Discorso di David Sassoli, presidente del Parlamento Europeo, a Marzabotto nella ricorrenza dell’eccidio, il 6 ottobre 2019 – Discorso preparato e discorso pronunciato

11 ottobre 2019

Grazie.

Un saluto ai cittadini di Marzabotto, alle famiglie dei martiri, alle autorità civili e religiose, alle associazioni partigiane provenienti da tutta Italia, alle associazioni degli ex internati nei campi di concentramento, alle tante rappresentanze comunali che sono presenti, davvero tante. Volevo salutare i partiti e i sindacati, che sono strumenti della democrazia. Vorrei salutare con affetto le medaglie d’oro. E un ringraziamento particolare alla Sindaca di Marzabotto e al presidente Walter Cardi del Comitato regionale per le onoranze ai caduti di Monte Sole. Marzabotto per l’onore che Mi è stato concesso un grande onore di prendere la parola oggi in questa cerimonia che anno dopo anno non smette di interrogare la nostra coscienza.

La barbarie e la disumanità degli eccidi che sono stati compiuti dai nazifascisti nelle terre alle pendici di Monte Sole ci pone ancora molte domande e ogni anno offre spunti di riflessione a seconda del contesto politico e culturale in cui si svolge.

Fin dove è potuto arrivare l’odio? Fin dove si è spinta la guerra, la volontà di potenza, la strategia di sopraffazione? Fin dove il disprezzo dell’uomo?

Questo è un luogo della memoria. E La memoria è certamente un fardello perché chiede coerenza e costringe tutti a tenere gli occhi aperti, a non lanciare messaggi sbagliati, ad essere accurati nell’ nelle analisi, a discernere perché non è vero che l’orrore non potrà tornare, che le nostre libertà saranno sempre salde, che la democrazia accompagnerà per sempre la vita dei nostri paesi. No: non è vero, perché attorno a noi si sviluppano dinamiche che portano anche le istituzioni ad assecondare fenomeni di rimozione.

Confesso subito che quando giorni fa pensavo a questo all’appuntamento di stamattina c’era qualcosa che mi frullava nella testa. Non riuscivo a capire cosa, ma sentivo che si trattava di qualcosa di molto personale, se di personale si può parlare in tragedie collettive che hanno coinvolto e sconvolto generazioni di uomini e donne, provocato macerie: macerie di morti, macerie di città, macerie morali.

Concentrandomi meglio mi sono reso conto che si trattava della data della strage, di quei giorni dell’ottobre a cavallo tra il settembre e l’ottobre del 1944 che hanno per sempre reso Marzabotto luogo della memoria europea. E riflettendo sulla data mi è tornato alla memoria che negli stessi giorni in Jugoslavia si combatteva la battaglia per la liberazione di Belgrado, dura e feroce quanto la difesa di Stalingrado.

Un’associazione di pensieri personale, dicevo, che voglio condividere con voi: perché in quella battaglia c’era anche mio padre, che era arrivato lì; soldato italiano in Montenegro prima, partigiano nelle fila dell’Esercito di Liberazione della Jugoslavia dal ’43, prigioniero nel carcere tedesco di Mostar, ai lavori forzati nelle miniere di Bor, poi nel campo di concentramento di Saimjste alle porte di Belgrado.

Negli stessi giorni, qui c’erano tedeschi e fascisti impegnati nell’opera di annientamento di popolazioni civili innocenti, e al di là dell’Adriatico c’erano tedeschi che scappavano perché sulle sponde della Sava era finalmente arrivata l’Armata rossa.
Dal campo di Belgrado un gruppo di prigionieri riesce a scappare e a raggiungere il Comando russo di Sefkerin, nel Banato.

«Dai russi fui accolto molto bene – scriverà mio padre nella relazione per il Distretto militare di Firenze quando tornò una volta tornato a casa – ed avendo chiesto di combattere contro i tedeschi fui accolto in un battaglione ucraino col quale ho combattuto a Belgrado».

Mio padre non fu mai comunista, ma salendo fino a fin qui mi sono chiesto cosa avrebbe pensato, e con lui i suoi compagni, se qualcuno gli avesse detto che la sua guerra contro i nazisti, e la guerra che impegnava l’ stava impegnando i soldati dell’Armata rossa, fosse stata un giorno equiparata e associata solo di sfuggita alla criminalità nazista!

