Episcopalis communio: papa Francesco riforma il Sinodo dei vescovi

24 settembre 2018

Lunedì 17 settembre è stata pubblicata la nuova costituzione apostolica di papa Francesco sul Sinodo dei vescovi Episcopalis communio. Il documento è entrato in vigore al momento della pubblicazione, quindi sarà applicato, per quanto possibile, alle assemblee sinodali già convocate come quella imminente sui giovani e quella sull’Amazzonia.

Cos’è il Sinodo dei vescovi

Il Sinodo dei vescovi è una riunione di vescovi – prevalentemente nominati dalle conferenze episcopali di ogni nazione – convocata dal papa per trattare temi importanti della vita della Chiesa. Dopo la convocazione vi è una fase preparatoria, che dura parecchi mesi e nella quale vengono elaborati alcuni documenti di lavoro; segue la riunione vera e propria, della durata di qualche settimana. Per consuetudine avviene in ottobre. Un sinodo ordinario comprende più di 200 membri, più svariate decine di esperti e uditori (compresi alcuni rappresentanti di altre Chiese cristiane, detti “delegati fraterni”). Vi sono poi sinodi più ristretti (detti straordinari) e altri dedicati a una singola area geografica (detti speciali).

Il Sinodo dei vescovi è stato istituito da Paolo VI nel 1965 col motu proprio Apostolica sollicitudo, durante l’ultima fase del Concilio Vaticano II. Introdurre uno strumento di consultazione dei vescovi, seppure giocoforza ridotto rispetto a un concilio, pareva allora un modo per conservare e innestare permanentemente nella vita della Chiesa un elemento importante dell’esperienza conciliare.
Oggi il sinodo è un momento importante della vita della Chiesa, anche se è spesso criticato – oltre che per essere composto da soli vescovi – perché fortemente controllato dalla Curia, che redige i documenti preparatori su cui la discussione in assemblea spesso non riesce a incidere in modo sostanziale. Nel 2006, sotto il pontificato di Benedetto XVI venne emanato un regolamento che sostituiva i precedenti e introduceva alcune limitate riforme (per esempio riservando un certo spazio al libero confronto tra i membri).

Il seminario di studio del 2016

La costituzione apostolica di papa Francesco rivede complessivamente il funzionamento del Sinodo, pur conservandone gli elementi sostanziali. Per i dettagli, il documento rimanda a future istruzioni e regolamenti demandati alla Segreteria generale del sinodo (che è una sorta di comitato permanente a cui è demandata l’organizzazione delle assemblee).
Non mi pare sia stato ancora rimarcato che le principali novità ricalcano con notevole precisione le conclusioni di un seminario di studio organizzato dalla Segreteria generale del Sinodo nel febbraio del 2016, in cui già si adombrava l’idea di «una revisione della normativa sul Sinodo dei vescovi». Il breve comunicato riportato in questo link – che a sua volta si riferisce al discorso di papa Francesco per il 50° dell’istituzione del Sinodo – è denso e illuminante e andrebbe esaminato in dettaglio dagli studiosi. A sua volta, alcune delle innovazioni proposte dal comunicato del 2016 sono state tratte dall’esperienza dei sinodi sulla famiglia del 2014 e 2015.

