Politica e curriculum: considerazioni inattuali (che fa Fico)

26 marzo 2018

Non ho mai partecipato alle polemiche e ai lazzi sui curriculum vitae dei ministri “non laureati”, o con la laurea “sbagliata” o comunque che non sarebbero “del ramo”, perché sono fermamente convinto che l’unica competenza necessaria per un incarico politico sia la capacità di rappresentare gli elettori (di qui la necessità fondamentale di distinzione assoluta tra incarichi politici e tecnici in uno Stato democratico). Del resto non si vede perché nel privato sia considerato normale, e anzi titolo di merito, che un manager possa tranquillamente lavorare in campi completamente diversi in virtù delle sue competenze manageriali –  e non settoriali – mentre un politico non dovrebbe poter operare allo stesso modo in virtù delle sue competenze politiche (politico e manager, va annotato, sono due figure ben diverse, ma non prive di tratti in comune)? Intelligenza politica significa anche capacità di selezionare collaboratori tecnici competenti, affidandosi ad essi senza peraltro lasciarsene condizionare.

Abbiamo avuto pessimi ministri della Sanità medici, ed eccellenti ministri della Sanità che medici non lo erano; sciagurati assessori all’Urbanistica con ottime referenze professionali, a fianco di ottimi colleghi che nella vita facevano tutt’altro. E ovviamente anche viceversa, perché nemmeno si sostiene che “essere del ramo” sia un handicap per un incarico politico, né tantomeno che l’acquisizione di competenze non possa tornare preziosa nel corso della carriera politica di una persona (acquisire competenze di qualunque tipo torna SEMPRE prezioso per qualunque cosa ci si trovi ad occupare, in modo spesso imprevedibile): certo, ci sono (al netto dei conflitti d’interesse grossolani) potenziali rischi (il medico che fa il ministro della Sanità con un punto di vista “da medico” che non gli permette di guardare agli interessi delle altre categorie coinvolte); ma la capacità del politico dev’essere proprio quella di contemperare e trascendere i singoli legittimi interessi in una visione generale di bene comune.

E questo è vero per ministri e assessori, cioè cariche di tipo settoriale. A maggior ragione per figure politiche a tutto tondo, dal sindaco al parlamentare.

(La ragione per cui sarebbe opportuno che il “politico di professione” fosse un’eccezione non risiede nel fatto che uno debba occuparsi, in politica, delle cose su cui ha maturato un’esperienza lavorando, ma nell’importanza che il politico sia economicamente libero dalla politica e non ricattabile, diciamo così, col pane quotidiano.)

Per questo criticare il curriculum vitae di un esponente politico che giunge a un’alta carica ha poco senso, mentre è assolutamente sensato criticare se, in precedenza, ha avuto cattivi risultati ricoprendo altri incarichi. La mancanza di esperienza non è, naturalmente, un titolo di merito, ma non è neppure possibile che la politica sia come quelle aziende che affiggono alla porta il cartello “cercasi apprendista – solo con esperienza”. Certo, sulla capacità o meno delle forze politiche di promuovere armoniosamente, senza balzi e senza intoppi, la crescita “dalla gavetta” dei propri aderenti sarebbe opportuno riflettere.

Più in generale, per criticare il curriculum vitae et studiorum di un avversario politico sarebbe opportuno, prima, accertarsi di appartenere a un partito che promuove una selezione rigorosamente meritocratica del proprio personale sulla base della competenza, anziché della fedeltà, che valorizza le proprie eccellenze di base e la cui classe dirigente non è composta in larga parte di persone che dipendono dalla politica e che nella loro vita non hanno mai lavorato.

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San Patrizio

20 marzo 2018

Croce di pietra e di muschio
di pioggia e di cielo
di luppolo e malto
radici nello scuro della torba
della terra del cuore
per guardare più alto.