Cos’avrebbe pensato?

E cosa avrebbero pensato quanti, dopo l’8 settembre, gli eccidi, le stragi, i rastrellamenti, e le deportazioni, ebbero la forza di compiere la loro scelta di vita per la liberazione dell’Italia del nostro Paese? Cos’avrebbero pensato anche loro?

E allora ripetiamolo insieme, perché siamo qui per questo oggi, perché altrimenti, Walter, non avrebbe senso essere qui:, che il fascismo e il nazismo non sono opinioni, ma sono crimini!

Se io per primo, ma tutti eh, siamo tenuti a rispettare le Istituzioni, questo non significa essere d’accordo con conclusioni imprecise e confuse, perché la storia non si scrive a maggioranza e la storia non si scrive nei nostri Parlamenti. Rispetto non significa condivisione. Rispetto non significa alimentare confusione fra chi fu vittima e chi fu carnefice.

Capire le ragioni di giovani tedeschi che si spinsero fin qui a sterminare gente inerme – molti dei quali, come scrive Giuseppe Dossetti, poco tempo prima avranno anche partecipato al Te Deum – non può significare giustificarne ideologia e responsabilità.

Bene ha fatto la signora Sindaca e con lei il Comune di Marzabotto a richiamare tutti, anche le istituzioni europee, ad evitare equivoci, alimentare revisionismi, pronunciare giudizi superficiali.

Io raccolgo il loro invito e mi impegno perché presto vi sia un confronto fra il Comune di Marzabotto e il Comitato regionale presieduto da Walter Cardi per le vittime di Marzabotto con i gruppi parlamentari al Parlamento Europeo europeisti che hanno condiviso quella risoluzione. Abbiamo bisogno di spiegare, di spiegare, far conoscere e di condividere, magari insieme.

Dire mai più totalitarismi in Europa, in un momento in cui le forze estremiste e neofasciste nei nostri paesi hanno ripreso fiato, è utile e doveroso. Intervenire nella riscrittura della storia, invece, può prestarsi a distorsioni.

La guerra di liberazione dal nazifascismo in Europa è cosa molto precisa e ha consentito a noi di godere di libertà fondamentali, di ricostruire sistemi democratici, di lanciarci in un’avventura straordinaria come quella dell’unità europea.

Equiparazioni improprie minano la nostra identità; revisionismi superficiali o interessati a giustificare quello che non può essere giustificato, provocano la perdita della nostra identità e non rendono giustizia, ad esempio, a quanti nelle formazioni partigiane comuniste e nel Partito comunista italiano hanno lottato insieme ad altri democratici per la nostra libertà, e hanno contribuito alla nascita della nostra Repubblica, sono stati fra i protagonisti alla Costituente e non hanno mai smesso di impegnarsi a per rafforzare il nostro sistema democratico.

Noi non possiamo dimenticare da dove veniamo.

Il contesto in cui si svolge questo anniversario ci costringe oggi a riflettere sui rischi della perdita della di memoria.

«Quando si dice che la storia è maestra di vita – diceva un grande storico, Gaetano Salvemini, antifascista ed esule – quando si dice che la storia è maestra di vita, diceva, si rischia di dire una grande banalità, perché la storia non ci dice cosa dobbiamo fare – proseguiva Salvemini –, ma ci aiuta a capire meglio chi siamo, a conoscerci meglio, a sapere da dove veniamo».

L’Italia democratica è nata dal punto di massimo dolore.

Tornare ogni anno a Marzabotto significa riflettere se lontano da qui si è riusciti ad evitare l’oblio. Perché è lontano da dai luoghi come questo che la seduzione ideologica e diabolica dei fascismi e del nazismo si presta a presenta in forme nuove e corrosive.

È accaduto una volta, caro amico. Può ancora accadere ancora. E dobbiamo sentire l’impegno, ha scritto don Giuseppe Dossetti, «per una lucida coscienza storica», per rendere sempre testimonianza veritiera agli eventi che sono accaduti. Per impedire negazioni e amnesie, magari dettate da volgari opportunismi, come ha detto bene la sindaca di Marzabotto. Ma Dossetti ha anche aggiunto che la coscienza storica da sola non basta.
La nostra coscienza deve essere anche «vigile», capace cioè di «opporsi a ogni inizio di sistema di male, finché ci sia tempo».