Il proemio dottrinale: cenni di teologia del sinodo

Come si vede, il suggerimento di un «proemio dottrinale» è stato sostanzialmente seguito. L’introduzione della costituzione apostolica – non particolarmente ampia, ma molto più lunga rispetto al motu proprio di Paolo VI del 1965 – ha infatti un carattere prevalentemente storico e pastorale, ma al suo interno si possono rintracciare facilmente concetti teologici significativi.
Ciò vale prima di tutto per l’enunciazione iniziale per cui «La comunione episcopale (Episcopalis communio), con Pietro e sotto Pietro, si manifesta in modo peculiare nel Sinodo dei vescovi»: infatti – come è detto non molto più avanti – «la dimensione sovradiocesana del munus episcopale», se propriamente «si esercita in modo solenne nella veneranda istituzione del concilio ecumenico», tuttavia «si esprime pure nell’azione congiunta dei vescovi sparsi su tutta la terra, azione che sia indetta o liberamente recepita dal romano pontefice». Inoltre, si sottolinea che «il vescovo è contemporaneamente maestro e discepolo. Egli è maestro quando, dotato di una speciale assistenza dello Spirito Santo, annuncia ai fedeli la Parola di verità in nome di Cristo capo e pastore. Ma egli è anche discepolo quando, sapendo che lo Spirito è elargito a ogni battezzato, si pone in ascolto della voce di Cristo che parla attraverso l’intero popolo di Dio, rendendolo “infallibile in credendo”». Proprio in questo senso, «il Sinodo dei vescovi deve sempre più diventare uno strumento privilegiato di ascolto del popolo di Dio»: infatti, «benché nella sua composizione si configuri come un organismo essenzialmente episcopale, il Sinodo non vive pertanto separato dal resto dei fedeli. Esso, al contrario, è uno strumento adatto a dare voce all’intero Popolo di Dio proprio per mezzo dei vescovi»… «mostrandosi di assemblea in assemblea un’espressione eloquente della sinodalità come “dimensione costitutiva della Chiesa”».

La fase preparatoria: consultazione dei fedeli

In generale, i concetti espressi nella parte introduttiva servono a giustificare e contestualizzare quanto stabilito dalla parte dispositiva, in particolare le novità.

Tra esse, spicca sicuramente l’attenzione riservata alla consultazione dei fedeli, che viene definita come lo scopo della fase preparatoria del sinodo. Il risalto che viene dato a questa fase è fortemente innovativo. Si stabilisce che «la consultazione del popolo di Dio si svolge nelle Chiese particolari» (cioè nelle singole diocesi e quindi non solo a livello di conferenze episcopali), e anzi «in ciascuna Chiesa particolare i vescovi svolgono la consultazione del popolo di Dio avvalendosi degli organismi di partecipazione previsti dal diritto, senza escludere ogni altra modalità che essi giudichino opportuna» (nell’introduzione si afferma esplicitamente: «può rivelarsi fondamentale il contributo degli organismi di partecipazione della Chiesa particolare, specialmente il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale»).
Per i religiosi, se prima era prevista la mera consultazione dell’Unione dei superiori generali, ora si precisa che «le unioni, le federazioni e le conferenze maschili e femminili degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica consultano i superiori maggiori, che a loro volta possono interpellare i propri consigli e anche altri membri». Si aggiunge inoltre che «anche le associazioni di fedeli riconosciute dalla Santa Sede consultano i loro membri». dei suddetti Istituti e Società. Ma «la Segreteria generale del sinodo può individuare pure altre forme di consultazione».
Viene altresì previsto il «coinvolgimento degli istituti di studi superiori». Infine, viene sancito che «rimane integro il diritto dei fedeli, singolarmente o associati, di inviare direttamente i loro contributi alla Segreteria generale del sinodo»: ad onta della terminologia usata, si tratta di una prassi invalsa con il sinodo sulla famiglia, ma precedentemente sconosciuta.

