Francesco, Scalfari e l’inferno del non mettersi in gioco

2 aprile 2018

Nel valutare la questione dell’intervista di Eugenio Scalfari a papa Francesco pubblicata da Repubblica e poi smentita – nel suo carattere d’intervista e nei virgolettati attribuiti a Bergoglio, contenenti alcune affermazioni dottrinalmente discutibili, ad esempio sull’esistenza dell’inferno, ma non negata come colloquio effettivamente avvenuto – dalla Santa Sede, occorre prima di tutto una premessa.

Serve cioè avere ben chiara la distinzione tra dottrina e teologia: con la seconda che funge da “punta avanzata” dell’esplorazione del messaggio del vangelo, e la prima che – dalle origini del cristianesimo – si limita a mettere dei paletti, segnalando le elaborazioni teologiche eccessivamente devianti. La dottrina non si sviluppa come una monolitica e coerente verità ufficiale, ma come una progressiva conglomerazione di negazioni, ciascuna delle quali non di rado nega l’estremizzazione della negazione precedente, di modo che un’effettiva fisionomia emerge casomai per successive scheggiature, o in qualche modo di riflesso, a sbalzo. Se la teologia è un pendio, la dottrina non è un sentiero definito, ma tuttalpiù una larga pista da slalom supergigante, che si limita a indicare i dirupi e i vicoli ciechi senz’altro da non imboccare. Questa conformazione “per negazione” (apofatica) della dottrina si è conservata in modo più puro nella tradizione ortodossa, mentre il cattolicesimo più spesso, dalla Scolastica in poi, ha flirtato con la tentazione di adottare una teologica “positiva” ufficiale.

Ciò per dire che cosa? Che non c’è nulla di strano se un prete, che pure è il papa ma non ha affatto intenzione di smettere del tutto di fare il prete, in un dialogo – che è conversazione, prima che conversione, oltre che reciproco diletto e conforto – con un anziano amico intellettualmente inquieto e stimolante, percorra strade anche impervie e suggestive, e magari fragili, attorno a un concetto (un luogo teologico, un teologùmeno) come l’inferno, in cui i contenuti fissati dalla dottrina (davvero pochi e scarni, basti un’occhiata al Catechismo cattolico) lasciano obiettivamente molto spazio di possibile elaborazione teologica, di cui i primi secoli mostrano esempi notevoli.
È importante, naturalmente, che ciò non venga preso ad alcun titolo per un pronunciamento dottrinale; sarebbe pernicioso sia per la dottrina, sia per la teologia considerare come affermazione dotata di valore magisteriale ciò che è invece una suggestione, tuttalpiù un brandello di ragionamento fluttuante e in alcun modo determinato: da qui, è facile capire, le precisazioni sulla conversazione, che è appunto tale e non intervista, perché l’intervista, sia pure di livello autoritativo dubbio nel sistema articolato – e flessibile, come dimostrato anche da prima di Bergoglio – dei generi letterari papali, è pur sempre uno strumento per trasmettere volontariamente, “urbi et orbi”, un contenuto specifico.
Ma la testimonianza di quella conversazione rimane, in modo tutt’altro che casuale. Ciò che Francesco vuole dirci, con essa, non è sul piano dei contenuti, ma del metodo. Quanto ai contenuti, infatti, papa Bergoglio ha dimostrato di saper dire senza alcun problema, in contesti pubblici e sovente anche ufficiali, cose anomale, impreviste, scomode, o affatto importune sotto vari aspetti. Ed è chiaro che il papa è completamente padrone – al netto di imprecisioni e infortuni che pure possono capitare – della propria comunicazione, e che il sistema comunicativo del Vaticano (attualmente sotto riforma) si modella attorno alla comunicazione del papa e non viceversa, cosa vera più per Bergoglio – come per un altro grande comunicatore come Giovanni Paolo II, morto esattamente tredici anni fa – che per altri suoi non remoti predecessori. Per altro verso, la perizia teologica sovente dimostrata dal gesuita Bergoglio – al netto di un’interessata e maldestra vulgata – mostra un evidente sostrato latinoamericano, in cui l’insistenza per gli aspetti sociali si mescola, in modo alquanto naturale, con aspetti tradizionali come la devozione per Maria e i santi e – fra l’altro – richiami non infrequenti al diavolo.
Improbabile davvero, quindi, ipotizzare che la chiacchierata con Scalfari serva a Bergoglio per dire-non-dire chissà quale presunto contenuto teologico. Tuttavia essa ha indubbiamente un’utilità e uno scopo. Precisamente quello di mostrare un cristiano e un prete – che è papa – intento a mettersi in gioco a tutto tondo nel dialogo, senza lasciarsi ostacolare e irrigidire da uno schema dottrinale; un papa che si lascia provocare, rispondendo creativamente, senza disporsi in occhiuta difesa, lontano dall’apologetica, in una libertà consapevole e responsabile: come è la libertà stessa della teologia, qui esercitata – perfino con disinvoltura – dal custode della dottrina. (Va detto che anche Benedetto XVI, da papa, aveva scritto i suoi tre libri su Gesù esplicitando che essi non avevano valore magisteriale. Ma questo paragone sarebbe da approfondire guardando alle differenze oltre che alla somiglianza.) Non per mero sfizio o piacere intellettuale, che pure non sono negati: ma in ossequio all’adagio per cui salus animarum suprema lex Ecclesiae, la suprema legge della Chiesa è la salvezza delle anime. Fosse pure di un’anima sola. Qui Bergoglio si fa modello per gli operatori pastorali – cioè per tutti i cristiani: non a costo di confondere il popolo fedele, ma prendendosi il rischio, e probabilmente il gusto, di épater les (catholiques) bourgeoises oltre che di creare grattacapi ai comunicatori vaticani. Ad maiorem Dei gloriam, s’intende.

