consapevole e responsabile: come è la libertà stessa della teologia, qui esercitata – perfino con disinvoltura – dal custode della dottrina. (Va detto che anche Benedetto XVI, da papa, aveva scritto i suoi tre libri su Gesù esplicitando che essi non avevano valore magisteriale. Ma questo paragone sarebbe da approfondire guardando alle differenze oltre che alla somiglianza.) Non per mero sfizio o piacere intellettuale, che pure non sono negati: ma in ossequio all’adagio per cui salus animarum suprema lex Ecclesiae, la suprema legge della Chiesa è la salvezza delle anime. Fosse pure di un’anima sola. Qui Bergoglio si fa modello per gli operatori pastorali – cioè per tutti i cristiani: non a costo di confondere il popolo fedele, ma prendendosi il rischio, e probabilmente il gusto, di épater les (catholiques) bourgeoises oltre che di creare grattacapi ai comunicatori vaticani. Ad maiorem Dei gloriam, s’intende.