Il ruolo della Segreteria generale

Altra possibilità prefigurata dal percorso sinodale sulla famiglia – in cui l’assemblea del 2014 è stata legata a quella del 2015 in un unico processo – è quella per cui «l’assemblea del sinodo può essere celebrata in più periodi tra loro distinti». Qui spicca il ruolo della Segreteria generale (sia pur «insieme al relatore generale e al segretario speciale dell’assemblea») di «promuovere lo sviluppo della riflessione sul tema o su alcuni aspetti di particolare rilievo emersi dai lavori assembleari». Va nella stessa direzione la possibilità (già verificatasi per il Sinodo sui giovani) di «promuovere la convocazione di una riunione presinodale con la partecipazione di alcuni fedeli» designati dalla Segreteria stessa.
Il rafforzamento complessivo della Segreteria generale del sinodo, pure auspicato dal documento del 2016 che parlava della possibilità di «prospettare in certo modo il carattere permanente dell’organismo sinodale» (concetto peraltro già introdotto nel regolamento del 2006), avviene non solo introducendo la figura del sottosegretario e assicurando esplicitamente la presenza di «un congruo numero di officiali e di consultori», ma con l’affermazione che la Segreteria è «competente nella preparazione e nell’attuazione delle assemblee del sinodo, nonché nelle altre questioni che il romano pontefice vorrà sottoporle per il bene della Chiesa universale».

Le assemblee del sinodo

La composizione del sinodo e la fase celebrativa dello stesso rappresentano probabilmente l’aspetto meno innovativo della costituzione apostolica, eccezion fatta per l’importante previsione per cui «secondo il tema e le circostanze, possono essere chiamati all’Assemblea del Sinodo anche alcuni altri, che non siano insigniti del munus episcopale [cioè: non vescovi], il ruolo dei quali viene determinato di volta in volta dal romano pontefice». Era una possibilità non esclusa dal Codice di diritto canonico (che parla semplicemente di “maggioranza di vescovi”), ma di fatto non sfruttata se non per l’inserimento di alcuni religiosi. Bisogna inoltre notare che l’elezione dei membri non viene normata in modo particolareggiato: l’istruzione applicativa potrà quindi contenere elementi innovativi.
Per il resto, se il documento del 2016 proponeva «un maggiore ascolto e coinvolgimento dei fedeli che partecipano all’assemblea sinodale… valorizzando ulteriormente la presenza nelle assemblee sinodali degli esperti e degli uditori», Episcopalis communio non pare indicare a tale proposito nuove piste; andrà piuttosto notato che viene recepito dal regolamento del 2006, e dalla prassi invalsa dall’anno precedente, il momento di «libero scambio di opinioni tra i membri».
Viene però rilevata l’importanza della dimensione liturgica nel sinodo stesso («È … necessario che, nel corso dei lavori sinodali, ricevano particolare risalto le celebrazioni liturgiche e le altre forme di preghiera corale, per invocare sui membri dell’Assemblea il dono del discernimento e della concordia. È altresì opportuno che, secondo l’antica tradizione sinodale, il libro dei vangeli sia solennemente intronizzato all’inizio di ogni giornata, rammentando anche simbolicamente a tutti i partecipanti la necessità di rendersi docili alla Parola divina, che è “Parola di verità” [Col 1, 5]»): una sottolineatura che andrebbe confrontata a quanto papa Francesco ha sovente rimarcato descrivendo l’esperienza della Conferenza dell’episcopato latinoamericano ad Aparecida.

La fase attuativa

È invece profondamente innovativo il fatto che la «fase attuativa» del sinodo, cioè l’«accoglienza e l’attuazione delle conclusioni dell’assemblea», sia considerata – così auspicava il documento del 2016 – «un momento interno al processo sinodale»: essa è demandata primariamente ai vescovi (anche qui è previsto «l’aiuto degli organismi di partecipazione previsti dal diritto») e coordinata dalle conferenze episcopali, che possono «predisporre iniziative comuni». È però prevista anche un’azione da parte della Segreteria generale – di concerto col dicastero vaticano pertinente –, che può costituire a tale scopo una commissione di esperti, predisporre studi e altre iniziative, ma anche, «con il mandato del romano pontefice, … emanare documenti applicativi, sentito il dicastero competente».