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Qualche appunto per il futuro del PD

12 marzo 2018

Le voci ricorrenti per cui la Direzione del PD – appena iniziata – e la sua prossima Assemblea nazionale non sarebbero intenzionate a lanciare immediatamente il percorso congressuale mi confortano.
Sarebbe un errore gravissimo, come ho già segnalato nei post precedenti, risolvere in un’affrettata conta attorno a qualche nome e a qualche slogan – e a pochissime idee – i problemi che la tremenda sconfitta alle elezioni politiche ha messo bruscamente davanti al PD. Per fortuna sembra che questo errore verrà evitato.
Personalmente propendo perché l’Assemblea dia vita a una segreteria unitaria di reggenza, attorno a una figura che venga percepita come una garanzia per tutti, in modo da rappresentare tutte le sensibilità. Non mi metto a ragionare su questo o su quel nome, quelli che si leggono sui giornali possono probabilmente andare bene.
Questa segreteria NON potrà in alcun modo limitarsi a svolgere l’ordinaria amministrazione, in vista dello svolgimento del congresso – nel 2019, si dice, e spero vivamente che non sia prima.
Non solo perché avrà prima di tutto l’importante responsabilità di guidare la delegazione del partito nelle prossime consultazioni al Quirinale e nei passaggi successivi, che potranno essere molto delicati. (Come ho già scritto, sono tra quelli che auspicano che un governo politico espresso dai vincitori delle elezioni possa effettivamente insediarsi, nel rispetto della volontà degli elettori, e che il PD rimanga coerentemente all’opposizione.)
Ma soprattutto perché la vera preparazione del congresso dovrebbe consistere in un’azione robusta di ascolto, in grado di rendere il nostro partito più capace di intercettare le idee, gli umori e i sentimenti delle persone, di riconnetterci con quella realtà con cui probabilmente abbiamo spesso perso il contatto: sia al centro che nelle variegate periferie del nostro Paese, comprese quelle zone che abbiamo scoperto con sgomento non essere più “nostre”, o non più di tanto.
Non mi illudo: è molto difficile. In vista di un congresso ognuno cerca di organizzare le sue truppe fidate, di fare i propri conti su numeri il più possibile “sicuri”; aprire le porte, in qualunque forma, viene percepito come destabilizzante o addirittura inquinante. Però, posporre almeno di un anno i tempi del congresso apre la speranza di uno spazio disteso in cui dedicarci a un’opera terribilmente necessaria. A meno che uno non pensi – e temo che non in pochi, in realtà, lo stiano pensando – di rifugiarsi ancora una volta nella ridotta geografica dei propri fortini, in quella mentale delle proprie certezze. Ma di fortini, ormai, non ne sono praticamente rimasti: e quei pochissimi sono minacciati da ogni parte. Quanto a certezze, ecco, non so voi come siate messi.

In questi giorni, giustamente, molti circoli stanno chiamando i propri militanti e i propri iscritti per riflettere sul significato del voto del 4 marzo e su come ripartire per il futuro. E’ un bene. Ma non basta: il pericolo di ritrovarci sempre tra di noi, e di conseguenza di raccontarci sempre le stesse cose, spesso con le stesse parti in commedia, è troppo grande.  Occorre guardare fuori, in quel vasto mondo che scopriamo sempre più estraneo, ma che è quello in cui e per cui vogliamo agire. Occorre confrontarci, come scrivevo martedì, con le persone nelle loro aggregazioni e associazioni (non quelle “solite”, quelle che una volta rappresentavano interi mondi, ma che oggi troppe volte sembrano comode scorciatoie fatte apposta per evitarci di allungare il muso in mezzo alla gente “vera”) e nelle solitudini di una massa parcellizzata e polverizzata – e tuttavia viva. Aprire le porte, le finestre, se necessario i lucernari e i comignoli.
Un’operazione come questa presuppone organizzazione se non vogliamo che tanti sforzi generosi si esauriscano in una fiammata di volontarismo, e che siano limitati alle zone dove già ora il partito è più vivo e più saldamente innestato nei gangli della società che si rinnova. Intercettare le persone significa essere consapevoli di come e dove oggi le persone vivono, agiscono, si relazionano tra di loro; con un occhio alle nuove tecnologie, ma ancor più agli stili di vita delle persone, delle famiglie, delle aggregazioni più o meno durature. L’organizzazione è necessaria per valorizzare ogni ritorno (nel senso del “feedback”, ma anche delle persone che decidono di dare al PD un’altra possibilità), per offrire riscontri, per costruire comunità. E per creare comunità, naturalmente, serve comunicazione: bidirezionale, non polemica, orientata alla persona, unitiva, “calda” ma sfidante, che chiama a mettersi in gioco, a muovere un passo, a uscire dalle tastiere, a creare una dimensione condivisa.
Trovo questi passi – per quanto ovvi – fondamentali e preliminari a qualunque indicazione di merito possa comporre il percorso del prossimo congresso e, soprattutto, il futuro del PD. Senza questi accorgimenti e questi sforzi, qualunque approdo sarà autoreferenziale e perdente, in un cerchio sempre più ristretto e asfittico. Sapremo fare questo investimento a fondo perduto? Molto prima di interrogativi più che rispettabili, ma troppo stilizzati e affettati (più a sinistra, più a destra, eccetera), questa è la prima domanda a cui chi ha a cuore questo partito deve rispondere. In fretta.


Quell’apostrofo roseo tra Benetton e il Vaticano

15 dicembre 2011

Il «lancio» è ormai terminato, e così pure i clamori: forse possiamo ragionarci su con un po’ di calma. Parliamo dell’ultima campagna di casa Benetton, riassumibile nel neologismo «UNHATE» che fa al tempo stesso da titolo e da slogan di un’unica parola. «UNHATE», un «non odiare» che assuona, nel prefisso, anche alle Nazioni Unite (UN) e naturalmente al più antico e duraturo United Colors of Benetton. La campagna non si presenta direttamente come una campagna pubblicitaria, bensì come l’iniziativa della Unhate Foundation, ente «voluto e fondato» dal gruppo Benetton per «contribuire alla creazione di una nuova cultura di tolleranza». Naturalmente il logo del gruppo è ben visibile, anche se non invasivo, come nella tradizione Benetton.

La campagna raffigura fotomontaggi ben riusciti ritraggono coppie di leaders mondiali avversari – o presunti tali – mentre si baciano sulle labbra. Quella che fa più scalpore raffigura Benedetto XVI e Ahmed Mohamed el-Tayeb, l’imam della grande moschea di Al-Azhar: scalpore che sembra cercato, anche perché la gigantografia – analogamente ad altre fatte comparire nelle principali città del mondo, con quelle che sono state definite dai promotori guerrilla actions, termine tipico delle campagne d’impegno sociale – è stata affissa proprio a Ponte Sant’Angelo, a un passo dal Vaticano. Che reagisce con notevole rapidità: esprime via comunicato della Sala stampa «una decisa protesta per un uso del tutto inaccettabile dell’immagine del Santo Padre, manipolata e strumentalizzata nel quadro di una campagna pubblicitaria con finalità commerciale», considerata «una grave mancanza di rispetto per il Papa, …un’offesa dei sentimenti dei fedeli, …una dimostrazione evidente di come nell’ambito della pubblicità si possano violare le regole elementari del rispetto delle persone per attirare attenzione per mezzo della provocazione». La Santa Sede ventila la possibilità di un’azione legale; in un comunicato successivo – stavolta a firma della Segreteria di Stato – afferma di aver effettivamente demandato ai propri legali «di intraprendere, in Italia e all’estero, le opportune azioni al fine di impedire la circolazione, anche attraverso i mass media, del fotomontaggio». Ciò nonostante i promotori della campagna si affrettino a dichiararsi «dispiaciuti che l’utilizzo dell’immagine del Papa e dell’imam abbia urtato la sensibilità dei fedeli» e a ritirare immediatamente l’immagine «da ogni pubblicazione». Anche un consigliere dell’imam, infatti, ha definito il fotomontaggio «irresponsabile e assurdo», aggiungendo che al-Azhar «non sa ancora se questa immagine merita una risposta, tanto è poco seria». Superfluo aggiungere che l’immagine, ormai, ha già fatto il giro del mondo.
Tra le altre reazioni alla campagna, spicca quella della Casa Bianca, che, come riporta un comunicato, «disapprova l’uso dell’immagine del presidente Barack Obama» – ritratto in un bacio col premier cinese Hu Jintao – per motivi commerciali. Mentre il presidente francese Sarkozy pare abbia reagito in modo positivo: del resto, il suo bacio con la cancelliera tedesca Angela Merkel sembra di gran lunga il meno politically uncorrect. Ma pare che la coppia sia il frutto della scomposizione di due decisamente meno innocue, poi venute a mancare per sopravvenuta scomparsa (politica in un caso, anche fisica nell’altro) dei due partner.