Dossetti era uomo acutissimo, attento e sensibile ai segni dei tempi.

«Sentinella, quanto resta della notte?»

La sentinella non ha nostalgia del giorno passato. Vuole assicurare serenità e benessere alla propria comunità nel giorno che sta per nascere.

Il ricordo di comunità, che oggi compiamo, ci fa sentire figli della grande storia. Quella che ha provocato milioni di morti in Europa e nel mondo. Quella ha toccato il culmine nell’Olocausto. Quella che ha aperto la strada della Liberazione e ad una civiltà, certamente imperfetta, ma che è stata capace di promuovere pari dignità, diritti universali, crescita, opportunità, sicurezza sociale.

Questo ricordo, però, ci chiama anche ai nostri doveri di cittadini, di democratici e di europei. Alla nostra funzione di sentinelle del domani dei nostri figli. Non possiamo addormentarci. Non possiamo bendarci gli occhi.

Ecco perché, parafrasando Piero Calamandrei, invito i miei colleghi del Parlamento Europeo se vogliono vedere dove è nata l’Europa, a venire a Marzabotto, a leggere le date di nascita e di morte delle vittime, come abbiamo fatto stamattina, a guardare le foto sbiadite dei martiri, a pensare a come erano stati educati negli anni Venti del ’900 i loro assassini, a cosa si erano formati uomini che anche la fede non aveva reso immuni dall’orrore, e a chiedersi perché nella scala di questo sacrario sono state evocate le città e i luoghi delle città martiri in cui quella disumanità si è espressa.

Qui potranno trovare le loro radici perché il nazismo, come insegna il prof. Enzo Collotti, era impegnato in un nuovo ordine europeo che a partire proprio dall’invasione della Russia, e dalla tenace resistenza del popolo russo, ha cominciato ad entrare in crisi e ha capovolto la storia  alla fine è stato fermato. Ecco perché qui vi sono le nostre radici.

Ma non solo quelle dell’Italia repubblicana, non solo quelle o dell’Europa delle istituzioni democratiche.

No, qui si custodisce anche qualcos’altro: si custodisce il diaframma fra noi e il disumano, che significa il modo con cui noi guardiamo alla vita e alla sua dignità e alla nostra capacità di indignazione ogniqualvolta vediamo per diritti non garantiti, soprusi perpetrati nell’indifferenza, vite umiliate, ingiustizie mai risarcite. Qui si custodisce anche tutto questo.

I luoghi della memoria, d’altronde, non servono a far ricordare a chi non potrà mai dimenticare il baratro dell’umanità, in cui ragazzi tedeschi e fascisti vennero su questi monti ad assassinare dei bambini, a mitragliare le donne, a scannare uomini inermi in un «delitto castale», come lo definì Dossetti con la precisione del giurista.

Questi luoghi servono anche a chi è vive lontano da qui e alle istituzioni politiche a ricordare loro che la democrazia non si conquista una volta per sempre, che le nostre libertà sono fragilissime perché basta qualche investimento sui social per manipolare l’opinione pubblica, che i nazionalismi sono ancora incubatori di conflitti fra le nazioni europee. E noi siamo ancora convinti, come disse il presidente Mitterrand, che «il nazionalismo è la guerra». Di questo noi siamo convinti.

Ecco perché la seduzione ideologica e diabolica dei fascismi e dei nazisti deve essere evocata, ricordata, studiata, compresa, condannata ovunque, ma soprattutto lontano da questi luoghi.
È nelle facoltà di scienze, nelle nostre università che andrebbe messa una bella lapide che dica: «Erano scienziati coloro che firmarono il Manifesto della razza» (e scienziati tanti dei perseguitati). È Oppure nelle facoltà di diritto, di giurisprudenza che andrebbe messa una bella lapide che ricordi: «Erano magistrati coloro quelli che firmarono le condanne a morte della Rosa Bianca» in Germania. Erano magistrati.

