Con Maurizio Martina, e perché

27 novembre 2018

– Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che significavano qualcosa,
anche se eri troppo piccolo per capire il perché. […] Le persone di quelle storie
avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto.
Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa.
– Noi a cosa siamo aggrappati, Sam?
– C’è del buono in questo mondo, padron Frodo.
È giusto combattere per questo.

  

Un giudizio laico sugli ultimi anni: rivendicare i risultati, ammettere gli errori

Nella riflessione interna al PD trovo piuttosto speculare, e specularmente irresponsabile, l’immaturità di chi ritiene che in questi anni non abbiamo sbagliato nulla e quella di chi ritiene che abbiamo sbagliato tutto. Vedo la tentazione di proseguire, da un lato, in un’estenuazione del renzismo ortodosso; dall’altro, nell’antirenzismo militante. Mi sembrano entrambe non tanto delle strategie fuori tempo massimo, quanto due scaramanzie difensive contrapposte e immobilizzanti – e in questo drammaticamente convergenti –: sicuramente, nessuna delle due mi pare una soluzione. Tantopiù se cedono alla tentazione di trasformare ancora una volta il percorso congressuale in una delegittimazione continua, in una caricaturizzazione violenta, in una balcanizzazione che non potrà rimanere senza strascichi.

Occorre un coraggio profondamente laico, e un atteggiamento profondamente inclusivo, per ammettere gli errori fatti, rivendicando i risultati ottenuti. Dare la colpa agli altri non serve a niente. Il che non significa negare la pericolosità e la virulenza dei nostri avversari, delle loro strategie, dei loro strumenti, e in generale del clima che si è largamente impadronito del Paese: pericolosità non per il PD, ma per la qualità della nostra democrazia e del nostro dibattito civile. Una presa di coscienza – peraltro fortunatamente viva in non pochi settori della nostra società – che non ammette alcuna indulgenza, né alcun desiderio d’imitazione. Ma occorre riconoscere che non abbiamo saputo vedere la forza e la pervasività di ciò che stava arrivando, e che si autoproclamava imperiosamente alternativo alla nostra azione politica e di governo: azione che non è stata percepita, nonostante tutto, come sufficientemente credibile e sufficientemente condivisa.

Riformismo radicale e altri ossimori

È necessario ribadire un approccio riformista: ma questo dev’essere lo strumento per riscoprire finalmente, com’è indispensabile e urgente, il primato della politica, sottraendolo all’abbraccio mortale dell’illusione populista. Limitarci a deridere gli insuccessi del governo e delle amministrazioni locali dei nostri avversari, le cui promesse s’infrangono miseramente di fronte alla realtà, non è una risposta sufficiente. Occorre chiedersi a quali bisogni reali – ancorché sovente deformati – quelle promesse pretendono di rispondere: e dare ad essi risposte per nulla indulgenti, anzi franche e severe, e tuttavia allo stesso tempo solidali ed empatiche.

Occorre, certo, difendere strenuamente il campo della ragione, dei dati, delle competenze come unico spazio possibile per la discussione pubblica e per la stessa convivenza civile. Ma bisogna anche sollecitare uno sforzo collettivo di pensiero verso una nuova visione del mondo.

Essere riformisti non può mai significare la rinuncia totale a svolgere una critica al capitalismo e al liberismo: perfino quando – contingenzialmente – se ne auspichi e favorisca un migliore sviluppo e un più completo compimento. Non spetta alla sinistra innalzare il vessillo della mera libertà assoluta, né in senso economico né in senso etico: lo mostra, non bastasse altro, la gravità e l’urgenza della questione ambientale (che è forse l’unico elemento unificatore nella grande varietà delle esperienze progressiste più innovative e di successo negli ultimi anni). Anche se un’alleanza con le forze autenticamente liberali è strategica e indifferibile nell’attuale panorama politico internazionale.

 

Tornare a essere luogo

Per noi non si tratta soltanto di ritornare a una visione ad alto raggio, a una narrazione forte, di lungo periodo, che appare l’unico mezzo per non ricadere nell’occasionalismo, nel maquillage, nella gestione dell’emergenza e del quotidiano (basti pensare all’amministrazione locale), e affinché la comunicazione politica sia al servizio della politica, e non viceversa.

