Barbazècch è la maschera di Bazzano. La sua fama è oggi affidata al suo ruolo di “guida” del Carnevale dei Bambini, ultima sopravvivenza, peraltro in buona salute, dello spirito carnevalesco bazzanese che, già a fine Ottocento, si esprimeva, come altrove, in «società carnevalesche» che organizzavano feste private e vari divertimenti: quel «gran Carnevale» di cui Aldo Ramenghi, già negli anni Cinquanta, lamentava che fosse «morto da un pezzo».
La storia di Barbazècch sembra iniziare proprio in quel clima, peraltro propizio a elaborazioni erudite sulle proprie origini, anche se non sempre filologicamente corrette e anzi fantasiose (basti pensare al celebre “Carnevale degli Etruschi” a Bologna nel 1874). Più modestamente, i maîtres à penser (oggi diremmo, forse, gli influencer) di Bazzano vollero creare l’eroe eponimo del carnevale bazzanese a partire dall’epopea contadina di Giulio Cesare Croce. Il prolifico e popolarissimo scrittore e cantastorie, attivo nell’ultima parte del XVI secolo, cantore della vita rustica delle campagne tra Bologna e Modena, oggi è principalmente noto al grande pubblico per aver dato vita al personaggio di Bertoldo. Ciò non toglie che, nelle nostre terre, la commedia, o meglio «cosa ridiculosa» di maggiore popolarità e duraturo successo – fino a tempi recenti – sia stata La Filippa combattuta da duoi villani.
A un certo punto di questa commedia, Gaspare – uno dei due protagonisti, in contesa con Mingone – si mette a vantare le proprie ascendenze, e comincia così: «Es t’farò vder / Cun la rason in man, / Ch’i mia sun da Bazan, / E al prim dal nostr zuoc / Fu Barba Zec di Zuoc, / Ch’fu tre volt massar, / Cal n’haveva un so par / Ch’al vinzes in la littra, / L’intindia qull’itra e zitra, / Ch’sol far i nudar, / In far cont, e assazar / Al n’haveva parangon / In far una rason, / Al n’iera un par so / In qula villa, mo s’al so / Ch’al i en sia nianc ades, / Chi pses star appres. / Sì, l’haveva mil virtù, / Ma st’vuoi dir d’più, / Ch’pr quant se rasona / Al saveva Buov d’Antona / Alla compda e alla dstesa, / E s’un i fieva uffesa, / Al psea dir d’esser mort, / Ch’l’iera un hom fort. / Es iera bon suldà, / Ch’do bot al se truvà / Alla rocca d’Sauna / (T’sa pur dund’è Sauna), / E quand la rumpì, / Al si truvò in quij dì / Quel chal sie po al s’sa. / E qusì la nostra chà / Chminzò a fiorir in lù».
Non sappiamo se fu proprio questo il testo che ebbe a disposizione Leonida Ferrarini, tra i creatori della Società carnevalesca di Bazzano tra il 1869 e il 1870: queste commedie popolari, infatti, in virtù della loro diffusione che spesso avveniva per via orale, con canovacci o testi ricopiati di volta in volta, erano soggette a cambiamenti, aggiunte, improvvisazioni, che si depositavano in una quantità di varianti tali da richiedere un’analisi filologica complessa. Ma ciò premesso, si comprende bene come i versi di Croce potessero suggerire al Ferrarini di prendere Barba Zecch come «campione» della bazzanesità: la proposta fu così accettata dagli altri soci. È altresì ben chiaro che la vanteria di Gaspare rende immediatamente sospetto, per non dire assai improbabile, il lungo e variegate elenco delle «mil virtù» del suo antenato, e pone pertanto fin dal principio questa figura sotto un’aura comica, come si richiedeva, del resto, a una maschera di Carnevale. Vedremo come questo aspetto di vanteria improbabile sia poi rimasto al centro della figura di Barbazècch.
Com’è noto, l’appellativo «Barba» era un tempo diffuso nell’Italia Settentrionale per indicare lo «zio», ma era al tempo stesso una sorta di appellativo (potremmo paragonarlo, in qualche modo, all’attuale saluto giovanile “bella zio”) che denotava anche un certo rispetto, forse legato alla barba come idea di virilità e signorilità.
L’indicazione di provenienza «di Zuoc», tuttavia, poteva creare per i bazzanesi qualche perplessità: fu quindi interpretata, e modificata, nel senso che Barba Zecch venisse «dalla Ca’ di Zoca»: tale era il nome della casa che si dice sorgesse un tempo in corrispondenza dell’attuale piazza di Bazzano. Il nome completo della maschera è così rimasto fissato in «Barbazècch dla Ca’ di Zoca». In tal modo, Barbazecch veniva letteralmente radicato nel centro – storico e geografico – della vita del paese.