L’Europa non è il frutto di una ribellione anticoloniale come gli Stati Uniti e non ha nemmeno una storia imperial-confessionale come quella della la Russia.

Noi cittadine e cittadini ddell’Europa siamo la risposta ai nostri errori, l’argine agli orrori che abbiamo perpetrato e di cui abbiamo verificato di essere capaci. Noi portiamo insieme il peso della colpa, della redenzione, della liberazione, e anche il dovere della vigilanza.

Prendete il razzismo e l’antisemitismo: noi lo abbiamo ripudiato in modo netto, sia in Europa che sia in Italia. Ma la scorsa settimana è venuto a trovarmi il Comitato dei Rabbini d’Europa per segnalarmi che famiglie ebree europee stanno lasciando lasciano l’Europa per un vento antisemita e razzista che ha ripreso a montare nei nostri Paesi… Vigilanza, dunque , nella difesa intransigente dei diritti e del diritto ad avere diritti.

Oggi ricordiamo le vittime di Marzabotto; lo facciamo con il capo chino. I loro nomi e i loro volti sono per noi memoria perenne, che nutre ancor più la responsabilità che abbiamo verso il bene comune e verso le generazioni che verranno. Memoria di persone che sentiamo come fratelli e sorelle. Proprio per questo parliamo di memoria di comunità e di memoria europea.

Viviamo un tempo affascinante e al tempo stesso pericoloso.

Le trasformazioni in atto offrono opportunità straordinarie, che dobbiamo saper utilizzare per migliorare la qualità della nostra vita, per correggere lo sviluppo dell’economia, e della società, nel senso della sostenibilità sociale, e ambientale, per ridurre le distanze, e le diseguaglianze. Ma il nostro tempo alimenta anche paure, egoismi, rancori, chiusure, violenze, talvolta irrazionali, e pericolose tentazioni di ritorno indietro.

Per avere un’assicurazione sulla vita delle nostre democrazie dobbiamo rafforzare lo spazio europeo.
L’Europa stessa è nata nel segno dell’apertura, della cooperazione, della consapevolezza di che abbiamo tutti un destino comune. È nata da una grande visione, da un ideale coraggioso che solo poteva trarre forza da una tragedia così immane come quella provocata dalla seconda guerra mondiale e dal folle disegno nazifascista nazista.

«Nel crogiolo della Resistenza – è scritto in un foglio clandestino del Movimento federalista europeo, L’unità europea, diffuso proprio nei giorni in cui c’era si compiva l’eccidio di MarzabottoNel crogiolo della Resistenza – scrivevano – si è scoperta la solidarietà fra i popoli liberi del Continente. Si è scoperta la nostra comunità di destino, la quale vuole che libertà, pace e progresso siano dei beni di cui tutti i popoli europei devono congiuntamente godere o che tutti devono congiuntamente perdere». Pensate: questo veniva scritto in quei giorni terribili di dolore che si annidavano sulle pendici di Monte Sole.

Sì, Perché l’Europa è ancora il nostro destino. Ecco perché all’inizio di questa legislatura, dopo il consenso ricevuto dai cittadini, serve oggi, adesso, uno sforzo per rafforzare gli strumenti della democrazia europea.

È stato detto bene stamattina in chiesa: non partiamo però da zero perché in Europa in questi 75 anni è successo qualcosa di straordinario, mai accaduto altrove e mai accaduto prima.

Che nazioni abituate a conflitti e a farsi la guerra oggi discutono e si confrontano in uno spirito di cooperazione, di pace ed avendo tutti come riferimento le norme del diritto europeo. Per noi democratici questi anni non sono passati invano come vogliono invece farci credere coloro che vorrebbero dividerci e farci tornare indietro. No: noi viviamo bene con le nostre libertà.

La libertà innanzitutto di poterci esprimere, di poterci muovere, di poterci innamorare senza costrizioni, di poter vivere la propria sessualità senza discriminazioni, di non poter essere reclusi per le nostre opinioni, di vivere in paesi in cui la pena di morte è condannata per sempre e in cui la democrazia e lo stato di diritto sono il filo conduttore per poter rafforzare l’Unione Europea.