Il documento finale

Quest’ultima novità si lega all’altro elemento di particolare importanza introdotto da Episcopalis communio e giustamente rimarcato dai commentatori: cioè lo status del documento finale dell’assemblea.
Occorre ricordare che, fino al 2005, l’unico documento del sinodo che veniva pubblicato era il messaggio dei padri sinodali, generalmente un breve documento di carattere esortativo e di scarsa rilevanza dottrinale e pastorale.  L’assemblea sfociava sì in un «elenco finale delle proposizioni» formulate – in latino –, votate dai padri sinodali al termine del sinodo e «presentate alla considerazione del sommo pontefice»; ma tali proposizioni non erano di pubblico dominio. L’unico esito pubblico e ufficiale del sinodo era pertanto il documento post-sinodale emanato direttamente dal papa, normalmente uno-due anni dopo. La dialettica interna al sinodo e tra il sinodo e il documento papale rimaneva quindi completamente occultata.
Benedetto XVI fin dal 2005 autorizzò invece la pubblicazione delle proposizioni (seppure in «una versione in lingua italiana, provvisoria, ufficiosa e non ufficiale»), consuetudine da allora invalsa. Al sinodo del 2014 vi fu un’ulteriore importante innovazione: anzitutto, l’elenco delle proposizioni venne sostituito da una «relazione del sinodo»; questo non solo fu pubblicato, ma vennero anche riportati i voti ottenuti dai singoli paragrafi. Il fatto è tantopiù rilevante perché quella relazione venne poi a costituire il documento preliminare per il sinodo del 2015. Anche nel 2015 la relazione finale venne pubblicata con i voti ottenuti dai singoli punti.

La nuova costituzione apostolica prevede invece che «se approvato espressamente dal romano pontefice, il documento finale partecipa del magistero ordinario del successore di Pietro». Inoltre «qualora poi il romano pontefice abbia concesso all’Assemblea del sinodo potestà deliberativa, a norma del can. 343 del Codice di diritto canonico, il documento finale partecipa del magistero ordinario del successore di Pietro una volta da lui ratificato e promulgato. In questo caso il documento finale viene pubblicato con la firma del romano pontefice insieme a quella dei membri». Occorre ricordare che la possibile potestà deliberativa dell’assemblea sinodale era già stata indicata nell’Apostolica sollicitudo di Paolo VI, ma non era mai stata applicata. Ora, comunque, si stabilisce che, sia pure a seguito dell’approvazione del papa, oppure della ratifica e promulgazione da parte dello stesso, il documento finale del sinodo gode di per sé dell’autorità di un documento papale. Ciò conferisce, com’è evidente, una dignità precipua al percorso sinodale: certo senza impedire in alcun modo al papa di pubblicare un proprio documento che ne recepisca il frutto (anzi, ciò si renderà probabilmente necessario qualora si tratti di introdurre innovazioni giuridiche specifiche), ma conferendo al Sinodo – cum Petro et sub Petro – la pienezza di quel valore che era affermato fin dalla sua origine, nel seno stesso del concilio Vaticano II.

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Quello sgambetto a Dossetti, anzi al Concilio