Toscani contro

L’idea è sicuramente geniale per la sua semplicità, anche pratica: per realizzarla serve solo qualche fotomontaggio ben fatto; il che consente di concentrare il budget della campagna sulla diffusione, potendo contare fra l’altro sull’effetto moltiplicatore innescato sia dal riverbero sui media, sia da meccanismi di tipo virale. Iniziano anche a circolare imitazioni e parodie, che in questi casi sono la cartina di tornasole del successo. Nell’ambiente della comunicazione, peraltro, agli apprezzamenti si sono frammiste le critiche.
Quel che è certo è che la campagna sembra segnare il ritorno allo stile che avevamo imparato ad associare a Benetton dai tempi di Oliviero Toscani: immagini a vario titolo provocatorie che veicolano un messaggio di tipo sociale. Stavolta la veste – con la creazione, addirittura, di una fondazione costituita all’uopo dal gruppo Benetton – è ben confezionata: l’iniziativa – di cui la campagna rappresenterebbe, secondo i promotori, solo il momento iniziale – è presentata come una questione di «strategia di responsabilità sociale del gruppo: non un esercizio cosmetico, ma un contributo che intende avere un impatto reale sulla comunità internazionale, specie mediante il veicolo della comunicazione». Alla campagna fotografica si sono affiancate per ora iniziative come un video – che fino a oggi ha avuto oltre 500000 visualizzazioni su YouTube – e il «Kiss Wall», su cui ognuno può inserire la propria immagine di un bacio.
Una delle più «scandalose» immagini firmate da Oliviero Toscani per Benetton raffigurava, come molti ricorderano, il bacio (eroticamente connotato, allora) tra un giovane prete e una giovane suora. Impossibile non associarla alla campagna odierna. Ma proprio Toscani ha rilasciato, rispetto a UNHATE, una dichiarazione che è difficile non considerare velenosa: «Più di 10 anni fa, quando lasciai la Benetton, il figlio di Luciano, Alessandro Benetton dichiarò: “Basta provocazioni, basta pubblicità trasgressive. Alla fine mi sembra che il padre sia stato più bravo e meno presuntuoso”».

Vassalli, confratelli, nemici

In che cosa consiste la provocazione? I baci, è bene precisare, sono letteralmente a fior di labbra (il che, fra l’altro, consente una certa semplicità del fotomontaggio, che può essere fatto in modo più realistico e meno manipolativo), e non compare alcun tipo di allusione erotica. Se forse è legittimo tradurre l’idea di UNHATE con «make love not war», certo non si tratta di «make sex». A essere in evidenza non è – se non come controcanto secondario – l’allusione sessuale, ma piuttosto l’inusitata associazione delle figure di leader politici, o religiosi, con il bacio.
Ma anche questa lettura non è esaustiva. Se non altro perché in certe epoche o culture, anche non lontane dalla nostra, il bacio tra potenti sarebbe percepito come gesto assolutamente comune: basti pensare al «bacio vassallatico», che nel Medioevo europeo suggellava il rapporto tra l’imperatore e il suo vassallo. Commentando la campagna UNHATE, molti hanno ricordato la foto con il bacio di Breznev e Honecker: ed effettivamente quello tra il leader sovietico e il presidente della DDR – uno Stato la cui posizione non era troppo diversa da quella di «vassallo» dell’URSS – potrebbe essere a giusto titolo essere considerato l’ultimo esempio celebre di bacio vassallatico, non per nulla rimontante a quel mondo slavo che era praticamente passato direttamente dall’ancien régime al socialismo reale. Eccettuando naturalmente i riti delle cosche mafiose, in cui i baci, veri o presunti, tra affiliati hanno conosciuto gli onori delle cronache anche in anni recentissimi. Se poi parliamo di religiosi, è facile ricordare il «bacio santo» che nella messa, ma anche in altre occasioni solenni, ci si scambiava – fin dai primi tempi del cristianesimo – tra pastori e tra fedeli (normalmente partendo dai presbiteri, quindi anche qui non senza una qualche connotazione gerarchica).
Si potrebbe pensare, allora, che la campagna di Benetton solletichi e ribalti quel tipo di archetipi, sostituendo l’amico col nemico, il confratello con l’avversario irriducibile. La percezione straniata con cui osserviamo il bacio smaschererebbe la cruda realtà sottostante al linguaggio ovattato e sorridente delle diplomazie, permettendo al tempo stesso di scoprire il fianco al semplice, ma paradossale invito «non odiare!». Per trovare nella nostra cultura un bacio che provoca un simile sbugiardamento delle umane convenzioni dovremmo rivolgerci direttamente a quello di san Francesco al lebbroso: che, rispetto a quello di Benetton, ha il pregevole vantaggio di essere – com’è probabile per un fatto completamente estraneo ai clichés agiografici – realmente accaduto.

Una reazione dura

Il comunicato della Sala stampa sembra concentrarsi sul fatto che l’immagine del Santo Padre è stata «manipolata e strumentalizzata» (il riferimento è evidentemente al fotomontaggio) «nel quadro di una campagna pubblicitaria con finalità commerciale». È questo – in una certa consonanza col comunicato della Casa Bianca – a essere considerato un «uso del tutto inaccettabile»; anche il comunicato della Segreteria di Stato si concentra sul «fotomontaggio, realizzato nell’ambito della campagna pubblicitaria Benetton». Le modalità in cui vi viene raffigurato il Papa vengono definite prima «tipicamente commerciali», poi «lesive non soltanto della dignità del Papa e della Chiesa Cattolica, ma anche della sensibilità dei credenti». La prima «lesione» della dignità è quindi vista nell’utilizzo indebito dell’immagine del Papa: e denunciare che si tratta né più né meno che di un annuncio pubblicitario, al di là delle asserite finalità sociali, è forse l’elemento più efficace del comunicato vaticano.
Tuttavia, si afferma che la lesione si deve anche al contenuto: anche il primo comunicato parlava di violazione delle «regole elementari del rispetto delle persone» e di «provocazione». Ma si evita accuratamente – come dandoli per scontati? – di esplicitare gli elementi considerati provocatori. È offensivo il fatto di ritrarre il Papa nell’atto stesso di un bacio, ancorché casto, sulla bocca? È determinante i protagonisti del bacio siano due uomini? È significativo che il «partner» sia un importante esponente di un’altra grande confessione religiosa, e segnatamente del musulmanesimo? Di ciò nulla è detto.

È circolata la voce che la fotografia abbia irritato personalmente Benedetto XVI. Notizia difficile da confermare come da smentire. Potrebbe essere semplicemente una supposizione tratta dalla durezza e dalla rapidità della reazione vaticana. Quanto alla rapidità, obiettivamente bastava che qualunque impiegato di Curia andasse a prendere una boccata d’aria in via della Conciliazione per accorgersi del manifesto, «bruciando» ogni scoop d’agenzia. Ma a che si deve una reazione così forte? Sicuramente «la sensibilità dei fedeli» è un elemento decisivo: se si può pensare che alcuni abbiano valutato la foto con simpatia o indulgenza, e avrebbero magari voluto che il Vaticano si mostrasse maggiormente disposto all’ironia, certo in altri l’immagine avrebbe provocato un prevalente senso di disturbo e di offesa, e questi andavano tutelati. Bisognava inoltre chiarire che l’operazione non era stata in alcun modo preventivamente autorizzata o comunque conosciuta dalla Santa Sede. Ma la questione è più complessa: vorrei analizzare qui due aspetti.

Di chi è l’«immagine» del Papa?

Dall’inizio del pontificato di Benedetto XVI si registra una crescita dell’attenzione vaticana sui «diritti» (nel senso commerciale del termine) connessi all’immagine del Papa e ai suoi scritti. È del 2005 una stretta – decisa dalla Segreteria di Stato, allora guidata dal Card. Sodano – sui diritti sull’utilizzo degli scritti di Benedetto XVI (ma anche di quelli di Ratzinger prima dell’elezione a pontefice) e in generale dei documenti emessi dagli organi della Curia vaticana. Una decisione discussa sul piano pastorale, ma impeccabile dal punto di vista giuridico e commerciale: fino ad allora, chiunque poteva riprodurre gratis e in modo incontrollato, anche a scopo di lucro, il testo di documenti come – per esempio – le encicliche o le catechesi del Papa; ora è richiesta l’autorizzazione e, di norma, il pagamento di una proporzionata royalty (bisogna ricordare che ora praticamente tutti i documenti vaticani sono pubblicati sollecitamente sul sito della Santa Sede: per chi ha internet, la consultazione e l’uso a fini non commerciali sono semplicissimi e gratuiti).
Alcuni anni dopo, invece, il 19 dicembre 2009, la Segreteria di Stato dichiarò la necessità di tutelare il rispetto del Papa e «salvaguardarne la figura e l’identità personale da iniziative che, prive di autorizzazione, adottano il nome e/o lo stemma dei Papi per scopi ed attività che nulla o ben poco hanno a che vedere con la Chiesa cattolica», anche «mediante l’uso di simboli nonché di loghi ecclesiali o pontifici», sottoponendo tutto all’autorizzazione della Santa Sede.
È del 19 marzo 2011, poi, la promulgazione della nuova legge vaticana sulla protezione del diritto d’autore, che aggiorna la precedente disciplina (risalente al 1960), ma che dedica anche uno spazio specifico alla tutela dell’immagine del Papa: in particolare, «l’immagine del Romano Pontefice non può essere esposta, riprodotta, diffusa o messa in commercio quando ciò rechi pregiudizio, in qualsiasi modo, anche eventuale, all’onore, alla reputazione, al decoro o al prestigio della Sua Persona»; inoltre, «salvo che ciò sia giustificato da scopi religiosi, culturali, didattici o scientifici e salvo che sia collegato a fatti, avvenimenti o cerimonie pubbliche o che si svolgono in pubblico, l’immagine del Romano Pontefice non può essere esposta, riprodotta, diffusa o messa in commercio senza il Suo consenso, espresso a mezzo degli organismi competenti» (la norma si applica anche «alla voce» del Papa).
La norma ha vari obiettivi: anzitutto limitare la proliferazione incontrollata e gratuita del merchandising, ma anche svolgere una funzione di controllo a più vasto raggio sull’immagine del Papa. E i comunicati vaticani sulla campagna del gruppo Benetton sembrano proprio richiamare il dettato della legge.

Un dialogo a rischio

Una seconda considerazione ci porta all’altro soggetto raffigurato nella fotografia, il grande imam della moschea di al-Azhar al Cairo. Per cominciare, cos’è esattamente al-Azhar? È prima di tutto un’università. La più prestigiosa dell’islam sunnita, dotata nel mondo islamico di ineguagliata autorevolezza religiosa e culturale. Nulla di paragonabile a un Vaticano – che è sede di un’autorità gerarchica ben definita – ma comunque un punto di riferimento di grande importanza in un mondo religioso non centralizzato come quello cattolico.
Al-Azhar – in virtù della sua autorevolezza ma anche della sua moderazione – è anche l’ente con cui il Vaticano ha stabilito da alcuni anni un dialogo istituzionale, fin dalla visita di Giovanni Paolo II all’università nel 2000: il «Comitato congiunto per il dialogo» tra il Comitato permamente di al-Azhar per il dialogo tra le religioni monoteiste e il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, che ha effettuato finora una dozzina di incontri annuali. Un appuntamento divenuto tanto più importante con l’aumento della tensione tra occidente e mondo islamico, dall’11 settembre in poi. Un aspetto che investì direttamente il Vaticano con le note polemiche sulla dichiarazione di Benedetto XVI a Ratisbona nell’ottobre del 2006: un «incidente» a seguito del quale la Santa Sede decise di intensificare con decisione i rapporti e i canali di dialogo con il mondo musulmano. Ma proprio con al-Azhar – e veniamo praticamente all’attualità – la tensione si impennò in occasione del sanguinoso attentato, nel Capodanno 2011, contro una chiesa copta (non cattolica) del Cairo. Nel consueto discorso d’inizio anno al corpo diplomatico, la richiesta del Papa di tutelare le minoranze religiose, auspicando anche un’azione diplomatica dei Paesi europei, venne considerata dall’Egitto una grave ingerenza, fino al punto di richiamare il proprio ambasciatore in Vaticano. Alla decisione fece seguito, da parte di al-Azhar, la sospensione immediata del dialogo in vigore col Vaticano per questa «inaccettabile intromissione negli affari dell’Egitto». Un atto che si inserisce chiaramente nelle complesse dinamiche dei rapporti di potere tra le istituzioni e le componenti della società egiziana (il grande imam di al-Azhar era stato nominato direttamente, pochi mesi prima, da Mubarak) in un momento gravido di tensione: sono i giorni dell’inizio della «primavera araba», e di lì a pochissimo sarebbe cominciata l’occupazione di piazza Tahrir.

Questo caso può ricordare quello più noto e più violento delle vignette satiriche su Maometto pubblicate originariamente da un giornale danese nel 2005, che provocarono nei mesi successivi grande sollevazione e forti polemiche nel mondo islamico.
Anche in quel caso la Santa Sede cercò, molto faticosamente, di non rimanere associata all’immagine di un Occidente irrispettoso – in nome del principio di libertà di espressione – verso l’islam e in generale verso i valori religiosi: Benedetto XVI affermo la necessità «che le religioni e i loro simboli vengano rispettati, e che i credenti non siano oggetto di provocazioni»: parole che proprio il Comitato congiunto per il dialogo tra la Santa Sede e al-Azhar citò per condannare, due anni dopo (quando numerosi quotidiani danesi ripubblicarono le vignette dopo la scoperta di una cellula di terroristi islamici nel Paese), «la ripubblicazione di vignette offensive e il crescente numero di attacchi contro l’islam e i suoi profeti, e così pure altri attacchi contro la religione».
Anche la dichiarazione del consigliere di al-Azhar dopo la campagna Benetton ha espresso un dubbio analogo se simili iniziative non fossero «pericolose per i valori universali e la libertà di espressione come le si intende in Europa». Tantopiù in una fase di incomprensione con al-Azhar – e in cui i rapporti tra le fedi religiose in Egitto, e non solo, sono sottoposti a crescenti sfide – il Vaticano non può concedere il minimo sospetto d’indulgenza verso un’iniziativa che comunque è difficilmente compresa e accettata dalla controparte coinvolta.

Conclusione, e un divertissement

Non si sa quanto la reazione vaticana fosse messa in conto dai promotori di UNHATE. Certo è che essa – come avviene in questi casi – ha ulteriormente catalizzato l’attenzione dei media sulla campagna, cosa che non può essere risultata sgradita. La stessa foto del Papa e dell’imam ha goduto di un’immensa circolazione spontanea, specie via internet, nonostante il ritiro tempestivo, che ha dato perdipiù al gruppo Benetton l’occasione di esibire un comportamento ineccepibile.
Riusciranno i procedimenti legali che dovrebbero essere intrapresi per conto della Santa Sede a scoraggiare iniziative analoghe? Quel che è certo, finora, è che la reazione del Vaticano, seppur considerata da alcuni comprensibile o doverosa, è stata vista da altri come un esempio di oscurantismo e di atteggiamento censorio, o quantomeno di un rapporto difensivo e controverso rispetto al mondo contemporaneo.

Una piccola fantasia: se il Vaticano, pur rivendicando il diritto di adire le vie legali, avesse dichiarato di rinunciarvi, e di donare il corrispettivo delle spese alle organizzazioni umanitarie che lottano contro il lavoro minorile (cf. Guida al consumo critico, EMI 2011, voce «Benetton») o a quelle che si battono per la difesa del popolo Mapuche, quale sarebbe stato il punteggio di questo interessante match comunicativo?


Il mestiere del re, e quello del regista

28 febbraio 2011

Curioso che siano le bizzarrie e i difetti della lingua, piuttosto che la bellezza o la preziosità dell’eloquio, a farci ricordare le controindicazioni della splendida arte del doppiaggio. L’ultimo film che avevo desiderato profondamente di vedere in lingua originale era stato Giù al Nord, per poter cogliere le inflessioni e i giochi di parole degli ch’tis, nonostante lo sforzo prodigioso dei doppiatori di reinventare sull’italiano una lingua deformata, inevitabilmente artificiale, ma tuttavia efficace e sufficientemente credibile.
Similmente, nonostante tutta la bravura dei doppiatori, avrei voluto poter bypassare il doppiaggio per poter cogliere meglio la maestria di Colin Firth nel riprodurre i balbettii, gli inceppamenti, i suoni strozzati ma anche gli esercizi eufonici (cantilene, ripetizioni, scioglilingua) di Albert-Giorgio VI ampiamente esibiti e scrutati ne Il discorso del re. Che non per nulla è – credo – il primo film della storia ad aprirsi con una solenne scena di gargarismo.

E l’unico, probabilmente, che – pur conservando per tutta la sua durata i toni lievi e ovattati di una stanza d’arredamento british – riesce a creare suspence (“riuscirà a pronunciarlo correttamente? s’impappinerà?”) in discorsi regali impastati di frasi di circostanza , cogliendo l’obiettivo di riportarci tutti ai momenti terribili delle recite di fine anno all’asilo.

Un film solido e pastoso, il cui primo ingrediente del successo è inevitabilmente l’eccellenza recitativa degli attori: e tenderei ad appaiare Firth e Geoffrey Rush, nonostante al primo, naturalmente, spetti la parte più ardua, e peraltro più adatta ai virtuosismi. Anche se la scena che ho trovato veramente insuperabile, al di là delle varie lezioni di dizione, è quella del racconto di Albert alle bambine: affidare la percezione di uno dei tratti profondi del protagonista – il coraggio –  a una scena del genere è una scelta geniale e difficile, ampiamente ripagata dall’interpretazione di Firth.
Piace anche ritrovare Helena Bonham Carter in un ruolo che permetta di ammirare non solo la sua sempiterna bravura, ma anche la sua grazia: tanto che perfino l’essere talvolta leggermente sopra le righe riesce a tornarle a vantaggio, nel disegnare una credibile duchessa/regina completamente consapevole e padrona del suo studiato vezzo. E buoni praticamente tutti i comprimari, compreso un’untuoso Derek Jacobi (a proposito: possibile che non ci sia un solo film inglese che non descriva in modo completamente negativo un prete anglicano?) e una Jennifer Ehle da tener monitorata,  con riserve su un troppo macchiettistico Michael Gambon (ma anche per un consumato caratterista impersonare Churchill è roba che spezza le gambe ).

Ma il risultato non sarebbe stato possibile senza una sceneggiatura di primissimo ordine, al tempo stesso didascalica e attenta, ordinata ma creativa, con un ritmo ampio ma ben tenuto: inventiva e garbata, insomma, proprio come l’uso della telecamera, morbido ed espressivo, arioso e privo di sbavature, ma non alieno da guizzi capaci di inserirsi armoniosamente nell’insieme. Così pure merita un cenno la fotografia, capace di disegnare e valorizzare gli ambienti – sono notevoli, in particolare, i rari esterni: superba la scena del litigio tra Albert e Lionel nel viale – come quinte scenografiche (l’attitudine “teatrale” è decisamente presente in tutto il film) dalla spiccata funzione narrativa.
Saldo mestiere, vecchia scuola, roba da signori – per non dire “da re” -: che aiuta la narrazione a scorrere senza interruzioni o cadute d’attenzione, nonostante la pressoché totale prevedibilità della vicenda anche per i meno esperti di storia dinastica.

Nel film prevalgono l’aspetto storico-biografico e quello personale-introspettivo-sentimentale  – in particolare, con il focus dell’amicizia tra il re e l’umile logopedista, che riesce fortunatamente a tenersi quasi sempre lontano dai rischi di un manierismo da “Il principe e il povero”. Ma le chiavi di lettura, senza forzature,  sarebbero molteplici. Il discorso del re è anche un film sulla comunicazione, sul ruolo dell’individuo nell’epoca della comunicazione di massa: paradossalmente abbinabile, in questo senso, al suo maggior rivale della notte degli Oscar, The Social Network.
Ci sarebbero anche spunti più propriamente politici, ma preferisco fare solo una nota di natura più etica e personale. Il Giorgio VI ritratto da Tom Hooper non fa nessuna scelta – nessuna scelta di natura politica, non sceglie neppure il proprio nome da re -. Fa quello che gli è richiesto, quello che ci si aspetta da lui, nonostante sia un compito di cui sente tutto il peso: rappresentare il proprio Paese.  Tuttavia, non è né timoroso, né passivo, né succube. All’interno di questo dovere sa prendere decisioni, sa anche imporsi laddove lo richiedano le circostanze. Si prende tutte le sue responsabilità, anche quando sono impreviste e lo pongono di fronte a ciò di cui ha più paura e a cui si sente maggiormente inadeguato. A differenza del fratello, Albert  è un uomo che mantiene il suo posto di fronte al pericolo, senza dubbi e senza esitazioni, come il più umile dei fantaccini. Un’etica del dovere che riflette, si direbbe, un’ideologia conservatrice. Ma dalla quale possiamo decisamente imparare qualcosa.

[Visto al Cinemax 2 – Bazzano, domenica 27 febbraio.]


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