Uomini (fragili) che ammazzano le donne

20 marzo 2018
Ancora donne uccise dai loro mariti, compagni, fidanzati, oppure da ex, da “pretendenti” (non trovo un termine meno arcaico), e così via. Per chi non ama il termine “femminicidio”, donne uccise per le difficoltà di una relazione, la decisione di terminarla, il rifiuto di darle inizio.
Devo dire che, nel tentativo di farmi una ragione di questo stillicidio di orrori, la prima cosa su cui fermo lo sguardo è questa terribile fragilità del maschio che si capovolge in ferocia, questa incapacità di gestire interiormente momenti anche molto difficili per volgerli all’esterno nel modo più insensato e brutale che in quel momento diventa, paradossalmente, l’unica possibilità di uscita percepita: uscita da tutto, dal momento che spesso si accompagna al suicidio.
A molti, in questi eventi terribili, sgomenta la concezione padronale e possessiva che l’uomo rivela avere della donna. Non nego assolutamente che sia così. Ma nell’atto di estrema violenza – contro l’altra ma, ripeto, spesso anche contro se stesso – scorgo soprattutto una radicale incapacità psicologica di gestire, contenere, risolvere la il dolore, il vuoto, il lutto che inevitabilmente – sia pure a livelli ben diversi – il rifiuto, il distacco, la separazione comportano. La radicale dipendenza dalla relazione affettivo-sessuale – non saprei sinceramente se come relazione umana, come modello di vita, come feticcio, come status symbol -, segno di incapacità di una sana autonomia mediante la quale la persona sa trovare in se stessi, e in una variegata pluralità di relazioni con il mondo esterno, il fondamento della vita: nella quale anche la relazione più forte con l’altra persona (la partner, i figli) prende valore prima di tutto come rapporto con l’altro da sé e non come proiezione ed estensione di se stesso.
La prevalenza del femminicidio rispetto all’opposto significa che questa incapacità è molto più diffusa negli uomini che nelle donne? Sicuramente, certo, vanno considerati altri fattori, prima di tutto i modelli sociali prevalenti: se l’idea che misurare la propria vita dal successo della propria relazione sentimentale è, sia pure con fattezze diverse, comune a uomini e donne (l’altra misura del successo è, sicuramente, il lavoro; quante volte i problemi lavorativi entrano drammaticamente in queste vicende: ma quasi sempre per gli uomini!), il modello per cui il problema si possa “risolvere” il problema affermando in modo estremo la propria potenza, la propria superiorità, a prezzo della vita dell’altra persona o delle altre persone, nonché spesso della propria, è sicuramente più forte e inveterato nell’uomo. Ma credo, da profano, che qui modello sociale e “pattern” psicologico si compenetrino in modo inestricabile. La donna, forse proprio in virtù dei residui (spesso tutt’altro che residui) di una condizione subalterna, viene tuttora educata a una diversa capacità di fronteggiare, risolvere, aggirare, i problemi. A una maggiore resilienza. (Forse è questa stessa maggiore resilienza a rendere la donna con una situazione familiare problematica meno propensa a far scattare la reazione di richiesta di aiuto all’esterno del nucleo familiare, specie quando significa investire direttamente la sfera pubblica; da qui il ruolo fondamentale della sfera sociale immediatamente esterna al nucleo familiare: i parenti, le/gli amiche/i.)
Ci sono sicuramente molte cose da fare a livello legale e giuridico: è chiaro che rifiutare la protezione dello Stato a donne che hanno segnalato e denunciato evidenti segni di ossessione che diventa stalking, di violenza, di prevaricazioni, è gravissimo; non sarà mai possibile né auspicabile eliminare la valutazione personale da parte di chi è deputato a decidere in questi casi (magistrati, forze di polizia, personale medico, servizi sociali), ma la legge e le procedure devono sterzare forte nel segno della protezione alla presunta vittima (perché a quel punto è già vittima), fino a prova contraria.
Ma sbaglieremmo se pensassimo che la vera prevenzione non sia lavorare per una società capace di formare persone complete, equilibrate, mature, in grado di gestire sofferenze reali, anche grandi, che possono purtroppo far parte della vita. Una società un po’ più coesa e solidale (che significa evitare il senso di oppressione di una società troppo “stretta” ma anche l’isolamento di una società troppo individualista), in cui i rapporti umani possano accompagnare le persone e prendersene cura nel momento in cui si trovano di fronte alla fine di una famiglia, di un amore, di un’aspettativa.

Qualche appunto per il futuro del PD

12 marzo 2018

Le voci ricorrenti per cui la Direzione del PD – appena iniziata – e la sua prossima Assemblea nazionale non sarebbero intenzionate a lanciare immediatamente il percorso congressuale mi confortano.
Sarebbe un errore gravissimo, come ho già segnalato nei post precedenti, risolvere in un’affrettata conta attorno a qualche nome e a qualche slogan – e a pochissime idee – i problemi che la tremenda sconfitta alle elezioni politiche ha messo bruscamente davanti al PD. Per fortuna sembra che questo errore verrà evitato.
Personalmente propendo perché l’Assemblea dia vita a una segreteria unitaria di reggenza, attorno a una figura che venga percepita come una garanzia per tutti, in modo da rappresentare tutte le sensibilità. Non mi metto a ragionare su questo o su quel nome, quelli che si leggono sui giornali possono probabilmente andare bene.
Questa segreteria NON potrà in alcun modo limitarsi a svolgere l’ordinaria amministrazione, in vista dello svolgimento del congresso – nel 2019, si dice, e spero vivamente che non sia prima.
Non solo perché avrà prima di tutto l’importante responsabilità di guidare la delegazione del partito nelle prossime consultazioni al Quirinale e nei passaggi successivi, che potranno essere molto delicati. (Come ho già scritto, sono tra quelli che auspicano che un governo politico espresso dai vincitori delle elezioni possa effettivamente insediarsi, nel rispetto della volontà degli elettori, e che il PD rimanga coerentemente all’opposizione.)
Ma soprattutto perché la vera preparazione del congresso dovrebbe consistere in un’azione robusta di ascolto, in grado di rendere il nostro partito più capace di intercettare le idee, gli umori e i sentimenti delle persone, di riconnetterci con quella realtà con cui probabilmente abbiamo spesso perso il contatto: sia al centro che nelle variegate periferie del nostro Paese, comprese quelle zone che abbiamo scoperto con sgomento non essere più “nostre”, o non più di tanto.
Non mi illudo: è molto difficile. In vista di un congresso ognuno cerca di organizzare le sue truppe fidate, di fare i propri conti su numeri il più possibile “sicuri”; aprire le porte, in qualunque forma, viene percepito come destabilizzante o addirittura inquinante. Però, posporre almeno di un anno i tempi del congresso apre la speranza di uno spazio disteso in cui dedicarci a un’opera terribilmente necessaria. A meno che uno non pensi – e temo che non in pochi, in realtà, lo stiano pensando – di rifugiarsi ancora una volta nella ridotta geografica dei propri fortini, in quella mentale delle proprie certezze. Ma di fortini, ormai, non ne sono praticamente rimasti: e quei pochissimi sono minacciati da ogni parte. Quanto a certezze, ecco, non so voi come siate messi.

In questi giorni, giustamente, molti circoli stanno chiamando i propri militanti e i propri iscritti per riflettere sul significato del voto del 4 marzo e su come ripartire per il futuro. E’ un bene. Ma non basta: il pericolo di ritrovarci sempre tra di noi, e di conseguenza di raccontarci sempre le stesse cose, spesso con le stesse parti in commedia, è troppo grande.  Occorre guardare fuori, in quel vasto mondo che scopriamo sempre più estraneo, ma che è quello in cui e per cui vogliamo agire. Occorre confrontarci, come scrivevo martedì, con le persone nelle loro aggregazioni e associazioni (non quelle “solite”, quelle che una volta rappresentavano interi mondi, ma che oggi troppe volte sembrano comode scorciatoie fatte apposta per evitarci di allungare il muso in mezzo alla gente “vera”) e nelle solitudini di una massa parcellizzata e polverizzata – e tuttavia viva. Aprire le porte, le finestre, se necessario i lucernari e i comignoli.
Un’operazione come questa presuppone organizzazione se non vogliamo che tanti sforzi generosi si esauriscano in una fiammata di volontarismo, e che siano limitati alle zone dove già ora il partito è più vivo e più saldamente innestato nei gangli della società che si rinnova. Intercettare le persone significa essere consapevoli di come e dove oggi le persone vivono, agiscono, si relazionano tra di loro; con un occhio alle nuove tecnologie, ma ancor più agli stili di vita delle persone, delle famiglie, delle aggregazioni più o meno durature. L’organizzazione è necessaria per valorizzare ogni ritorno (nel senso del “feedback”, ma anche delle persone che decidono di dare al PD un’altra possibilità), per offrire riscontri, per costruire comunità. E per creare comunità, naturalmente, serve comunicazione: bidirezionale, non polemica, orientata alla persona, unitiva, “calda” ma sfidante, che chiama a mettersi in gioco, a muovere un passo, a uscire dalle tastiere, a creare una dimensione condivisa.
Trovo questi passi – per quanto ovvi – fondamentali e preliminari a qualunque indicazione di merito possa comporre il percorso del prossimo congresso e, soprattutto, il futuro del PD. Senza questi accorgimenti e questi sforzi, qualunque approdo sarà autoreferenziale e perdente, in un cerchio sempre più ristretto e asfittico. Sapremo fare questo investimento a fondo perduto? Molto prima di interrogativi più che rispettabili, ma troppo stilizzati e affettati (più a sinistra, più a destra, eccetera), questa è la prima domanda a cui chi ha a cuore questo partito deve rispondere. In fretta.


Trasumanar e organizzar

9 marzo 2018

Pare già partita la giostra dei nomi per le prossime primarie del PD dopo le dimissioni di Renzi. Quelle dimissioni – premetto – erano inevitabili, e a questo punto è ovvio e necessario che il processo congressuale si debba aprire, mentre spetta al vicesegretario Martina garantire la gestione del partito in un momento politicamente e istituzionalmente molto delicato. Detto ciò, la “conta” mi interessa molto poco.
In questa fase mi interessano soprattutto i contenuti, ma molto più quelli sul metodo che quelli nel merito. Per intenderci, sosterrò chi mi promette, in maniera credibile e dettagliata, apertura e ascolto delle persone (NON limitato a quelle “del partito” e alla nostra rete “di comodo”); organizzazione decente, in modo da far fruttificare ogni disponibilità e ogni manifestazione d’interesse, creando finalmente il piano inclinato che porta dal simpatizzare alla militanza, in modi e tempi che siano consapevoli delle attuali modalità di vita e di relazione delle persone; funzionamento reale e democratico degli organismi eletti a tutti i livelli. I contenuti – possibilmente non in formulette del tipo “più a sinistra”, “più a destra”, “più di fianco” – sono fondamentali, figurarsi: ma, tantopiù in questa fase, hanno senso come esito di un processo di base che non può compiersi nei tempi – che pure spero più dilatati – della fase congressuale (parlo volentieri, non a caso, di congresso prima che di primarie). Il congresso non deve concludere questa fase: deve farla partire. Non è il tempo della fretta, non è il tempo delle scorciatoie, è il tempo della riflessione che diventa costruzione paziente e, possibilmente, condivisa. Ma questa riflessione deve cominciare, e subito.


In cerchio. In cerca.

6 marzo 2018

Il PD deve stare all’opposizione. Non per ripicca, ma per rispetto del volere degli italiani, che hanno punito i suoi governi e mostrato in modo del tutto evidente che vogliono qualcosa di molto diverso; e anche per volere dei suoi elettori (superstiti), che l’hanno votato perché fosse l’alternativa ai Cinque Stelle e alla Lega e non certo la loro stampella.
Penso che i dirigenti PD che stanno baloccandosi con l’ipotesi – peraltro non richiesta – di sostenere un governo dei Cinque Stelle siano molto ingenui o, al contrario, mossi da scopi per nulla limpidi e da un poco lungimirante istinto di sopravvivenza. Bene fa Renzi a rendersi garante contro tale idea. Altrettanto bene fa a dimettersi, e a farlo definitivamente. Lo dovrebbero imitare in parecchi.
Ma sono terrorizzato che una fase congressuale possa risolversi in una rapida conta, a parti invertite rispetto all’ultima, tra la maggioranza e la minoranza uscenti. Nuove primarie sarebbero un lavacro per pochi intimi, nelle salette convegni. Un “nuovo inizio” dalla gittata talmente ridotta da nascere morto.

Il cambio di paradigma dev’essere totale. Dobbiamo tutti spogliarci di noi stessi e ascoltare il nostro popolo. Che non è il fantomatico popolo di sinistra che inseguiamo come la pietra filosofale senza mai, curiosamente, trovarlo. È il popolo, le persone, la gente. Quella riunita nelle associazioni, nelle categorie, nei sindacati, negli ordini; e molto più spesso sparpagliata e molecolarizzata. Quelli che non abbiamo saputo raggiungere nelle nostre iniziative elettorali in cui ce la cantavamo e ce la suonavamo tra noi. Non da oggi, ma oggi più che mai. Quelli che non abbiamo saputo interrogare, capire, la dico grossa: amare; spesso sostituendo l’ascolto con l’irrisione, la superiorità morale, il far finta di niente, l’ignorare i dati quando non corrispondevano ai nostri schemi. Senza la pazienza di spiegarci, e più ancora di lasciarci spiegare.
Questo dovremmo trarre dal meglio delle nostre tradizioni. La connessione sentimentale, il popolarismo. La capacità di farci – aiuto – intellettuali per il popolo anziché intellettuali senza popolo incazzati col popolo. Nell’attesa che ne nascano del popolo. Dal popolo. (Ne abbiamo, incredibilmente, qualcuno, in periferie insospettate; io ne conosco un paio nella Bassa.)
Non accetto lezioni da sinistra, da destra, da nessuno che non sia prima di tutto disposto a imparare. (Non da me, ovvio.) Ma accetto volentieri chiunque sia disposto a dire la sua. Mi metto volentieri in discussione, spietatamente, con chi abbia voglia di fare lo stesso. Seduti in cerchio. Poi però ci giriamo e andiamo fuori.


Il cinque marzo. (Waterloo, Waterworld)

5 marzo 2018

Se la coalizione di centrodestra non avrà – come pare – i seggi sufficienti a formare una maggioranza, è giusto che il M5S e la Lega, le due forze che hanno trionfato alle elezioni di ieri, si prendano la responsabilità di dare un governo all’Italia. Una maggioranza di questo tipo sarebbe numericamente granitica in Parlamento e, mi sembra, politicamente non più complessa di quella che vedrebbe Forza Italia ridotta a un ruolo minoritario con Salvini e la Meloni. Il punto sarà lo scontro tra le ambizioni, entrambe legittime, di Di Maio e Salvini: su questo si innesterà il compito di Mattarella.

Tutto ciò che è più a sinistra esce massacrato: il PD e la sua “coalizione”, Liberi e uguali, il resto del florilegio. Enrico Sola scrive che questi risultati concedono il lusso di pensare che qualunque formula, qualunque alchimia, qualunque strategia sarebbe stata irrilevante.
Non so se sia così. Nel 2014 era sembrato che Renzi (il PD di Renzi) fosse diventato l’interprete di una voglia di cambiamento declinabile in termini solo parzialmente sovrapponibili a quelli ora espressi dai Cinque Stelle, e tantomeno a quelli della Lega. Non è accaduto. Difficile capire quanto ciò sia dovuto alle effettive scelte di governo e di dirigenza interna, quanto al linguaggio e allo stile espressi, quanto a una delegittimazione rimbombante da dentro a fuori del partito. Certo il PD di Renzi ha perso molto più a destra che a sinistra; e molto di quello che ha perso a sinistra è finito dritto ai Cinque Stelle e alla Lega.
Piaccia o meno, il PD di Renzi che voleva riformare il sistema è stato percepito come l’incarnazione del sistema. Coalizzando contro di sé chi temeva di essere danneggiato dalle riforme e chi pensava che il sistema non fosse riformabile. Che spesso sono le stesse persone, in un’Italia convinta che quelli da riformare siano sempre gli altri.
Nel frattempo – ma bisognerebbe fare un’analisi dei voti assoluti – il 40% del Sì al referendum sembra perduto. Certamente, non capitalizzato come sembrava si potesse sperare all’indomani del 4 dicembre. Questa forse è la sconfitta più immediata e più grande.

Ora, non illudetevi: io non so proprio cosa si debba fare. Se non diffidare da chi si presentasse con le sue ricette. E al tempo stesso ascoltare chiunque abbia un’idea, una critica, una proposta. Soprattutto, ascoltare fuori dei nostri cerchi ristretti. “In uscita missionaria”, per traslare un’espressione di papa Francesco. Il PD e ciò che in un modo o nell’altro gli gira attorno è abbarbicato, come in un telefilm apocalittico, a piccoli arcipelaghi – territoriali e sociali – superstiti di quello che un tempo fu il suo tradizionale dominio. Ogni rendita di posizione sarà residuale. Lungi da sperare a breve in una bassa marea, il livello del mare può ancora alzarsi. Temo non abbia gran senso erigere dighe di sabbia. Qualunque cosa significhi, dobbiamo costruire navi.


Per una ragionevole speranza

1 marzo 2018

Vorrei spiegarvi perché anche a queste elezioni voterò PD e perché vi invito a farlo anche voi.

Non credo che questo sia un partito perfetto: perché non esiste un partito perfetto, né possiamo pretendere un partito che ci rappresenti perfettamente, né un partito fatto solo di santi e di eroi. Il PD è un partito vero, o ci prova: non è “proprietà privata” di nessuno, è una comunità fatta di uomini. E nelle cose fatte di uomini ci sono difetti, errori, colpe…: avete presente, no? Stessa cosa per un governo!

Ma questo governo – i tre governi del PD: Letta, Renzi, Gentiloni – ha fatto un sacco di cose buone.

Alcune misure sono state molto criticate, per esempio il “Jobs Act” e la riforma della “Buona Scuola”. Condivido alcune critiche: per esempio, avrei voluto maggiori disincentivi al licenziamento e maggiori ammortizzatori sociali per le persone licenziate. Tuttavia, è innegabile che questa legge ha avuto una parte nell’agganciare la ripresa economica e nel far ripartire le assunzioni. Inoltre, si sono impedite le dimissioni in bianco, migliorate le norme per la maternità e la paternità, ed è stata fatta la legge contro il caporalato. Personaggi del calibro di Nadia Terranova e Carlo Calenda hanno affrontato con determinazione una quantità di gravi crisi industriali, portando in molti casi a risultati positivi.
Non possiamo neanche dimenticare che i famosi “80 euro” rappresentano il maggiore abbassamento del costo del lavoro a favore delle classi medie e medio-basse: quelle che maggiormente vanno protette dal rischio di povertà. Ed è stata abolita l’IMU sulla prima casa è stata abolita, escluse le abitazioni di lusso.
L’introduzione del reddito di inclusione, invece, è fatta per spingere le persone più disagiate a ripartire, non per lasciarle nella precarietà. Il “bonus bebè” è una misura concreta di sostegno alle famiglie. La legge sul “dopo di noi” ha dato per la prima volta una concreta garanzia alle famiglie con persone disabili. Ricordiamo anche la nuova legge sulla continuità affettiva riguardo alle famiglie affidatarie.

Sul fronte della scuola, confermando il sistema pubblico-privato, questo governo ha destinato alla scuola pubblica risorse mai viste prima, sia per le strutture sia per promuovere la formazione (anche con il bonus docente), l’innovazione e l’autonomia scolastica, e ha permesso l’assunzione in ruolo di centomila insegnanti.
Anche nella sanità, dopo i duri tagli degli anni precedenti, gli investimenti sono tornati ad aumentare, permettendo da ultimo un alleggerimento dei vincoli alle assunzioni e la stabilizzazione dei precari; si sono creati i nuovi Livelli essenziali di assistenza, per garantire a tutti parità d’accesso ai servizi; si è stabilito l’obbligatorietà dei vaccini.
Nel campo della sicurezza sono state finalmente destinate più risorse alle forze di polizia e sono stati dati ai sindaci maggiori strumenti per combattere la criminalità e il degrado. Parlando di legalità, è nata l’Autorità anti-corruzione ed è stato approvato il Codice anti-mafia il processo civile telematico e la storica legge sulla responsabilità civile dei magistrati Ma ricordiamo anche che il recupero dell’evasione fiscale non è mai stato così alto (da 12 a 20 miliardi l’anno)!

Renzi è stato criticato per aver salvato e accolto decine di migliaia di migranti, Minniti è stato criticato quando ha cercato di gestire il fenomeno anche con provvedimenti controversi: la realtà è che si è mantenuta coerentemente, in una situazione molto complessa, una posizione che coniugasse l’umanità e il realismo.

Il governo del PD ha approvato la legge sulle unioni civili: qualcuno non sarà d’accordo, ma a ripensarci non vi sembra strano, ora, che due anni fa una coppia dello stesso sesso non avesse alcun tipo di riconoscimento? Ed è stata approvata la legge sul testamento biologico, una legge profondamente equilibrata e basata sui migliori principi del nostro umanesimo.
È stato abolito il finanziamento ai partiti, sostituito da una forma di contribuzione volontaria (una mossa molto coraggiosa: perfino avventata per alcuni).

In campo ambientale dobbiamo ricordare almeno la legge sugli ecoreati, quella contro lo spreco alimentare, quella per la ciclabilità. Ritengo tuttavia che in questo campo, in cui ci sono stati anche provvedimenti controversi (per esempio alcuni di quelli compresi nel cosiddetto “Sblocca Italia”), sia necessario fare di più: e molte proposte sono effettivamente contenute nel programma per i prossimi anni.
Ma non possiamo dimenticare il varo di altre importanti e attese riforme: quella del Terzo settore, quella della Pubblica amministrazione, quelle relative al campo culturale (in cui si è vissuta una stagione di grande rafforzamento delle istituzioni culturali italiane, a cominciare dai musei); senza contare le tante misure per la semplificazione burocratica e fiscale.

Tutto questo – e molte altre cose – è stato fatto nel rispetto delle regole previste dall’Europa. Occorre continuare a lottare per un’Europa diversa, ma bisogna farlo con i conti a posto, mantenendo la nostra credibilità e la nostra affidabilità: non per nulla, il numero delle infrazioni della normativa europea registrate nei confronti dell’Italia in questi anni si è dimezzato.

È sufficiente? No. Bisogna andare avanti. In particolare per andare incontro alla precarietà, alle nuove emarginazioni, alle insicurezze di chi si sente smarrito di fronte all’economia globale.

Ma i risultati ottenuti sono importanti e vanno messi al sicuro. Non possiamo dare la guida dell’Italia a pericolosi dilettanti che si sono dimostrati privi di qualunque capacità anche nel governo locale, come il Movimento Cinque Stelle, e che mascherano dietro un’illusoria pretesa di onestà a tutti i costi una pericolosa ignoranza dei principi basilari della democrazia. Non possiamo ridare il Paese a chi pochi anni fa lo ha fatto precipitare irresponsabilmente nella crisi, come il centrodestra. Non possiamo fidarci di chi semina l’odio e la paura nascondendo una paurosa povertà di contenuti, come la Lega e i partiti di estrema destra, che strizzano allegramente l’occhio ai neofascismi.

Al di là delle contrapposte utopie, che spesso si sono rivelate perniciose, il Partito Democratico e le altre forze che compongono la coalizione di centrosinistra mi sembrano le uniche forze che possono guidarci in un percorso di RAGIONEVOLE SPERANZA.

Vi invito a votare PARTITO DEMOCRATICO e a suggerire quest’opportunità ai vostri familiari, amici, conoscenti (basta una chiacchierata, telefonata, un messaggio whatsapp: se volete potete usare anche questo piccolo “appello al voto”). Vorrei anche invitarvi a partecipare alle iniziative del PD, a iscrivervi, a diventare militanti: per provare a cambiare le cose che non vanno, per sostenere quelle che funzionano. Ma, ecco: una cosa alla volta. Partiamo da questo voto. Sembra niente. È tantissimo.

(Il programma del PD nel dettaglio lo trovate QUI.) 


Storia e psicologia di Barbazècch

1 febbraio 2018

Barbazècch è la maschera di Bazzano. La sua fama è oggi affidata al suo ruolo di “guida” del Carnevale dei Bambini, ultima sopravvivenza, peraltro in buona salute, dello spirito carnevalesco bazzanese che, già a fine Ottocento, si esprimeva, come altrove, in «società carnevalesche» che organizzavano feste private e vari divertimenti: quel «gran Carnevale» di cui Aldo Ramenghi, già negli anni Cinquanta, lamentava che fosse «morto da un pezzo».

La storia di Barbazècch sembra iniziare proprio in quel clima, peraltro propizio a elaborazioni erudite sulle proprie origini, anche se non sempre filologicamente corrette e anzi fantasiose (basti pensare al celebre “Carnevale degli Etruschi” a Bologna nel 1874). Più modestamente, i maîtres à penser (oggi diremmo, forse, gli influencer) di Bazzano vollero creare l’eroe eponimo del carnevale bazzanese a partire dall’epopea contadina di Giulio Cesare Croce. Il prolifico e popolarissimo scrittore e cantastorie, attivo nell’ultima parte del XVI secolo, cantore della vita rustica delle campagne tra Bologna e Modena, oggi è principalmente noto al grande pubblico per aver dato vita al personaggio di Bertoldo. Ciò non toglie che, nelle nostre terre, la commedia, o meglio «cosa ridiculosa» di maggiore popolarità e duraturo successo – fino a tempi recenti – sia stata La Filippa combattuta da duoi villani.

A un certo punto di questa commedia, Gaspare – uno dei due protagonisti, in contesa con Mingone – si mette a vantare le proprie ascendenze, e comincia così: «Es t’farò vder / Cun la rason in man, / Ch’i mia sun da Bazan, / E al prim dal nostr zuoc / Fu Barba Zec di Zuoc, / Ch’fu tre volt massar, / Cal n’haveva un so par / Ch’al vinzes in la littra, / L’intindia qull’itra e zitra, / Ch’sol far i nudar, / In far cont, e assazar / Al n’haveva parangon / In far una rason, / Al n’iera un par so / In qula villa, mo s’al so / Ch’al i en sia nianc ades, / Chi pses star appres. / Sì, l’haveva mil virtù, / Ma st’vuoi dir d’più, / Ch’pr quant se rasona / Al saveva Buov d’Antona / Alla compda e alla dstesa, / E s’un i fieva uffesa, / Al psea dir d’esser mort, / Ch’l’iera un hom fort. / Es iera bon suldà, / Ch’do bot al se truvà / Alla rocca d’Sauna / (T’sa pur dund’è Sauna), / E quand la rumpì, / Al si truvò in quij dì / Quel chal sie po al s’sa. / E qusì la nostra chà / Chminzò a fiorir in lù».
Non sappiamo se fu proprio questo il testo che ebbe a disposizione Leonida Ferrarini, tra i creatori della Società carnevalesca di Bazzano tra il 1869 e il 1870: queste commedie popolari, infatti, in virtù della loro diffusione che spesso avveniva per via orale, con canovacci o testi ricopiati di volta in volta, erano soggette a cambiamenti, aggiunte, improvvisazioni, che si depositavano in una quantità di varianti tali da richiedere un’analisi filologica complessa. Ma ciò premesso, si comprende bene come i versi di Croce potessero suggerire al Ferrarini di prendere Barba Zecch come «campione» della bazzanesità: la proposta fu così accettata dagli altri soci. È altresì ben chiaro che la vanteria di Gaspare rende immediatamente sospetto, per non dire assai improbabile, il lungo e variegate elenco delle «mil virtù» del suo antenato, e pone pertanto fin dal principio questa figura sotto un’aura comica, come si richiedeva, del resto, a una maschera di Carnevale. Vedremo come questo aspetto di vanteria improbabile sia poi rimasto al centro della figura di Barbazècch.

Com’è noto, l’appellativo «Barba» era un tempo diffuso nell’Italia Settentrionale per indicare lo «zio», ma era al tempo stesso una sorta di appellativo (potremmo paragonarlo, in qualche modo, all’attuale saluto giovanile “bella zio”) che denotava anche un certo rispetto, forse legato alla barba come idea di virilità e signorilità.
L’indicazione di provenienza «di Zuoc», tuttavia, poteva creare per i bazzanesi qualche perplessità: fu quindi interpretata, e modificata, nel senso che Barba Zecch venisse «dalla Ca’ di Zoca»: tale era il nome della casa che si dice sorgesse un tempo in corrispondenza dell’attuale piazza di Bazzano. Il nome completo della maschera è così rimasto fissato in «Barbazècch dla Ca’ di Zoca». In tal modo, Barbazecch veniva letteralmente radicato nel centro – storico e geografico – della vita del paese.

Il costume di Barbazecch fu ideato dal pittore Pio Passuti. Così lo descrive Aurelia Casagrande: «tricorno nero con coccarda, gabbana verde bordata in oro, panciotto a fantasia, calze bianche e scarpe con fibbie d’argento». Oggi il costume è stato modificato e semplificato (in particolare, il tricorno è sostituito dalla sola parrucca di stile settecentesco), ma viene conservato e tramandato con cura di Carnevale in Carnevale.

Dal 1870 inizia così anche la tradizione dei discorsi, o zirudelle, di Barbazecch: un’usanza che rispecchia quella tuttora viva nel Carnevale di molti altri luoghi delle vicinanze. Il primo autore fu Gaetano Bortolotti. La tradizione proseguì fin dopo la Seconda Guerra Mondiale, poi s’interruppe, col declino del Carnevale a cui abbiamo già accennato. Un declino a cui probabilmente non fu estranea l’aspra contrapposizione ideologica del dopoguerra, che si rifletteva anche nelle società carnevalesche rendendo più difficile l’impegno comune.

Il Carnevale a Bazzano rinacque grazie all’estro e all’impegno di don Bruno Barbieri, che fu prima cappellano a Bazzano dal 1956 e poi divenne parroco nel 1964, alla morte di mons. Angelo Romagnoli. Don Bruno Barbieri è tuttora ricordato – lo abbiamo commemorato recentemente – per aver creato numerose iniziative sociali tuttora vive nel paese: il Carnevale è una delle principali. Sull’esempio di quanto aveva ideato il cardinal Lercaro a Bologna, don Bruno fece nascere il «Carnevale dei bambini di Bazzano».
Puntare sui più piccoli fu un’idea vincente, che rese il Carnevale un’occasione partecipata da tutta la comunità: attorno ai bambini e ai ragazzi che sfilavano sui carri e sul trenino si radunò e ravvivò il superstite spirito carnevalesco del paese, con una serie di trovate di cui si rendevano protagonisti molti noti personaggi della Bazzano di allora. Anche oggi il Carnevale di Bazzano è un appuntamento molto sentito, che coinvolge i bambini delle scuole (materne ed elementari) e le loro famiglie che spesso si mettono a disposizione per organizzare la festa.

La sfilata di Carnevale – che oggi avviene nelle due domeniche precedenti la Quaresima – è tuttora aperta da Barbazècch in compagnia della sua consorte, detta popolarmente la Barbazecca (spesso l’onore viene affidato a una coppia appena sposata o in procinto di sposarsi), a bordo di un’auto scoperta guidata da un autista. Da oltre vent’anni – precisamente dal 1996 – nell’ultima parte della sfilata Barbazecch sale sul balcone che si affaccia sulla piazza, dove raggiunge lo «speaker» del Carnevale, e pronuncia nuovamente il suo discorso, che caratteriticamente alterna all’italiano qualche verso in dialetto bazzanese, e termina con l’augurio «ch’a psì ster luntan dal mel / fein a st’etar Caranvel!».