Siamo anche fieri di un’altra cosa, che non è consueta fieri di tutto questo e anche del fatto, non consueto fuori dallo spazio europeo, che ogni Stato membro sia sotto costante esame e se violazioni allo stato di diritto avvengono vi siano procedure di infrazione capaci di riaffermare i valori comuni. Sta succedendo, eh. Sta succedendo nei confronti di alcuni paesi europei e questo dimostra la nostra vitalità civiltà.

Riprendo un pensiero del presidente Sergio Mattarella, che salutiamo con affetto e riconoscenza, proprio contenuto proprio nel messaggio che abbiamo letto prima nella dichiarazione per il 75° dell’eccidio di Marzabotto: la storia, anche quella dolorosa, ci fa dire «mai più» ai nazionalismi che esasperano i contrasti.

L’Unione Europea nasce «unità nella diversità» e può testimoniare con orgoglio questo valore al mondo intero. Il pianeta ha bisogno di un’Europa all’altezza dei suoi ideali, ideali di giustizia che non si raggiungono una volta per sempre. Sappiamo che l’Europa non è quella che noi vorremmo. Che ha limiti, lacune, e nel suo spazio e nei nostri Paesi si producono troppe ingiustizie. Che tanti gli egoismi ci frenano e le istituzioni hanno bisogno di maggiore coraggio politico. Ma non c’è un’altra strada che possiamo percorrere e noi dobbiamo farlo con le opinioni pubbliche, non con i poteri forti. Con i cittadini. Questo deve renderci più coraggiosi.

A volte paure ed opportunismi ci spingono a pensare che si può rallentare l’integrazione, che si può derogare alla solidarietà, che si possono fare eccezioni alla tolleranza, al rispetto degli altri, che si può persino transigere sull’umanità delle nostre scelte.

Guai se per paura o per demagogia amputeremo le nostre più autentiche radici. Non sfuggiremo ai pericoli nascondendo il nostro volto, cambiando il nostro essere, e il nostro modello sociale. Così la daremmo solo vinta alla paura. E ai tanti che cavalcano la paura.

Cento anni fa in un famoso discorso ai Fasci di combattimento, Mussolini disse diceva ai suoi: «Dobbiamo riuscire a trasformare la paura in odio».

Purtroppo sono parole molto attuali.

Noi cent’anni dopo qui a Marzabotto possiamo dire che invece dobbiamo trasformare la paura in solidarietà. Perché la solidarietà è moltiplicatore di benessere e ed è moltiplicatore di sicurezza per tutti. Ma questo è possibile solo con una società viva, plurale, dialogante, democratica, sorretta da principi di umanità.

Ieri mi chiedevano: “Cosa ne pensa della legge sullo ius culturae?”. C’è qualcuno che pensa che approvare quella legge sia fare un favore a Salvini. Io penso che se non si approva quella legge si fa un favore a Salvini.

«Sogno un’Europa di cui si possa dire che il suo ultimo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia», ci ha ricordato papa Francesco al Premio Carlo Magno. Anch’io lo penso, dobbiamo pensarlo tutti: mai rinunciare, abdicare alla nostra umanità. Ma dobbiamo restare molto saldi.

E a 75 anni dall’eccidio di Marzabotto non dimenticare che qui, nel dolore e nella violenza, fra le raffiche e le urla, nella pietà che non si è manifestata, è nata la nostra Repubblica e l’Europa democratica e che purtroppo vi sono virus che cercheranno sempre di farci tornare indietro.

Uno in particolare, il più pericoloso, che è quello dell’indifferenza.

«L’indifferenza – ripete la senatrice Liliana Segre, che salutiamo«è l’apatia morale – ripete la senatrice Liliana Segre – di chi si volta dall’altra parte: e succede anche oggi verso il razzismo e gli altri orrori del mondo».

Non voltiamoci mai dall’altra parte, non pensiamo mai che non ci riguardi.

E allora essere oggi a Marzabotto riacquista per tutti un grande significato per la nostra vita. Grazie.