Il costume di Barbazecch fu ideato dal pittore Pio Passuti. Così lo descrive Aurelia Casagrande: «tricorno nero con coccarda, gabbana verde bordata in oro, panciotto a fantasia, calze bianche e scarpe con fibbie d’argento». Oggi il costume è stato modificato e semplificato (in particolare, il tricorno è sostituito dalla sola parrucca di stile settecentesco), ma viene conservato e tramandato con cura di Carnevale in Carnevale.
Dal 1870 inizia così anche la tradizione dei discorsi, o zirudelle, di Barbazecch: un’usanza che rispecchia quella tuttora viva nel Carnevale di molti altri luoghi delle vicinanze. Il primo autore fu Gaetano Bortolotti. La tradizione proseguì fin dopo la Seconda Guerra Mondiale, poi s’interruppe, col declino del Carnevale a cui abbiamo già accennato. Un declino a cui probabilmente non fu estranea l’aspra contrapposizione ideologica del dopoguerra, che si rifletteva anche nelle società carnevalesche rendendo più difficile l’impegno comune.
Il Carnevale a Bazzano rinacque grazie all’estro e all’impegno di don Bruno Barbieri, che fu prima cappellano a Bazzano dal 1956 e poi divenne parroco nel 1964, alla morte di mons. Angelo Romagnoli. Don Bruno Barbieri è tuttora ricordato – lo abbiamo commemorato recentemente – per aver creato numerose iniziative sociali tuttora vive nel paese: il Carnevale è una delle principali. Sull’esempio di quanto aveva ideato il cardinal Lercaro a Bologna, don Bruno fece nascere il «Carnevale dei bambini di Bazzano».
Puntare sui più piccoli fu un’idea vincente, che rese il Carnevale un’occasione partecipata da tutta la comunità: attorno ai bambini e ai ragazzi che sfilavano sui carri e sul trenino si radunò e ravvivò il superstite spirito carnevalesco del paese, con una serie di trovate di cui si rendevano protagonisti molti noti personaggi della Bazzano di allora. Anche oggi il Carnevale di Bazzano è un appuntamento molto sentito, che coinvolge i bambini delle scuole (materne ed elementari) e le loro famiglie che spesso si mettono a disposizione per organizzare la festa.
La sfilata di Carnevale – che oggi avviene nelle due domeniche precedenti la Quaresima – è tuttora aperta da Barbazècch in compagnia della sua consorte, detta popolarmente la Barbazecca (spesso l’onore viene affidato a una coppia appena sposata o in procinto di sposarsi), a bordo di un’auto scoperta guidata da un autista. Da oltre vent’anni – precisamente dal 1996 – nell’ultima parte della sfilata Barbazecch sale sul balcone che si affaccia sulla piazza, dove raggiunge lo «speaker» del Carnevale, e pronuncia nuovamente il suo discorso, che caratteriticamente alterna all’italiano qualche verso in dialetto bazzanese, e termina con l’augurio «ch’a psì ster luntan dal mel / fein a st’etar Caranvel!».
Sia durante la sfilata, sia dal balcone, Barbazècch e consorte lanciano caramelle alla folla: un aspetto, questo, che è condiviso anche da chi è a bordo dei carri, ma che per Barbazècch assume un significato particolare.
La figura di Barbazècch, infatti, rappresenta da tempo il bazzanese emigrato lontano dal suo paese in cerca di fortuna, e che ritorna “in patria” ostentando lo status e le ricchezze che è riuscito ad ottenere. Una fortuna su cui però – come si diceva sopra – grava più di un sospetto: non per nulla un tempo Barbazècch distribuiva zecchini, che finivano però per rivelarsi monete di cioccolato. I bazzanesi, mentre lo acclamano signore del Carnevale e approfittano della sua prodigalità, diffidano infatti intimamente di quell’ostentazione.
Si può ipotizzare che Barbazècch sia così caro ai bazzanesi proprio perché in questa dinamica essi ritrovano segretamente alcuni dei tratti più peculiari del loro carattere. Barbazècch è a un tempo – come Pietro Ospitali dice di Bazzano – «sustgnó e spanézz»: affettato e prodigo, ama fare «lo splendido» ma mantiene tuttavia quel tanto di sussiego. Per quanto abbia girato il mondo e fatto esperienza, non può fare a meno di ritornare al suo paese, e la sua più profonda realizzazione personale dipenderà sempre da come verrà ivi accolto. Disposto per questo a sperperare e scialacquare per mostrarsi più ricco e fortunato di quanto non sia, è ben consapevole nell’intimo che i suoi concittadini, che pure lo lodano e gli fanno buon viso, conservano nel loro cuore un sospetto che ben presto, terminata la festa, diventerà maldicenza e pettegolezzo. Forse perfino i bambini, dopo aver intascato le caramelle, se ne andranno con uno sberleffo. Una sottile amarezza, che si perde nell’allegria collettiva. In fondo, è Carnevale.
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