Si tratta soprattutto di tornare a essere un luogo credibile a cui chiamare le migliori forze del Paese – individui e corpi intermedi, con rispetto per i luoghi tradizionali ma con un occhio particolare alle nuove aggregazioni – per sollecitarle a formulare le loro istanze, per arrivare a proposte che sappiano a un tempo essere radicali e parlare a una pluralità di soggetti sociali. Ritrovare un modello di partito non pesante ma pensante (questa sì un’espressione felice di Matteo Renzi, cui purtroppo non è seguita, mi pare – per responsabilità non solo sua –, alcuna azione concreta); un centro di gravità, non luogo di compromesso ma connettore di storie e costruttore di esperienze: solido e consapevole, ma in virtù di ciò poroso e disponibile all’osmosi.

L’alternativa è un partito asfittico, tra una mediocrazia di superstiti funzionari di partito, parlamentari e amministratori e un esile corpo di militanti cui troppo spesso non viene offerta una struttura collettiva in cui crescere e formarsi nella discussione informata, nel confronto ordinato, nel rispetto. Insomma, una comunità. Di cui abbiamo dannatamente bisogno.

In questo contesto, una visione di centrosinistra ampia e aggregante, da cui spero mi si possa concedere di non aver mai deflettuto, non serve certo a non avere «nessun nemico a sinistra» – anzi, non di rado occorre dire dei «no» molto secchi, come non bisogna temere di riceverne –, ma a perseverare in quell’attitudine inclusiva che è alla base dell’esperienza stessa del PD.

 

Una scelta

Come qualcuno sa, avevo iniziato a stilare queste righe quando ancora non erano chiari i contorni della sfida congressuale. Certo, sentivo forte l’esigenza di una candidatura che rompesse lo schema, per me pernicioso, che ho delineato all’inizio. Che non fosse, al tempo stesso, velleitaria, di nicchia o di settore, perché questo tipo di candidature non perturba, ma anzi rafforza lo schema principale. Una candidatura che, senza invocare l’ennesima «nuova era», portasse semplici ragioni di unità: non confezionando col bilancino un’impossibile ricetta, ma aprendo con umiltà a un futuro non prigioniero di una qualche frazione del passato, a un orizzonte da traguardare insieme.

Per questo, piuttosto imprevedibilmente – anche se con più forza dopo l’importante manifestazione del 30 settembre –, mi sono scoperto  sperare che Maurizio Martina decidesse di candidarsi. Apprendere che Graziano Delrio – di cui nei mesi precedenti avevo auspicato la candidatura – stava sostenendo quella scelta è stata per me una conferma importante; così come considero una buona notizia, giusto stamattina, che Matteo Richetti abbia deciso di convergere entro un progetto più ampio.

Nel mio piccolissimo, portando con allegria il bagaglio delle mie scelte, dei miei errori e dei miei fallimenti, mi metto con estrema semplicità al servizio di questo progetto. Con la sola ambizione di dare una mano.

Le ragioni di questa mia scelta implicano il rispetto assoluto verso tutti gli altri candidati e i loro sostenitori; prima ancora, il rispetto del partito, dei suoi luoghi, dei suoi metodi. E anche dei suoi limiti e delle sue difficoltà. Implicano anche la volontà di portare avanti più che mai un confronto di idee e di proposte, senza temere ma anzi favorendo contaminazioni e trasversalità.
Non ha senso sostenere Martina se non si vuole far crescere tutto il partito. Tutto. Senza perdite, senza fratture, senza abbandoni silenziosi che sono, ciascuno, una nostra muta sconfitta. È l’unica logica che ritengo ammissibile, tantopiù in questo momento. Ecco, lo sarebbe perfino se vivessimo in tempi normali. Non so se mi spiego.

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Salvare il PD: no al governo col M5S (ma non basta)

3 Maggio 2018

Per me impedire l’accordo M5S-PD significa salvare il PD. Non so se giovedì, da Fazio, Renzi ha fatto questo, o se ha colto l’occasione improvvidamente fornitagli da un manipolo di suoi avversari interni o ex alleati per intestarsi una battaglia che, come mostrano non solo i consensi raccolti dal documento che gira da ieri in vista della Direzione, ma soprattutto le voci di elettori e militanti, è molto più trasversale.