Legenda
Il testo in nero corrisponde al discorso scritto ed effettivamente pronunciato.
Il testo in beige corrisponde alle parti aggiunte a voce rispetto al discorso scritto.
Il testo barrato corrisponde alle parti del discorso scritto che non sono state pronunciate a voce.
Vengono indicate con gli stessi mezzi frasi e parole spostate, nonché lievi differenze testuali. La base della punteggiatura è quella del discorso scritto, ma è stata modificata in modo da corrispondere al discorso effettivamente pronunciato.
La fonte del discorso scritto è il testo pubblicato sulla pagina Facebook “PD Castelnuovo di Porto”. La fonte del discorso pronunciato sono i video pubblicati da Paolo Gatti sul suo profilo Facebook. Ringrazio entrambi e inoltre, rispettivamente, Simona Biagi e Anna Maria Testa per avermeli segnalati.

 

Pubblicità

Venti corpi nella neve: una presentazione (domenica 11 con Giuliano Pasini) e una recensione (qui!)

9 marzo 2012

Ho iniziato questa recensione quando Venti corpi nella neve non era ancora un fenomeno letterario e aveva solo iniziato a scalare le classifiche nazionali e a macinare ristampe. Se no avrei dovuto elencare un motivo d’imbarazzo in più.
Bene: insieme all’autore, Giuliano Pasini, e a Mauro Pirini, presenterò Venti corpi nella neve domenica 11 (dopodomani) alle ore 18.00 a Bazzano all’Osteria Porta Castello di piazza Garibaldi.
L’aperitivo letterario è organizzato con Libreria Carta|Bianca (ringrazio volentieri Beatrice Rinaldi, Stefano Massari e Irene Bartolini, nonché Martina Suozzo di TimeCrime e le ostesse). Siete tutti caldamente invitati. 

Nel recensire Venti corpi nella neve devo confessare tre motivi d’imbarazzo. Il primo, naturalmente, la mia lunga amicizia con Giuliano (e quella, più breve ma altrettanto bella, con la cara Sara). Il secondo, il fatto che il romanzo contenga una mia poesia (che Giuliano mi chiese di scrivere per l’occasione), che a questo punto è già diventata di gran lunga la più letta di tutte le mie poesie. Il terzo: ebbi l’occasione di leggere in bozza La giustizia dei martiri, cioè la prima versione (e quindi la mia bozza era una versione primissima) di questo stesso romanzo, quella che vinse il concorso Io Scrittore (che ora vede Giuliano impegnato sul fronte dei curatori) e che poi scalò le vette (pur non impervie, in Italia) delle classifiche di vendita degli e-books.
Ammetto che avevo qualche ritrosia a cominciare la lettura, proprio perché mi sentivo legato a quella prima versione della storia. Avevo qualche timore che il laborioso editing che Giuliano aveva accettato d’intraprendere per Fanucci finisse per snaturare il romanzo che conoscevo, e che trovavo assai bello nella sua linearità, un po’ magra, un po’ legnosa proprio come i boschi dell’Appennino d’inverno. Del resto faccio il redattore e so quante nefandezze a fin di bene si possono consumare nelle case editrici: siamo capaci di “normalizzare” il talento con la stessa buona fede con cui i colonizzatori civilizzavano i “selvaggi”.

Mi sbagliavo di grosso. Evidentemente, quelli di Fanucci (che ha creato il nuovo marchio TimeCrime “lanciandolo” proprio col romanzo di Giuliano oltre che con due thriller americani) hanno saputo accompagnare l’autore nella ricerca del meglio di se stesso e di ciò che aveva saputo esprimere. Venti corpi nella neve è decisamente più solido, più robusto e “compiuto” rispetto al buon vecchio La giustizia dei martiri. Ed è un gran bel noir. Un giallo “appenninico” (l’ambientazione è sull’alto Appennino tra Modena e Bologna, le due città che la narrazione arriva a lambire) sulla scorta di Macchiavelli e Guccini: col topos del borgo montanaro, in cui l’eccesso di folklore è respinto dal sobrio benché affezionato realismo; e con tanto di memorie di guerra – la guerra: l’ultima, e in particolare la guerra partigiana (e un episodio drammatico che ricorda da vicino la strage dei boschi di Ciano) – che assumono da subito un peso decisivo. Ma con un elemento paranormale – la “danza”, singolare modalità con cui il protagonista percepisce sensazioni appartenenti alle persone coinvolte in un omicidio – che rimanda piuttosto ad altri teatri della narrativa di genere, in particolare – come altri hanno già ben potuto osservare – quello americano (Faletti è precisamente l’eccezione che conferma la regola).