Sia durante la sfilata, sia dal balcone, Barbazècch e consorte lanciano caramelle alla folla: un aspetto, questo, che è condiviso anche da chi è a bordo dei carri, ma che per Barbazècch assume un significato particolare.
La figura di Barbazècch, infatti, rappresenta da tempo il bazzanese emigrato lontano dal suo paese in cerca di fortuna, e che ritorna “in patria” ostentando lo status e le ricchezze che è riuscito ad ottenere. Una fortuna su cui però – come si diceva sopra – grava più di un sospetto: non per nulla un tempo Barbazècch distribuiva zecchini, che finivano però per rivelarsi monete di cioccolato. I bazzanesi, mentre lo acclamano signore del Carnevale e approfittano della sua prodigalità, diffidano infatti intimamente di quell’ostentazione.
Si può ipotizzare che Barbazècch sia così caro ai bazzanesi proprio perché in questa dinamica essi ritrovano segretamente alcuni dei tratti più peculiari del loro carattere. Barbazècch è a un tempo – come Pietro Ospitali dice di Bazzano – «sustgnó e spanézz»: affettato e prodigo, ama fare «lo splendido» ma mantiene tuttavia quel tanto di sussiego. Per quanto abbia girato il mondo e fatto esperienza, non può fare a meno di ritornare al suo paese, e la sua più profonda realizzazione personale dipenderà sempre da come verrà ivi accolto. Disposto per questo a sperperare e scialacquare per mostrarsi più ricco e fortunato di quanto non sia, è ben consapevole nell’intimo che i suoi concittadini, che pure lo lodano e gli fanno buon viso, conservano nel loro cuore un sospetto che ben presto, terminata la festa, diventerà maldicenza e pettegolezzo. Forse perfino i bambini, dopo aver intascato le caramelle, se ne andranno con uno sberleffo. Una sottile amarezza, che si perde nell’allegria collettiva. In fondo, è Carnevale.


Di scelte, conseguenze, carriere, rese e rendite

20 luglio 2017

Durante l’università ero convinto che avrei proseguito la carriera dedicandomi alla ricerca, “restando dentro”, come si diceva (si dice?) in gergo. Per carità, sapevo bene che non sarebbe stato semplice, specie in un campo (lettere classiche! lingue antiche!) che non avrebbe attratto finanziamenti anche in anni di vacche meno magre di quelle già smunte di allora. Mi aspettava un futuro incerto, di lunghi sforzi e sacrifici oscuri senza garanzia alcuna di successo. E senza santi in paradiso che non fossero quelli sul calendario. Ma era la mia strada. Ne ero convinto. Fortissimamente.
O no? La mia determinazione granitica franò pochi mesi dopo la laurea. Senza alcun fattore esterno preciso. Ero nella sala di lettura del Dipartimento di storia antica, compulsavo i volumoni del Corpus Inscriptionum Latinarum alla ricerca di nomi ispanici di possibile origine osco-umbra quando a un certo punto mi resi conto che no. Che in realtà non avevo nessuna intenzione di sottopormi alla snervante incertezza di quella lunga fatica. Che era un destino nobile, coraggioso, forse eroico, tanto da poter valere una vita, ma non la mia. Che soddisfazione personale, qualità professionale e indipendenza economica potevano triangolare in maniera complessivamente più favorevole di così, e che se c’erano comunque dei dadi da gettare potevo provare a giocarli su un’altra scommessa, o su un altro paio di scommesse.
Quasi vent’anni dopo io sono questa cosa qua, e ci sono pure piuttosto affezionato – ma questa è un’altra storia. Per gli amici che hanno scelto la carriera universitaria, e hanno avuto il meritato successo dopo una gavetta più o meno lunga ma comunque assai faticosa, resta la mia ammirazione, forse un filo d’invidia, ma serena – se mi concedete l’ossimoro -, pacificata. Con la mia intermittente pigrizia che si erge all’improvviso a rassicurarmi che no, non ce l’avrei fatta. E il rimpianto per quelle ricerche che avrei potuto fare (c’erano, questi dannati osco-umbri d’Hispania? E come diavolo parlavano?), ma tutto sommato: non valevano la mia vita, ripeto.
E la convinzione che se avessi accettato di intraprendere quella strada lo avrei fatto consapevolmente, a viso aperto di fronte a difficoltà e incertezze dure e spietate. A un sistema sicuramente assai deficitario, carente, insufficientemente finanziato, scarsamente meritocratico, e probabilmente in larghe parti clientelare, nepotistico e corrotto. Che come cittadino continuo a denunciare chiedendo un cambiamento. Ma consapevole che se avessi deciso di buttarmici dentro, non l’unica ma la prima persona che avrei potuto accusare di un’eventuale, probabile (ma chi lo sa?) sconfitta sarebbe stata quella che vedo tutte le mattine, appena invecchiata, allo specchio.


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