Non so se l’accordo fosse veramente più avanti di quanto sia trasparito a livello ufficiale (nel caso, aver detto esplicitamente, con tanto di nomi, che alcuni attuali ministri del PD erano stati “apprezzati” è stato per Di Maio ingenuamente controproducente oltre che gravemente contraddittorio). Però appare verosimile che l’accordo fosse, per alcuni dei suoi sostenitori, il modo e il punto da cui partire per mettere Renzi definitivamente “di lato”, rendendolo inoffensivo. Operazione complicata, anche qualora i favorevoli in Direzione fossero più del previsto, dal momento che alla fine il coltello dalla parte del manico ce l’hanno i gruppi parlamentari, questi in gran parte di salda fede renziana (e quei voti in Parlamento servono tutti, o quasi tutti, anche contando l’appoggio di LeU e di qualche altro parlamentare qua e là). A me sembra verosimile che Martina abbia cercato, di per sé lodevolmente, di trovare una quadra maggiormente inclusiva rispetto alla semplice maggioranza renziana, ma abbia poi subìto l’accelerazione altrui: fino alla concreta possibilità che la Direzione si trovasse formalmente a votare l’avvio di un dialogo, ma sostanzialmente a dare il via alla confezione di un “pacchetto” già pretederminato. Da qui la reazione di chi si diceva contrario a qualunque dialogo: una posizione scomoda e apparentemente anche poco logica, ma nei fatti sanamente prudente. Del resto per Martina – che, fino a un voto dell’Assemblea nazionale, è semplicemente il vicesegretario di Renzi (nominato da quest’ultimo ma sulla base di un “ticket” ben chiaro durante il percorso congressuale) ora facente funzione a seguito delle dimissioni di quest’ultimo – sarebbe non solo temerario, ma anche scorretto distanziarsi dalla constituency originaria. L’assestarsi su precondizioni decisamente poco esigenti, in particolare non negare la possibilità di un governo a guida Di Maio – quindi la piena vittoria politica non solo dei Cinque Stelle ma anche del loro “capo politico”, a cui non sarebbe stato chiesto nessun sacrificio – era l’elemento che maggiormente faceva temere questo scivolamento. E che non per nulla è stato proprio il punto su cui Renzi – come ha notato Cerasa – ha chirurgicamente mollato il suo ceffone: l’accordo col M5S è morto nel momento in cui l’ex segretario ha sillabato che i voti dei senatori PD – a quanto gli constava – Di Maio se li poteva scordare. E i notabili del PD non hanno potuto opporgli nulla nei fatti: perché gli constava giusto.

 

Ma perché penso che l’accordo col M5S significhi l’annientamento del PD? Per ragioni tattiche e per ragioni strutturali.
Le ragioni tattiche dicono che in queste condizioni essere “quelli che possono far cadere il governo” è un’arma assolutamente spuntata. Che il PD da un lato finirebbe ad avere una funzione di freno alle iniziative del M5S, dall’altro a essere costretto all’inseguimento del M5S stesso: una tenaglia mortale, sotto il fuoco di fila delle armi propagandistiche non solo del M5S stesso ma anche del centrodestra.
Le ragioni strutturali – anche al di là delle considerazioni sui rapporti tra M5S e democrazia (non solo la gestione della democrazia interna, ma soprattutto la loro idea e il loro modo di trattare la democrazia rappresentativa nonché il pubblico dibattito) e della falsa vulgata per cui i Cinque Stelle sarebbero sostanzialmente “di sinistra”, su cui ci sarebbe da scrivere libri e libri – dicono che l’accordo significherebbe la fine della vocazione maggioritaria del PD, l’accodarsi a partito gregario: confidando in una base elettorale che il 5 marzo ha già mostrato, certo, minoritaria, ma che, lungi dal considerarsi una nicchia residuale, resta e si sente radicalmente alternativa al M5S non meno che al centrodestra. L’idea di un accordo col M5S significa da un lato un’eccessiva fiducia nella capacità istituzionale e amministrativa del PD, come se i grillini fossero tutto sommato innocui mattacchioni facili da tenere sotto controllo con un po’ di tecnica e un po’ di tattica, qualche virtuosismo e schermaglie parlamentari, oltre a una nutrita pattuglia di ministri e sottosegretari. Dall’altro significa una drammatica sfiducia nella capacità del PD di fare politica – in Parlamento e nel Paese –, di individuarsi e mostrarsi come polo minoritario, ma alternativo e dinamico, capace di fare proposte incalzanti e di inventare campagne d’opinione che sappiano provocare le altre forze e dettare l’agenda politica italiana. Chi ha orrore di un PD arroccato al proprio calante potere e incapace di ritrovare la connessione sentimentale con il suo popolo (almeno con quello rimasto) dovrebbe essere molto spaventato dalla prospettiva di un accordo.

Detto questo, non posso fermarmi sullo chapeau a Renzi e alla sua mossa magistrale. Non tanto perché non sia convinto del suo “rilancio” di un governo di tutti e di una legislatura costituente, dal momento che penso che questa proposta sia semplicemente un’abile mossa dialettica per togliersi dall’angolo della domanda sul “che fare”, ma non abbia una reale praticabilità, e che Renzi lo sappia benissimo.
Ma perché, come avevo scritto nei giorni successivi alle elezioni, ritengo che il Partito Democratico abbia l’assoluta urgenza di avviare un percorso ampio (anche congressuale, ma non immediatamente congressuale, e con tempi distesi) non solo di confronto coi militanti e i simpatizzanti ma soprattutto di ascolto dei cittadini – fuori dagli organismi di partito e dalle aule delle istituzioni – e delle loro paure, angosce, speranze; un percorso di riscoperta e di rinnovamento delle sue ragioni fondanti, di elaborazione di proposte politiche forti e adatte a questi tempi. Dire che gli elettori non ci hanno capito non basta. Ammettere di avere fatto errori non equivale a squadernarli, questi errori, e a decidere in che direzione drizzare la barra per porvi rimedio. Pensare che basti il ritorno di Renzi o che basti disfarsi di Renzi per evitare questo difficile percorso – che non potrà avere esiti scontati se vorrà essere autentico – rappresentano due errori uguali e contrari alla ricerca di un’ultima, maledetta scorciatoia: converrà tenercene ugualmente distanti. “Io vi scongiuro, o miei fedeli: restate fedeli alla terra!”.


Trasumanar e organizzar

9 marzo 2018

Pare già partita la giostra dei nomi per le prossime primarie del PD dopo le dimissioni di Renzi. Quelle dimissioni – premetto – erano inevitabili, e a questo punto è ovvio e necessario che il processo congressuale si debba aprire, mentre spetta al vicesegretario Martina garantire la gestione del partito in un momento politicamente e istituzionalmente molto delicato. Detto ciò, la “conta” mi interessa molto poco.
In questa fase mi interessano soprattutto i contenuti, ma molto più quelli sul metodo che quelli nel merito. Per intenderci, sosterrò chi mi promette, in maniera credibile e dettagliata, apertura e ascolto delle persone (NON limitato a quelle “del partito” e alla nostra rete “di comodo”); organizzazione decente, in modo da far fruttificare ogni disponibilità e ogni manifestazione d’interesse, creando finalmente il piano inclinato che porta dal simpatizzare alla militanza, in modi e tempi che siano consapevoli delle attuali modalità di vita e di relazione delle persone; funzionamento reale e democratico degli organismi eletti a tutti i livelli. I contenuti – possibilmente non in formulette del tipo “più a sinistra”, “più a destra”, “più di fianco” – sono fondamentali, figurarsi: ma, tantopiù in questa fase, hanno senso come esito di un processo di base che non può compiersi nei tempi – che pure spero più dilatati – della fase congressuale (parlo volentieri, non a caso, di congresso prima che di primarie). Il congresso non deve concludere questa fase: deve farla partire. Non è il tempo della fretta, non è il tempo delle scorciatoie, è il tempo della riflessione che diventa costruzione paziente e, possibilmente, condivisa. Ma questa riflessione deve cominciare, e subito.


Alle soglie del congresso PD

14 marzo 2017

Rispetto a tre-quattro anni fa Matteo Renzi ha certo perso consenso nel Paese. Cosa peraltro piuttosto prevedibile: prima era solo un addensarsi di aspettative che ognuno (a parte i fiorentini) poteva disegnarsi a suo modo, ora ha governato l’Italia per tre anni in cui molte decisioni sono state prese, molte leggi approvate, molti nodi tagliati in un modo o nell’altro. Il suo stile di comunicazione e di governo sicuramente ha contribuito a polarizzare opinioni e simpatie, i delusi ci sono e spesso sono tra i critici più taglienti.
Tuttavia, contemporaneamente, Renzi ha acquistato consenso nel PD. Non solo perché, banalmente, alcuni (a volte rumorosamente, più spesso silenziosamente) sono andati via dal PD per via di Renzi, mentre altri si sono avvicinati per lo stesso motivo. Ma anche perché Renzi alla fine è riuscito a convincere molti militanti e simpatizzanti che finora non gli avevano concesso la loro fiducia.
Certo, essere il segretario mette sicuramente Renzi in una posizione di vantaggio: per molti militanti, non solo tra i più anziani, “il segretario”, anche quando non si è tra i suoi sostenitori, è una persona che comunque merita rispetto e attenzione, che possono trasformarsi in apprezzamento. In questi anni ho visto molte persone del PD, che non definirei in alcun modo “renziane”, dare a Renzi un’apertura di credito. Al netto dei suoi difetti, limiti ed errori e di alcune scelte di governo meno condivise. Del resto una polarizzazione così forte, voluta sia da Renzi sia dall’oltranzismo di molti oppositori interni, non poteva che generare una scelta di campo che non ammetteva mezze misure.

Un passaggio fondamentale, da questo punto di vista, è stata la campagna per il referendum costituzionale. La sconfitta ha cementato solidarietà e desiderio di rivalsa anche tra i non renziani. Se per i principali oppositori interni una débacle così bruciante doveva significare tout court la fine di Renzi, per una parte importante del partito la brutalità dell’interruzione del triennio renziano ha generato una reazione netta e orgogliosa, non priva di qualche eccesso. Senza contare che la scissione – nata in ultima analisi da questa drammatica aporia di lettura dei fatti, e le cui reali proporzioni saranno valutabili solo tra qualche tempo – ha in ogni caso generato tra chi ha deciso di rimanere nel PD un ulteriore impulso alla coesione.
Del resto, a chi non condivide la “linea” di Renzi ma ha scelto di non abbandonare il partito (compresa una fetta importante della classe dirigente), la candidatura di Orlando, più di quella di Emiliano, ha offerto provvidenzialmente una modalità pienamente accettabile e competitiva di esprimere la propria posizione. Al netto di contrapposizioni utili ad attirare l’attenzione dei media più ancora dell’interesse dei militanti, peraltro, il progetto di Orlando sarà tanto più convincente quanto più capace di andare, anziché contro Renzi, oltre Renzi, ad allontanarsi dalla nostalgia del passato per prospettare in modo convincente quella tensione al futuro che ha reso inaccettabile per la maggior parte l’idea di tornare tra le braccia di D’Alema e Bersani.

Al Lingotto Renzi è stato molto abile nel trasmettere il messaggio di voler rimediare ai propri errori: in particolare l’eccessiva personalizzazione e la necessità di riconnettersi con temi e sensibilità propriamente “di sinistra”. Il “ticket” con Martina, l’aspetto più appariscente di entrambi i corni di questa correzione, è un elemento sufficientemente concreto (dietro Martina c’è un’ala numericamente e strategicamente importante del partito) per fugare il dubbio che si tratti di un mero restyling di comunicazione. E lascia ben sperare anche per uno dei problemi più seri: la gestione del partito, che è stata obiettivamente molto carente, e non ha bisogno tanto di proclami programmatici ma soprattutto di qualcuno che metta mano al magma in modo più deciso, autorevole e profondo di quanto sia avvenuto finora.

Questa strategia a due cerchi concentrici (quello interno alla mozione Renzi, con Martina, e quello esterno ad essa ma interno al partito, con Orlando) sembra capace non solo di frenare in modo sostanziale le fughe della sinistra interna ma anche di ridare spinta all’intero progetto: senza dimenticare che un terzo “cerchio utile”, esterno al PD ma non alla strategia complessiva, dovrebbe essere, non senza difficoltà e complicazioni, quello del “campo progressista” di Pisapia. E l’ala centrista? Nel complesso saldamente in mano a Renzi, ma sarà importante seguire eventuali fibrillazioni e posizionamenti; così come occorrerà tener sempre presente la dimensione geografica del partito: non solo per una candidatura connotata anche da questo punto di vista come quella di Emiliano; ma proprio perché nel rapporto spesso sfilacciato tra il suo centro e le periferie il PD si gioca molto del suo futuro.


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