8 gennaio 2013

Molti cattolici bolognesi hanno letto la lettera del card. Re al card. Biffi – diffusa da quest’ultimo sicuramente con l’approvazione del primo – in cui venivano confermati i giudizi espressi nell’ultimo libro di Biffi su don Dossetti, in particolare sulla sua attività al concilio Vaticano II. La pubblicazione di quella lettera ha suscitato parecchie reazioni e, infine, un’esplicita scusa da parte dell’organo di stampa che l’aveva pubblicata (pronosticandone anche – redazionalmente – una grande importanza nel dibattito storico); e anche la stampa “laica” locale ha finito per occuparsi della questione, seppur con prevedibili semplificazioni.
Sbaglierebbe di grosso chi riconducesse la vicenda a una questione curiale tutta bolognese, magari riducendola a un’iniziativa personale o inserendola semplicemente in una storia – che pur si potrebbe scrivere – di nobili schermaglie o miseri dispetti tra vecchie conventicole locali di varia estrazione. Sbaglierebbe ancor più chi, magari per riflesso condizionato, ne volesse dare un’interpretazione politica, come se in discussione ci fosse il Dossetti politico e magari gli attuali raggruppamenti del cattolicesimo politico, specie bolognese, che a lui maggiormente e più o meno giustificatamente si riconducono. E sarebbe triste che per questa via dalle nostre parti qualcuno ne traesse una certa soddisfazione. Non solo per quel tanto di pettegolo che inevitabilmente ne trasudi; e neanche solo per il fatto che perseverare in una lettura prevalentemente politica della parabola di Dossetti rimane, a mio parere, sintomo di una miopia tantomeno perdonabile in campo cattolico.
La lettura sarebbe errata soprattutto perché, in questa vicenda, se è bolognese la casella che – volente o nolente, e più o meno consapevole – ha ospitato la mossa, la partita è squisitamente romana e, s’intende, squisitamente ecclesiale. E Dossetti ne è l’obiettivo solo apparente. Squalificando l’azione di Dossetti durante i lavori il concilio Vaticano II, fino a definirlo come “usurpatore” – un termine di singolare precisione – delle prerogative istituzionali del card. Felici, si insinua un dubbio di legittimità, sostanziale se non addirittura formale, su quei lavori stessi, e sui documenti che ne sono il duraturo frutto.
Il 2012 non è “solo” il centenario della nascita di Dossetti: è soprattutto il 50° dell’apertura del Concilio, uno dei motivi dell’indizione dell’Anno della fede. E proprio in questa occasione, in cui la ricorrenza sta riportando l’attenzione, con vigore forse inatteso, sull’evento del Concilio, sui suoi documenti e sul suo significato; proprio mentre dal papa stesso giunge il ripetuto invito a tornare alla “lettera” del Concilio studiandone i documenti e approfondendone il significato con l’applicazione di una corretta ermeneutica, ecco che proprio il testo conciliare viene messo nei fatti in discussione. Da un lato Benedetto XVI conferma la fiducia nel Concilio e ne propugna – come dall’inizio del suo pontificato –  un’interpretazione che inserisca “la riforma” da esso operata contestualizzandola “nella continuità” rispetto al magistero precedente, così da fare giustizia di quelle che vede come possibili deviazioni, per esempio in senso progressista. Dall’altro, nel seno stesso della Chiesa, come malfidando nell’operazione papale o presupponendone insufficienti gli esiti, si viene ad attaccare il Concilio stesso, delegittimandone – con singolare precisione di mira – un punto nevralgico, ossia il suo stesso meccanismo deliberativo. Il fatto che tale operazione – stando a quel che si legge – venga condotta nella Positio della causa di beatificazione di Paolo VI (ma su questo avremmo bisogno di leggere qualcosa di più che un vago accenno) – vi getta una luce ancor più inquietante, dal momento che proprio le deliberazioni conciliari approvate e suggellate da quel papa sarebbero soggette a questa sorta di sussurrata invalidazione.
Ulteriori considerazioni si potrebbero formulare: non da ultimo, che il denunciare il carattere presuntamente “politico” di una decisione ecclesiale (ma perché non applicare lo stesso criterio ad altri atti di giurisdizione e di governo?) contraddice in nuce la logica divino-umana dell’incarnazione che alla Chiesa stessa presiede. Ma basti qui notare che questo tipo di argomentazione che, con l’apparenza di difendere quanto nella Chiesa vi è di più sacro, invece la svuota e l’indebolisce internamente come un cancro, era finora – e segnatamente nella sua applicazione al Vaticano II – patrimonio di frange ultra-tradizionaliste ad elevato sospetto di non-cattolicità. Questo suo rinvenimento mostra la permeabilità, rispetto a talune tendenze, di argini che, pur all’interno di un dibattito vivace come quello sull’ermeneutica del Concilio, si credevano ben solidi. Non è solo la pronta risoluzione del pur doloroso episodio “bolognese”, naturalmente, a convincere che non praevalebunt.


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