I personaggi appaiono dotati di spessore: non solo quelli che presumibilmente avranno un futuro (fin dal sottotitolo si percepisce l’intenzione di una serialità) come Roberto, Alice, Bernini, sui quali il lavoro di approfondimento si percepisce a occhio nudo; ma anche quelli che popolano il microcosmo di Case Rosse. E proprio nella percezione del borgo montano Venti corpi nella neve risolve ogni residuo d’incoerenza in una ben tornita ambiguità, componendo – a mo’ di presepio vivente – un meccanismo in cui le diverse figure (con una menzione speciale per la vecchia Argia), senza ridursi né a pure funzioni narrative né a meri caratteristi, svolgono la loro parte con credibilità e naturalezza. Mentre l’autore si tiene saldamente lontano dall’oleografia, controllando in modo ferreo – o quasi – la commozione del raccontare i luoghi della sua giovinezza, la natia Zocca.

Anche la modifica di elementi macroscopici del racconto aiuta il romanzo a scorrere meglio. Vediamone alcuni. Lo “spostamento” della stele sul luogo dell’eccidio, che la fa divenire quasi una sorta di arcano menhir. L’azzeramento della “voce narrante” dell’assassino: e qui l’editing fa giustizia di una modalità narrativa suggestiva ma obiettivamente inflazionata (che ne La giustizia dei martiri era un elemento forse più ridondante che utile alla chiarezza).
La “danza”, l’elemento paranormale che era già in origine un elemento originale e distintivo del personaggio di Roberto, viene ulteriormente ampliata e valorizzata. Ad alcuni non piacerà: vuoi perché esula dall’impianto razionalistico del giallo classico, vuoi perché, per preservare il meccanismo del thriller,  queste epifanie a sprazzi, o “emorragie di coscienza” come le definisce felicemente lo stesso Serra, dovranno essere necessariamente – e quindi in qualche modo artificiosamente – selettive. Ma nessuno potrà negare che la loro descrizione raggiunga un’efficacia, una plausibilità, una naturalezza davvero notevoli, sia in sé – possiamo parlare di inserti di realismo magico, che lasciano fortunatamente implicite le pure esistenti possibilità metaforiche – sia nell’influenza di questo aspetto sulla personalità del commissario.

Tra gli elementi ricorrenti, il luogo comune dell’eroe inseguito dal destino da cui cerca di fuggire: elemento in qualche modo duplicato nella figura di Alice, ma anche dello stesso colpevole, tanto da giustificare il sospetto che si tratti di una chiave di lettura – con un’ulteriore e più profonda concessione al soprannaturale – di grande importanza per l’autore. Che se non concede via di fuga ai suoi personaggi, sembra tuttavia lasciar loro, ma non a buon mercato, una possibilità di redenzione. Come pure per quello stesso personaggio collettivo che appare essere il paese di Case Rosse.
Se il male assoluto del nazismo – che a Pasini non interessa per l’aspetto ideologico, ma come incarnazione dell’eterno prevaricare dell’uomo sull’uomo – lascia tracce profonde, forse è possibile, benché a caro prezzo, ritrovare il bandolo dell’intrico tagliente della storia, costruire faticosamente un senso, sia pur parziale, che dia ragione alla propria vita e a quelle altrui, anche quando vilipese e spezzate. Perché anche i martiri, per quanto umanamente possibile, abbiano giustizia.


21 aprile

21 aprile 2011

La libertà
tracima come un fiume dalle valli
precipita dall’alto come neve di pioppi
quasi ti soffoca, come
se in bici apri la bocca controvento.
Dilaga, bagna il piede
delle colline
si uniscono rigagnoli, gli orli si rifilano e si gonfiano,
la mano destra tocca già Bologna, Bazzano la sinistra.
La libertà fiorisce a vaste chiazze
come un prato al disgelo, dove lo tocca il sole
come a una festa girano caraffe
e si mesce di mano in mano vino.
La libertà s’aggruma in mollica
in questo giorno di pane
covato di fatica,
in lacrime rinate passata la paura,
copre con il fragore di campane
spari lontani in fondo alla pianura.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: