Con Maurizio Martina, e perché

27 novembre 2018

– Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che significavano qualcosa,
anche se eri troppo piccolo per capire il perché. […] Le persone di quelle storie
avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto.
Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa.
– Noi a cosa siamo aggrappati, Sam?
– C’è del buono in questo mondo, padron Frodo.
È giusto combattere per questo.

  

Un giudizio laico sugli ultimi anni: rivendicare i risultati, ammettere gli errori

Nella riflessione interna al PD trovo piuttosto speculare, e specularmente irresponsabile, l’immaturità di chi ritiene che in questi anni non abbiamo sbagliato nulla e quella di chi ritiene che abbiamo sbagliato tutto. Vedo la tentazione di proseguire, da un lato, in un’estenuazione del renzismo ortodosso; dall’altro, nell’antirenzismo militante. Mi sembrano entrambe non tanto delle strategie fuori tempo massimo, quanto due scaramanzie difensive contrapposte e immobilizzanti – e in questo drammaticamente convergenti –: sicuramente, nessuna delle due mi pare una soluzione. Tantopiù se cedono alla tentazione di trasformare ancora una volta il percorso congressuale in una delegittimazione continua, in una caricaturizzazione violenta, in una balcanizzazione che non potrà rimanere senza strascichi.

Occorre un coraggio profondamente laico, e un atteggiamento profondamente inclusivo, per ammettere gli errori fatti, rivendicando i risultati ottenuti. Dare la colpa agli altri non serve a niente. Il che non significa negare la pericolosità e la virulenza dei nostri avversari, delle loro strategie, dei loro strumenti, e in generale del clima che si è largamente impadronito del Paese: pericolosità non per il PD, ma per la qualità della nostra democrazia e del nostro dibattito civile. Una presa di coscienza – peraltro fortunatamente viva in non pochi settori della nostra società – che non ammette alcuna indulgenza, né alcun desiderio d’imitazione. Ma occorre riconoscere che non abbiamo saputo vedere la forza e la pervasività di ciò che stava arrivando, e che si autoproclamava imperiosamente alternativo alla nostra azione politica e di governo: azione che non è stata percepita, nonostante tutto, come sufficientemente credibile e sufficientemente condivisa.

Riformismo radicale e altri ossimori

È necessario ribadire un approccio riformista: ma questo dev’essere lo strumento per riscoprire finalmente, com’è indispensabile e urgente, il primato della politica, sottraendolo all’abbraccio mortale dell’illusione populista. Limitarci a deridere gli insuccessi del governo e delle amministrazioni locali dei nostri avversari, le cui promesse s’infrangono miseramente di fronte alla realtà, non è una risposta sufficiente. Occorre chiedersi a quali bisogni reali – ancorché sovente deformati – quelle promesse pretendono di rispondere: e dare ad essi risposte per nulla indulgenti, anzi franche e severe, e tuttavia allo stesso tempo solidali ed empatiche.

Occorre, certo, difendere strenuamente il campo della ragione, dei dati, delle competenze come unico spazio possibile per la discussione pubblica e per la stessa convivenza civile. Ma bisogna anche sollecitare uno sforzo collettivo di pensiero verso una nuova visione del mondo.

Essere riformisti non può mai significare la rinuncia totale a svolgere una critica al capitalismo e al liberismo: perfino quando – contingenzialmente – se ne auspichi e favorisca un migliore sviluppo e un più completo compimento. Non spetta alla sinistra innalzare il vessillo della mera libertà assoluta, né in senso economico né in senso etico: lo mostra, non bastasse altro, la gravità e l’urgenza della questione ambientale (che è forse l’unico elemento unificatore nella grande varietà delle esperienze progressiste più innovative e di successo negli ultimi anni). Anche se un’alleanza con le forze autenticamente liberali è strategica e indifferibile nell’attuale panorama politico internazionale.

 

Tornare a essere luogo

Per noi non si tratta soltanto di ritornare a una visione ad alto raggio, a una narrazione forte, di lungo periodo, che appare l’unico mezzo per non ricadere nell’occasionalismo, nel maquillage, nella gestione dell’emergenza e del quotidiano (basti pensare all’amministrazione locale), e affinché la comunicazione politica sia al servizio della politica, e non viceversa.

Si tratta soprattutto di tornare a essere un luogo credibile a cui chiamare le migliori forze del Paese – individui e corpi intermedi, con rispetto per i luoghi tradizionali ma con un occhio particolare alle nuove aggregazioni – per sollecitarle a formulare le loro istanze, per arrivare a proposte che sappiano a un tempo essere radicali e parlare a una pluralità di soggetti sociali. Ritrovare un modello di partito non pesante ma pensante (questa sì un’espressione felice di Matteo Renzi, cui purtroppo non è seguita, mi pare – per responsabilità non solo sua –, alcuna azione concreta); un centro di gravità, non luogo di compromesso ma connettore di storie e costruttore di esperienze: solido e consapevole, ma in virtù di ciò poroso e disponibile all’osmosi.

L’alternativa è un partito asfittico, tra una mediocrazia di superstiti funzionari di partito, parlamentari e amministratori e un esile corpo di militanti cui troppo spesso non viene offerta una struttura collettiva in cui crescere e formarsi nella discussione informata, nel confronto ordinato, nel rispetto. Insomma, una comunità. Di cui abbiamo dannatamente bisogno.

In questo contesto, una visione di centrosinistra ampia e aggregante, da cui spero mi si possa concedere di non aver mai deflettuto, non serve certo a non avere «nessun nemico a sinistra» – anzi, non di rado occorre dire dei «no» molto secchi, come non bisogna temere di riceverne –, ma a perseverare in quell’attitudine inclusiva che è alla base dell’esperienza stessa del PD.

 

Una scelta

Come qualcuno sa, avevo iniziato a stilare queste righe quando ancora non erano chiari i contorni della sfida congressuale. Certo, sentivo forte l’esigenza di una candidatura che rompesse lo schema, per me pernicioso, che ho delineato all’inizio. Che non fosse, al tempo stesso, velleitaria, di nicchia o di settore, perché questo tipo di candidature non perturba, ma anzi rafforza lo schema principale. Una candidatura che, senza invocare l’ennesima «nuova era», portasse semplici ragioni di unità: non confezionando col bilancino un’impossibile ricetta, ma aprendo con umiltà a un futuro non prigioniero di una qualche frazione del passato, a un orizzonte da traguardare insieme.

Per questo, piuttosto imprevedibilmente – anche se con più forza dopo l’importante manifestazione del 30 settembre –, mi sono scoperto  sperare che Maurizio Martina decidesse di candidarsi. Apprendere che Graziano Delrio – di cui nei mesi precedenti avevo auspicato la candidatura – stava sostenendo quella scelta è stata per me una conferma importante; così come considero una buona notizia, giusto stamattina, che Matteo Richetti abbia deciso di convergere entro un progetto più ampio.

Nel mio piccolissimo, portando con allegria il bagaglio delle mie scelte, dei miei errori e dei miei fallimenti, mi metto con estrema semplicità al servizio di questo progetto. Con la sola ambizione di dare una mano.

Le ragioni di questa mia scelta implicano il rispetto assoluto verso tutti gli altri candidati e i loro sostenitori; prima ancora, il rispetto del partito, dei suoi luoghi, dei suoi metodi. E anche dei suoi limiti e delle sue difficoltà. Implicano anche la volontà di portare avanti più che mai un confronto di idee e di proposte, senza temere ma anzi favorendo contaminazioni e trasversalità.
Non ha senso sostenere Martina se non si vuole far crescere tutto il partito. Tutto. Senza perdite, senza fratture, senza abbandoni silenziosi che sono, ciascuno, una nostra muta sconfitta. È l’unica logica che ritengo ammissibile, tantopiù in questo momento. Ecco, lo sarebbe perfino se vivessimo in tempi normali. Non so se mi spiego.

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Il discorso di Conte al Senato: pillole in 16 tweet

5 giugno 2018

1. Per me la parte più preoccupante del discorso di Conte è l’inizio: la celebrazione tra l’eversivo e il fuffarolo del rovesciamento dell'”ordinario percorso istituzionale”. Prima ancora del superamento della distinzione destra/sinistra e della rivendicazione del populismo.

2. Siamo nel cuore dell’ideologia grillista, meno ingenua ma più compiuta di come la conoscevamo finora dai proclami della Raggi. Del resto Conte questo è: un grillino – sia pur tecnico – fatto e finito. Aspettiamoci dosi da cavallo di questa roba.

3. Conte parla di “diritti sociali … progressivamente smantellati” negli ultimi anni: una narrazione che punta a sfondare a sinistra. Le parole d’ordine sono il salario minimo orario e il reddito di cittadinanza; i nemici, l’austerity e la corruzione.

4. Nel discorso di Conte i cenni al lavoro e all’ambiente sono condivisibili (e piuttosto “grillini-prima maniera”) anche se generici; apprezzabile che siano fittamente intrecciati con la questione tecnologica.

5. L’indicazione (assai asciutta) degli USA come “alleato privilegiato” e soprattutto la visione positiva dell’UE temperano nel discorso di Conte l’apertura alla Russia, che tuttavia è impressionante sentir enunciare così esplicitamente.

6. Su vitalizi, giustizia, lotta alla corruzione e alle mafie Conte si muove come sul burro. Degno di lode il riferimento alla funzione riabilitativa della pena. Interessante il riferimento circostanziato al conflitto d’interesse: sarà da seguire l’attuazione.

7. Come è stato notato, Conte parla di “pensioni di cittadinanza” (?) ma non fa cenno alla Fornero. Il reddito di cittadinanza vero e proprio viene già spostato a una fase 2.

8. Occorre riconoscere che nel discorso di Conte la questione dell’immigrazione è trattata in modo appropriato ed equilibrato. Vedremo come ciò si relazionerà con le mosse di Salvini: pessime negli ultimi giorni.

8bis. Lodevole il richiamo all’uccisione di Soumayla che chiude autorevolmente un giorno e mezzo d’ingiustificato silenzio.

9. Nel capitolo sul fisco Conte mostra le corde: la proporzionalità della flat tax, ovverosia la quadratura del cerchio. L’annuncio del carcere per i grandi evasori è come lo zucchero a velo. Lodevole che si eviti la retorica del povero italiano tartassato da Equitalia.

10. Sulla sanità Conte dice cose ovvie. Sulla ricerca pure: cosa deludente da parte di un professore universitario. Interessante il paragrafo su internet e sul digitale. Non scontato il lungo soffermarsi sul terzo settore.

11. Interessanti i riferimenti di Conte alla responsabilità sociale delle imprese e alla legge fallimentare. Irenico il riferimento alle parti sociali. Tutte da verificare le promesse sulla deburocratizzazione.

12. Il compitino di Conte sugli italiani all’estero e sulle regioni a statuto speciale è una classica marchetta da Prima Repubblica per prendersi qualche voto in più.

13. L’ampia trattazione dei rapporti col Parlamento invece individua una sede in cui Conte potrebbe recuperare centralità e protagonismo anche mediatico rispetto ai “soci di maggioranza”. Vedremo.

14. Ai terremotati Conte dedica il “pensiero finale” e l’annuncio di una visita, ma nessuna promessa.

15. Grandi assenti nel discorso di Conte: le donne (un solo breve riferimento); le famiglie (tradizionali e non); il patrimonio culturale; il turismo; l’agricoltura; molto poco sulla sicurezza, nulla sulla difesa. Praticamente nulla sulla scuola. Altro?

16. In gran sintesi, il discorso di Conte è quintessenza di grillismo avveduto ma ideologicamente forte, un po’ “prima maniera”, che occhieggia a sinistra e punta (anche con qualche imbarazzo ed excusatio non petita) a occultare e ammorbidire la componente leghista del contratto.

Nota bene: inizialmente ho diffuso questo post col titolo erroneo “Il discorso di Conte alla Camera…”. Scusate l’errore.


Due spiccioli sulle elezioni regionali in Molise

23 aprile 2018

Il Molise non è l’Ohio e l’idea che i risultati delle regionali dettino l’agenda a Mattarella è risibile come sarebbe affidare a De Toma – il candidato del centrodestra che si è ormai aggiudicato la presidenza della Regione – la formazione del nuovo governo a Roma.

Ciò detto, qualche riflessione su queste elezioni si può pure fare.

1) L’onda Cinque Stelle non è inarrestabile, nemmeno al Centro-Sud.

2) I Cinque Stelle hanno comunque ottenuto un risultato enorme rispetto alle precedenti regionali (37% contro 12%).

3) I Cinque Stelle si confermano più deboli sul piano locale, essendo ancora carenti nel radicamento territoriale. Da questo punto di vista, aver moltiplicato le liste mettendo in campo una grandissima quantità di candidati locali è stata sicuramente una mossa vincente per il centrodestra. (Mentre rinunciare a qualunque genere di coalizione e presentarsi con la sola lista M5S rischia di diventare un handicap per il Movimento proprio mentre ci sono le condizioni per un suo avanzamento nei territori.)

4) Il centrosinistra cala rispetto al risultato già pessimo delle politiche. E’ un tracollo che la coalizione “larga” non riesce assolutamente a frenare. Il risultato molto brutto del PD non si spiega unicamente con il “sacrificio” rispetto alle civiche, peraltro poco utile, né con motivazioni legate al malcontento per l’amministrazione uscente – che certo non ha giovato. L’impressione è quella di una grave marginalità e labilità. Anche LeU è in calo.

5) La molteplicità delle sigle vizia qualunque confronto interno tra le liste “nazionali” del centrodestra. Converrà limitarsi che la Lega, nonostante lo scarso radicamento locale, non cala rispetto alle politiche, e che il bacino dell’area che fa capo a Forza Italia è alquanto ampio; accanto ad esso, riprende vigore un’area “moderata” era in gran parte confluita in FI. Non male anche FdI.

6) Azzardando ipotesi sui flussi di voto: sicuramente il M5S viene penalizzato dall’astensione più alta (seppur relativamente fisiologica: al dato complessivo va tolto quello degli oltre 70.000 molisani residenti all’estero, che non erano computati alle politiche); difficile che abbia influito un calo di consenso per il comportamento del Movimento a Roma dopo le politiche; molto più probabile che un certo numero di elettori M5S delle politiche abbia deciso, alle regionali, di premiare candidati (soprattutto di centrodestra) a lui più “vicini”. Da questo punto di vista la nuova legge elettorale regionale, che impediva il voto disgiunto, ha probabilmente avuto un influsso non trascurabile.
Il centrosinistra probabilmente cede al centrodestra voti legati ai candidati “transfughi” (alcuni consiglieri uscenti di centrosinistra si sono ricandidati, e saranno eletti, col centrodestra); ma più in generale, forse, sconta un “effetto ballottaggio” con la concentrazione di voti (d’opinione) sui due candidati che venivano avvertito come più competitivi.

 

Vedremo come questi dati si combineranno con quelli delle regionali del Friuli-Venezia Giulia domenica prossima (in quell’occasione si voterà anche per le comunali a Udine e in altri 18 comuni della Regione) prima delle elezioni comunali del 10 giugno, che interesseranno 762 comuni, tra cui Ancona e altri 20 capoluoghi di provincia. In Emilia-Romagna si voterà in 18 comuni; nel Bolognese, oltre all’importante test di Imola, ci saranno le elezioni anche a Camugnano; nel Modenese a Guiglia, Serramazzoni, Camposanto e Polinago.


Trasumanar e organizzar

9 marzo 2018

Pare già partita la giostra dei nomi per le prossime primarie del PD dopo le dimissioni di Renzi. Quelle dimissioni – premetto – erano inevitabili, e a questo punto è ovvio e necessario che il processo congressuale si debba aprire, mentre spetta al vicesegretario Martina garantire la gestione del partito in un momento politicamente e istituzionalmente molto delicato. Detto ciò, la “conta” mi interessa molto poco.
In questa fase mi interessano soprattutto i contenuti, ma molto più quelli sul metodo che quelli nel merito. Per intenderci, sosterrò chi mi promette, in maniera credibile e dettagliata, apertura e ascolto delle persone (NON limitato a quelle “del partito” e alla nostra rete “di comodo”); organizzazione decente, in modo da far fruttificare ogni disponibilità e ogni manifestazione d’interesse, creando finalmente il piano inclinato che porta dal simpatizzare alla militanza, in modi e tempi che siano consapevoli delle attuali modalità di vita e di relazione delle persone; funzionamento reale e democratico degli organismi eletti a tutti i livelli. I contenuti – possibilmente non in formulette del tipo “più a sinistra”, “più a destra”, “più di fianco” – sono fondamentali, figurarsi: ma, tantopiù in questa fase, hanno senso come esito di un processo di base che non può compiersi nei tempi – che pure spero più dilatati – della fase congressuale (parlo volentieri, non a caso, di congresso prima che di primarie). Il congresso non deve concludere questa fase: deve farla partire. Non è il tempo della fretta, non è il tempo delle scorciatoie, è il tempo della riflessione che diventa costruzione paziente e, possibilmente, condivisa. Ma questa riflessione deve cominciare, e subito.


Per una ragionevole speranza

1 marzo 2018

Vorrei spiegarvi perché anche a queste elezioni voterò PD e perché vi invito a farlo anche voi.

Non credo che questo sia un partito perfetto: perché non esiste un partito perfetto, né possiamo pretendere un partito che ci rappresenti perfettamente, né un partito fatto solo di santi e di eroi. Il PD è un partito vero, o ci prova: non è “proprietà privata” di nessuno, è una comunità fatta di uomini. E nelle cose fatte di uomini ci sono difetti, errori, colpe…: avete presente, no? Stessa cosa per un governo!

Ma questo governo – i tre governi del PD: Letta, Renzi, Gentiloni – ha fatto un sacco di cose buone.

Alcune misure sono state molto criticate, per esempio il “Jobs Act” e la riforma della “Buona Scuola”. Condivido alcune critiche: per esempio, avrei voluto maggiori disincentivi al licenziamento e maggiori ammortizzatori sociali per le persone licenziate. Tuttavia, è innegabile che questa legge ha avuto una parte nell’agganciare la ripresa economica e nel far ripartire le assunzioni. Inoltre, si sono impedite le dimissioni in bianco, migliorate le norme per la maternità e la paternità, ed è stata fatta la legge contro il caporalato. Personaggi del calibro di Nadia Terranova e Carlo Calenda hanno affrontato con determinazione una quantità di gravi crisi industriali, portando in molti casi a risultati positivi.
Non possiamo neanche dimenticare che i famosi “80 euro” rappresentano il maggiore abbassamento del costo del lavoro a favore delle classi medie e medio-basse: quelle che maggiormente vanno protette dal rischio di povertà. Ed è stata abolita l’IMU sulla prima casa è stata abolita, escluse le abitazioni di lusso.
L’introduzione del reddito di inclusione, invece, è fatta per spingere le persone più disagiate a ripartire, non per lasciarle nella precarietà. Il “bonus bebè” è una misura concreta di sostegno alle famiglie. La legge sul “dopo di noi” ha dato per la prima volta una concreta garanzia alle famiglie con persone disabili. Ricordiamo anche la nuova legge sulla continuità affettiva riguardo alle famiglie affidatarie.

Sul fronte della scuola, confermando il sistema pubblico-privato, questo governo ha destinato alla scuola pubblica risorse mai viste prima, sia per le strutture sia per promuovere la formazione (anche con il bonus docente), l’innovazione e l’autonomia scolastica, e ha permesso l’assunzione in ruolo di centomila insegnanti.
Anche nella sanità, dopo i duri tagli degli anni precedenti, gli investimenti sono tornati ad aumentare, permettendo da ultimo un alleggerimento dei vincoli alle assunzioni e la stabilizzazione dei precari; si sono creati i nuovi Livelli essenziali di assistenza, per garantire a tutti parità d’accesso ai servizi; si è stabilito l’obbligatorietà dei vaccini.
Nel campo della sicurezza sono state finalmente destinate più risorse alle forze di polizia e sono stati dati ai sindaci maggiori strumenti per combattere la criminalità e il degrado. Parlando di legalità, è nata l’Autorità anti-corruzione ed è stato approvato il Codice anti-mafia il processo civile telematico e la storica legge sulla responsabilità civile dei magistrati Ma ricordiamo anche che il recupero dell’evasione fiscale non è mai stato così alto (da 12 a 20 miliardi l’anno)!

Renzi è stato criticato per aver salvato e accolto decine di migliaia di migranti, Minniti è stato criticato quando ha cercato di gestire il fenomeno anche con provvedimenti controversi: la realtà è che si è mantenuta coerentemente, in una situazione molto complessa, una posizione che coniugasse l’umanità e il realismo.

Il governo del PD ha approvato la legge sulle unioni civili: qualcuno non sarà d’accordo, ma a ripensarci non vi sembra strano, ora, che due anni fa una coppia dello stesso sesso non avesse alcun tipo di riconoscimento? Ed è stata approvata la legge sul testamento biologico, una legge profondamente equilibrata e basata sui migliori principi del nostro umanesimo.
È stato abolito il finanziamento ai partiti, sostituito da una forma di contribuzione volontaria (una mossa molto coraggiosa: perfino avventata per alcuni).

In campo ambientale dobbiamo ricordare almeno la legge sugli ecoreati, quella contro lo spreco alimentare, quella per la ciclabilità. Ritengo tuttavia che in questo campo, in cui ci sono stati anche provvedimenti controversi (per esempio alcuni di quelli compresi nel cosiddetto “Sblocca Italia”), sia necessario fare di più: e molte proposte sono effettivamente contenute nel programma per i prossimi anni.
Ma non possiamo dimenticare il varo di altre importanti e attese riforme: quella del Terzo settore, quella della Pubblica amministrazione, quelle relative al campo culturale (in cui si è vissuta una stagione di grande rafforzamento delle istituzioni culturali italiane, a cominciare dai musei); senza contare le tante misure per la semplificazione burocratica e fiscale.

Tutto questo – e molte altre cose – è stato fatto nel rispetto delle regole previste dall’Europa. Occorre continuare a lottare per un’Europa diversa, ma bisogna farlo con i conti a posto, mantenendo la nostra credibilità e la nostra affidabilità: non per nulla, il numero delle infrazioni della normativa europea registrate nei confronti dell’Italia in questi anni si è dimezzato.

È sufficiente? No. Bisogna andare avanti. In particolare per andare incontro alla precarietà, alle nuove emarginazioni, alle insicurezze di chi si sente smarrito di fronte all’economia globale.

Ma i risultati ottenuti sono importanti e vanno messi al sicuro. Non possiamo dare la guida dell’Italia a pericolosi dilettanti che si sono dimostrati privi di qualunque capacità anche nel governo locale, come il Movimento Cinque Stelle, e che mascherano dietro un’illusoria pretesa di onestà a tutti i costi una pericolosa ignoranza dei principi basilari della democrazia. Non possiamo ridare il Paese a chi pochi anni fa lo ha fatto precipitare irresponsabilmente nella crisi, come il centrodestra. Non possiamo fidarci di chi semina l’odio e la paura nascondendo una paurosa povertà di contenuti, come la Lega e i partiti di estrema destra, che strizzano allegramente l’occhio ai neofascismi.

Al di là delle contrapposte utopie, che spesso si sono rivelate perniciose, il Partito Democratico e le altre forze che compongono la coalizione di centrosinistra mi sembrano le uniche forze che possono guidarci in un percorso di RAGIONEVOLE SPERANZA.

Vi invito a votare PARTITO DEMOCRATICO e a suggerire quest’opportunità ai vostri familiari, amici, conoscenti (basta una chiacchierata, telefonata, un messaggio whatsapp: se volete potete usare anche questo piccolo “appello al voto”). Vorrei anche invitarvi a partecipare alle iniziative del PD, a iscrivervi, a diventare militanti: per provare a cambiare le cose che non vanno, per sostenere quelle che funzionano. Ma, ecco: una cosa alla volta. Partiamo da questo voto. Sembra niente. È tantissimo.

(Il programma del PD nel dettaglio lo trovate QUI.) 


Sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti

16 dicembre 2013

Trovate sul Post un buon riassunto sulla riforma che abolisce il finanziamento pubblico ai partiti.

Per me questa riforma – che il governo Letta, con una buona mossa, ha approvato per decreto in attesa che il Parlamento finisca di lavorarci sopra – è un ottimo risultato.
Sia chiaro: non mi iscrivo né alla categoria di quelli per cui il finanziamento pubblico ai partiti è la quintessenza della democrazia, né a quella, più affollata, che vede il concetto stesso di “soldi-ai-partiti” come “il male”.

Semplicemente, senza dover citare Aristotele o san Tommaso d’Aquino, penso che la politica sia una dimensione fondamentale della vita associata degli esseri umani; e che la politica, in un paese civile, significa democrazia parlamentare, che normalmente prevede la presenza di partiti (comunque li vogliate chiamare, partiti sono). Chi la pensa diversamente dovrebbe indicare l’alternativa: quelle finora proposte non sembrano molto rassicuranti (in questi giorni i “forconi” hanno rispolverato una vecchia conoscenza: la “giunta militare”); soprattutto, il fatto stesso di proporle significa “fare politica”.

 E per fare politica ci vogliono soldi. Lo sa bene chiunque abbia dovuto comprare una risma di carta per fotocopiare un volantino.

Quanti soldi ci vogliono? Su questo, ovviamente, si può discutere. Le elezioni presidenziali USA sono l’esempio più celebre di una campagna che in pochi mesi brucia una montagna di soldi. Ma ci sono casi, non esclusivamente locali, di campagne elettorali fortunatissime fatte spendendo veramente poco. In Italia storicamente, più che per le campagne elettorali (peraltro frequentissime vista la nostra nota instabilità politica), la maggior parte del denaro impiegato per la politica serviva per alimentare strutture di partito particolarmente pesanti, il famoso “apparato”. Ma anche chi teorizza un partito più “leggero” – io nel mio piccolo sono tra questi, sia pure con motivazioni e distinzioni che mi sono care: leggero non vuol dire liquido – non può non scontrarsi con la necessità di denaro a cui non sfugge nessuna struttura associata (né le associazioni di volontariato, né le chiese, né i club…), tantopiù se di livello nazionale.

 Da dove devono provenire questi soldi? Finanziamento pubblico ai partiti significa predisporre, con determinati criteri, una quota proveniente dalla fiscalità generale. Nonostante il referendum del 1993, la normativa sui rimborsi elettorali finora in vigore non sfuggiva a questo principio. Insomma, erano gli stessi partiti, nel complesso, che stabilivano quanti soldi dovevano spettare a loro stessi. Di per sé non è un’eresia. Quello che mancavano erano meccanismi efficaci di controllo e trasparenza, uniti all’assenza, per molti partiti, di bilanci verificabili, ma anche di procedure interne effettivamente democratiche. Non per nulla il denaro è progressivamente lievitato, esorbitando completamente dalle spese – pure ingenti – effettivamente documentate dai partiti per le campagne elettorali (falsificando nei fatti la qualifica di “rimborsi”), ma si sono moltiplicati esponenzialmente gli abusi: facilitati dal fatto che la maggior parte dei partiti ha meccanismi di democrazia interna alquanto carenti, e che non prevedono certo il controllo dei bilanci, che di solito non sono né pubblici (né conosciuti dagli aderenti) né certificati: caratteristiche, queste, che vengono invece richieste dalla nuova legge.

Abolire davvero il finanziamento pubblico significa rinunciare a questo meccanismo. La risposta dev’essere quindi: i partiti vengono finanziati dai cittadini: quelli che lo vogliono, nella misura in cui lo vogliono.
La nuova normativa – una volta entrata a regime – prevede questo? Sì. Non verrà erogato un centesimo che non dipenda da una decisione precisa di un cittadino. I cittadini che vorranno finanziare un partito potranno riservarvi un 2 per mille della tassazione dei loro redditi. Il corrispondente 2 per mille di non si avvarrà di questa possibilità andrà, esattamente come ora (e come avviene per il 5 per mille destinato alle associazioni), allo Stato. A parte ciò, il denaro versato liberamente dai cittadini a un partito beneficerà di una deduzione fiscale.

Sono inoltre previste altre agevolazioni per certe spese fatte dai partiti.

Su queste agevolazioni ci sono stati parecchi commenti. Per quanto mi riguarda, il prevedere una serie di agevolazioni mi sembra rientri tranquillamente nell’alveo del riconoscimento, da parte dello Stato, dell’importanza di una serie di “corpi intermedi” (appunto associazioni, chiese e, ora, formazioni politiche) – che sarebbero poi la famosa “società civile”. Fra l’altro mi sembra che la Costituzione riservi ai partiti un ruolo assai più forte e necessario rispetto a quello delle associazioni, e perfino delle confessioni (nonostante il modello concordatario “forte” sancito dall’articolo 8 e poi perseguito, per ovvie ragioni di parità, nei confronti delle confessioni diverse da quella cattolica). Quindi mi sembra piuttosto inquietante che, nel momento in cui si abolisce effettivamente il finanziamento pubblico – cosa per me, ripeto, sacrosanta – qualcuno storca il naso per una serie di agevolazioni fiscali con cui si favorisce un mattone fondamentale della democrazia quale prevista dalla nostra Carta.

[Sì, ho ricominciato a scrivere su Pentagras. Magari smetto subito, eh.]


La fusione in Parlamento

22 febbraio 2013

La battaglia politica che si è consumata – e certo non spenta – sulla fusione dei Comuni della Valsamoggia avrà influenza sul risultato delle elezioni di domenica e lunedì in vallata? Dalle scelte degli abitanti della Valle del Samoggia per il Parlamento nazionale potremo trarre qualche indicazione per capire quali probabilità di successo avrà l’assalto alle amministrazioni locali targate PD? Un assalto, sia detto di passaggio, per il quale le opposizioni sembrano già mobilitate in una sorta di campagna elettorale permanente da qui al 2014, con la probabile intenzione di marciare separati per colpire uniti all’eventuale ballottaggio.

Le elezioni politiche sono il livello più distante dalla realtà amministrativa locale, nonché quello in cui le mode passeggere e gli eventi contingenti incidono meno sulle convinzioni e sulle abitudini sedimentate. Proprio per questo, paradossalmente, se gli eventi locali, e in particolare quelli relativi alla fusione dei Comuni, lasceranno un segno sulle elezioni del 24-25 in Valsamoggia, siamo autorizzati a pensare che tali tendenze potrebbero essere ancora più incisive alle elezioni amministrative del 2014 (ovviamente è una possibilità teorica: in quasi un anno e mezzo possono succedere molte cose).

Penso da un lato ai cittadini che, credendo nel progetto della fusione, e proprio grazie alla pesante polarizzazione politica che – qualunque cosa se ne pensi – si è sviluppata su questo tema, si sono avvicinati alle forze dell’attuale maggioranza, e in particolare al PD. C’è stato sicuramente uno spostamento di questo tipo da parte di esponenti vicini alle liste civiche: alcuni di essi sono anche noti. In parte è probabile che si tratti in buona parte di persone che comunque in passato avevano votato PD, ma che se ne erano successivamente distanziate, in particolare alle elezioni locali, ma forse anche in altre occasioni. Ma è possibile che questo effetto si sia verificato anche per una fascia più ampia di cittadini. Potrebbe quindi mostrarsi sotto forma di una prestazione più tonica del PD alle elezioni di questo fine settimana (un dato che andrà misurato sia rispetto ai risultati delle elezioni precedenti, sia rispetto a quelli dei Comuni vicini).

D’altro canto, una parte degli elettori dell’attuale maggioranza locale di centrosinistra si è schierata – molti nel segreto dell’urna, altri anche pubblicamente – contro la fusione dei Comuni. Per alcuni di essi ciò potrebbe non influire sulle scelte politiche nazionali; per altri, la virulenza della polemica sarà probabilmente tale da indurli a prendere le distanze dai partiti che hanno sostenuto la fusione anche nel voto del prossimo fine settimana. Ma (a parte l’ipotesi tutt’altro che peregrina che una parte di questi elettori scelga l’astensione), quali forze politiche ne beneficeranno? In prima fila ci sono il Movimento 5 Stelle e Sinistra e Libertà, che si dividono variamente buona parte dell’elettorato (nonché della dirigenza) delle liste civiche. Con alcune dinamiche particolari: SeL ha polemizzato nelle scorse settimane con i partiti ora raggruppati nella lista di Rivoluzione Civile – che si presentano come sinistra “dura e pura” in quanto non alleati col PD – rinfacciando loro di essersi “piegati” alla fusione dei Comuni (Federazione della Sinistra e Italia dei Valori hanno firmato il documento a favore della fusione e votato il provvedimento in Regione). Del resto SeL in Valsamoggia, anche nelle ultime settimane di campagna elettorale, sta insistendo con molta forza sulla questione della fusione, senza lasciar trapelare alcun imbarazzo per il fatto di presentarsi in coalizione col PD. Non è affatto escluso, del resto, che una parte di elettori di provenienza PD consideri il voto per SeL come adatto sia a marcare il proprio dissenso sulle questioni locali, sia a esprimere comunque un “voto utile” rimanendo nell’ambito del “classico” centrosinistra.

Naturalmente occorrerà osservare anche i voti del centrodestra, che si è compattamente schierato – PdL e Lega – contro la fusione. Sarà difficile trarre considerazioni dai risultati dell’UDC, sia perché il suo atteggiamento sulla fusione è stato, a livello locale, contraddittorio (alcuni esponenti si sono schierati a favore, altri – come pure in Regione – contro), sia perché si tratta di una formazione relativamente esigua. Un’eventuale tendenza delle liste civiche a catalizzare il voto delle opposizioni potrebbe lasciare qualche traccia anche nelle scelte politiche nazionali.

Si tratta di semplici ipotesi che potrebbero facilmente essere spazzate via se si verificherà che nei Comuni interessati dalla fusione il differenziale tra i risultati dei vari partiti sarà uguale a quello dei Comuni circostanti. Vedremo presto se queste piste di lettura avranno qualche fondamento, e se – guardando alle elezioni comunali del 2014 – le forze politiche locali saranno rafforzate dai risultati di lunedì, chi nei propri timori chi nelle proprie speranze. Che si mescolano – legittimamente, col debito senso delle proporzioni – alle speranze e ai timori di tutti gli italiani per il futuro del Paese in questo appuntamento cruciale.

 


Dopo il referendum

27 novembre 2012

Il dato che risalta nel referendum sulla fusione dei Comuni della Valsamoggia è anzitutto quello dell’affluenza, che raggiunge a stento la metà degli aventi diritto. Mesi di campagna accesa e di forte polemica da parte di tutte le forze politiche e dei comitati schierati per il “sì” o per il “no”, un’altissima visibilità – un fatto del tutto inedito per questo territorio – su giornali e televisioni non solo locali e perfino nel dibattito politico-istituzionale nazionale, e l’arrivo in vallata di favore del personalità di assoluto rilievo nazionale schierate a favore del “sì” non sono bastati a portare al voto, su una questione di grandissima rilevanza locale, più del 50% dei cittadini.
Tra i votanti, la vittoria di misura del “sì” per 325 voti (su 11127 voti validi ci sono stati 5726 “sì”, il 51,46%, e 5401 “no”, il 48,54%) non oscura la netta affermazione del “no” a Bazzano (58,52%) e Savigno (56,80%).

Si tratta di un dato complessivo estremamente delicato, che la Regione è chiamata ad analizzare con grande attenzione.
I Consigli comunali dei cinque Comuni avevano approvato, nei mesi scorsi, un ordine del giorno che invitava la Regione “a tenere conto del risultato complessivo della consultazione e di quello nei singoli Comuni”. A questa importante affermazione di principio, tuttavia, non è mai seguita – benché richiesta da qualcuno – la formulazione di criteri oggettivi che potessero aiutare la valutazione del voto.
Resta però evidente che lo scopo di quel pronunciamento era proprio rassicurare i cittadini che non l’esito del referendum non sarebbe stato valutato semplicemente sulla base del risultato complessivo. Le affermazioni del tipo “hanno vinto i sì, quindi si va avanti”, espresse anche molto autorevolmente nella giornata di ieri, sono quindi profondamente improprie.

Il suggerimento di “rafforzare la comunicazione” nei Comuni dove il “no” ha prevalso è ancor più paradossale e mostra un’apparente incomprensione del problema. Difficilmente la “comunicazione” poteva essere più martellante e capillare di quanto è avvenuto, e non c’è dubbio che da questo punto il fronte del “sì” fosse largamente avvantaggiato.Anche una lettura “partitica” sembra difficile da sostenere: nonostante le forze politiche si siano schierate in modo netto con una contrapposizione sempre più frontale, accompagnata dalla malaugurata tacitazione di qualunque dialettica interna e dal tentativo di mobilitazione “militare” dei propri simpatizzanti, ciascuno può verificare facilmente che le opinioni e le prese di posizione dei cittadini sono rimaste alquanto trasversali rispetto allo schieramento politico. Questo sembra ancor più vero rispetto alle “dichiarazioni di voto” espresse dalle organizzazioni sindacali e di categoria. È la conferma, se ce ne fosse bisogno, del prevalere progressivo di una concezione di “appartenenza” profondamente diversa dal passato; e ancor più semplicemente, del fatto che il prendere le decisioni in modo fortemente verticistico, magari ratificandole, a volte senza neppure un voto formale, in assemblee il più possibile plebiscitarie, per poi “comunicarle” semplicemente alla “base” di riferimento riflette logiche sociali ormai perlopiù desuete.

A molti, troppi cittadini – certo non solo bazzanesi e savignesi, e non solo sostenitori del “no” – non è mancata la “comunicazione”, che forse è stata addirittura sovrabbondante. È mancato il coinvolgimento, la partecipazione, la sensazione della proposta di costruire un progetto condiviso. Una responsabilità che grava per la maggior parte sui promotori della fusione: se una grande debolezza dei sostenitori del “no” è l’inesistenza di un vero progetto alternativo, è chiaro che il compito di essere al tempo stesso convincenti e coinvolgenti spetta anzitutto a chi ha costruito una proposta così esigente. Ma l’impegno generoso e anche commovente di molti sostenitori della fusione – giovani segretari e militanti di partito quanto semplici cittadini appassionati – ha dovuto fare i conti con vertici che hanno lasciato (anche a singoli sindaci) scarso spazio di negoziazione e che hanno dimostrato forte propensione a lasciare troppi aspetti nell’indeterminatezza – per avere mano libera in seguito, vien da pensare –, malamente compensata da qualche proposta estemporanea “ad effetto”.
Come mostrano fin troppo bene i dati dell’affluenza, in moltissimi cittadini ha prevalso un senso di estraneità. Esso – certo saldandosi con una più generale sfiducia nella politica e nelle istituzioni – si è prevalentemente tradotto nella mancata partecipazione al referendum. Per molti è invece divenuto esplicita ostilità e si è espresso col voto, maggioritario laddove erano più forti e attivi i partiti e i comitati del “no”, che l’hanno saputa catalizzare e canalizzare, e più deboli i partiti e i comitati del “sì”, che non hanno saputo sufficientemente rassicurare e spiegare. Ma sarebbe errato pensare che tale senso di estraneità non sia presente anche tra coloro che alla fine hanno votato “sì” perché, alla fine, si sono fidati dei proponenti o hanno saputo distinguere tra la bontà della proposta – nonostante i vari aspetti manchevoli o controversi – e le modalità con cui è stata messa in campo.

Ritengo che la Regione Emilia-Romagna, chiamata a un difficile compito, debba partire da questo quadro assai problematico.
Nel frattempo, penso che la cosa peggiore sarebbe che qualcuno usasse come capro espiatorio i segretari di partito e gli amministratori dei Comuni dove ha vinto il “no”, e che ora sono impegnati, come ha dichiarato stamattina il sindaco di Bazzano Elio Rigillo, a tenere conto dell’espressione maggioritaria dei loro concittadini. Un simile tentativo servirebbe solo a mascherare le insufficienze e le debolezze, più volte denunciate, della modalità con cui si è condotto questo processo, sia nella campagna referendaria finale, sia soprattutto nei lunghi mesi in cui sono state prese le decisioni politiche vere e proprie. E di cui portano la responsabilità anzitutto le persone e gli organismi che tali decisioni hanno assunto e guidato.


Il PD, qui, adesso. Voci dalla rete

23 Maggio 2012

Stavolta nessuna “parola mia”. Sulle ultime elezioni amministrative, e su quel che c’è da fare, riporto solo un po’ di impressioni – più o meno “autorevoli”, per quel che conta -, naturalmente con un occhio particolare all’Emilia-Romagna, ma non solo.

Partirei dall’ottimo riassunto di Luca Sofri, secondo cui «Tra il PD “istituzionale” e quello sovversivo, vince il secondo» (poi Sofri dice anche qualcos’altro, qui. Un monito per tutti, specie per noi in Emilia-Romagna. Dice cose simili anche Giuseppe Civati: “Il Pd dove si apre alla partecipazione ed esprime un profilo di governo, serio e competente sotto il profilo amministrativo, in queste condizioni non ha rivali. Quando sa interloquire con il civismo e con la spinta che proviene dal basso, in questo momento, è letteralmente imbattibile.
Speriamo sappia far tesoro, però, di quella che è prima di tutto un’opportunità che si apre, non una partita che si chiude”.
Civati offre poi (qui) un’ottima analisi di com’è andata la vittoria in Lombardia – in cui ha avuto qualche parte. E dice anche alcune cose piuttosto energiche, qui. Un’analisi notevole, in particolare del successo del Movimento Cinque Stelle al Nord, è anche quella del bravo Stefano Catone, qui. Mentre un commentatore ricorda che «Alle politiche del 2008, nel solo Comune di Parma, il PD ha preso 47.153 voti, contro i 28.498 (di lista) delle regionali 2010 e i 17.472 (di lista) di queste comunali».

Anche Debora Serracchiani dice chiaro e tondo che «il risultato di Parma… offusca ogni altra vittoria del Pd. … Se la credibilità di una leadership politica si rivela nel percepire e nell’accompagnare i mutamenti e i bisogni della società, per Bersani questo è il momento di dimostrare che il Pd è all’altezza delle vittorie e impara sul serio dalle sconfitte. Dopo Parma, il motto “rinnovarsi o morire” non è una critica alla segreteria ma una proposta concreta» (qui l’intero – breve – post).

Un tema che svolge con nettezza anche il nostro vicino di casa, Loris Marchesini, da Anzola: abbiamo vinto, sì, ma «con molti “se” e molti “ma”»: «abbiamo vinto perché si sta chiudendo nel modo peggiore per loro la stagione del centro-destra… abbiamo vinto dove abbiamo saputo esprimere il meglio delle candidature attraverso le primarie, abbiamo perso dove non le abbiamo sapute gestire ed abbiamo presentato candidature usurate (Parma) o rampanti (Palermo)…  abbiamo ancora una estrema lentezza, fino all’arroganza, nel procedere nel cambiamento necessario, nel virare il timone nella direzione giusta». Il resto qui.

Anche il segretario del PD di Bologna Raffaele Donini dice che «O si cambia, o si muore», anche se nella sua intervista di oggi (qui) sembra proiettare questa necessità di cambiamento più su Roma che sul nostro territorio.

Ma l’intervento più inquietante sulle possibilità di cambiamento nel PD è quello di Paolo Cosseddu: “E’ la regola dell’hully gully: se prima eravamo in dieci a ballare l’hully gully, adesso siamo in nove a ballare l’hully gully. Di cui otto dalemiani, però“.  Premunitevi contro la depressione, ma leggetelo assolutamente fino in fondo: qui.

Spostandoci di poco, dice parole brusche – beneficamente scomode – anche Francesco Costanzini da Sasso Marconi: «Caro PD, impara a gestire il dissenso, impara a non pilotare le scelte della gente e a fare primarie vere in ogni luogo. Non ha senso giocare a screditare l’avversario, piuttosto non permettere ad altri di cavalcare quelle che dovrebbero essere le tue battaglie ma che forse sono sopite chissà dove. Il consenso storico finirà, è destinato anagraficamente ad esaurirsi, pertanto è bene tornare a far politica con le passioni dei tempi che furono, tra la gente, con la gente, dal basso. Con trasparenza.
La credibilità la si ottiene agendo in modo democratico in ogni sede, senza collusioni col Potere. La coerenza in tutto ciò che si fa è una carta al tornasole, non si può pensare di proporsi come novità se la gente è la stessa, se le voci fuori dal coro vengono isolate, se non si pratica la democrazia dal basso, se non si rinuncia ai privilegi, se si lotta per le stesse poltrone da decenni.
La gente ha bisogno di tornare alla vera politica, a quel sistema che faceva sognare e che permetteva di amministrare la cosa pubblica in modo onesto, trasparente e per il bene comune. Berlusconi ce lo siamo “meritati”, ora il Paese ha bisogno di rigore da parte di tutti, chi è in Parlamento per primo deve dimostrare equità e di lavorare per la gente, per i lavoratori difendendo i diritti e aiutando i deboli anche rinunciando ai propri iniqui privilegi.
Bisogna imparare a considerare l’avversario in modo più sereno, bisogna imparare a leggere le sconfitte ed imparare dagli errori. Ci vuole un’assunzione di responsabilità, non processi pubblici ma essere capaci di avere coraggio e mettersi da parte quando si capisce di aver sbagliato! Solo così si conquistano le persone e si vincono le elezioni e si ben governa. Altrimenti si resta al palo sino a quando ci si riuscirà, prima di essere spazzati via e col tempo… sparire!»

Una riflessione molto originale e personale è quella di Roberto Balzani, sindaco di Forlì: «La lezione di Parma, pur al netto di tutte le complesse variabili locali, che non e’ sempre facile decifrare per esterni al contesto, e’ chiara: per una quota importante di elettorato, il ceto politico e’ un’oligarchia impermeabile e senza colore, assolutamente intercambiabile. E per questo solo fatto – che si tratti di governo o di opposizione “tradizionali” – da rifiutare in blocco. Ma sarebbe un errore pensare a un po’ di maquillage della comunicazione per ristabilire il contatto: il problema e’ più radicale e profondo e, a mio modesto avviso, riguarda in primo luogo le motivazioni per cui ciascun amministratore sceglie di fare politica. Cosa mette sul piatto? Cosa sacrifica, di se’ e della sua vita, per essere credibile (questione prioritaria rispetto ai risultati, che sono ovviamente interpolati da infinite casualità)? La selezione – anche nei partiti “tradizionali” – non può eludere questo nodo esistenziale: altrimenti cadiamo nella solita retorica dei valori e dei buoni proposti. Dei quali la gente e’ giustamente stufa. Cosa perdi per esporti tutti i giorni al giudizio dei tuoi concittadini? Su questo terreno si misura il tuo coraggio, la tua volontà di connettere pensiero e azione, infine la tua libertà

Da Lugo, Serena Fagnocchi ammonisce: «I voti non sono di proprietà dei partiti.  I cittadini votano le persone non i partiti. I candidati devono essere seri, credibili e nuovi. E se qualcuno pensa che il vuoto politico lasciato dall’astensione enorme non verrà colmato in un anno, e che basterà tenere la rotta con pochi aggiustamenti, assisterà alla riedizione della “gioiosa macchina da guerra”, temo (tanto ad essere chiamata Cassandra, rompicoglioni e inesperta ci sono abituata)».

Lascerei la parola riassuntiva al consigliere regionale PD Thomas Casadei: «Assai preoccupante il crollo della partecipazione; crollano Lega e PDL – ovvero chi ha dominato la scena nella “seconda repubblica”; ottima affermazione del PD e del centrosinistra unito e aperto a istanze civiche in tutta Italia – con successi eclatanti in territori ove da decenni aveva governato la destra (98 comuni sopra ai 15 mila abitanti saranno governati dal centrosinistra; 44 dal PDL); il …”terzo polo” è uno strano miscuglio che si muove in modo molto variopinto e senza grandi successi (peraltro in vari casi alleato della destra); in Emilia-Romagna – dato su cui riflettere con umiltà e serenità, ma anche molto coraggio, è eclatante il successo del Movimento 5 stelle a Parma e Comacchio (e per poco abbiamo “salvato” Budrio): derubricarlo a successo “per i voti della destra” non aiuta a comprendere il fenomeno e rischia di essere fuorviante. Dove il Pd e il centrosinistra hanno espresso spinta verso il cambiamento e programmi e candidati innovativi (a prescindere dal mero dato anagrafico) hanno vinto, dove hanno intrapreso altre vie … no. Abbiamo pochissimi mesi – un lampo – per presentare un’alternativa radicale e credibile alla crisi del sistema. Una sfida straordinaria che richiede, da subito, alcune azioni concrete [segue].»

Ecco: il post finisce così, con un “segue”. Tutto dipende da come lo riempiremo, ciascuno per la propria parte.
Per Bazzano cercherò di buttar giù qualcosa anch’io. Datemi tre-quattro di giorni di tempo.


Preferirei di no: un appello sulla legge elettorale

28 marzo 2012

Il bipolarismo è l’orizzonte di riferimento in cui trova senso il progetto del PD. Ciò è vero sia nell’ottica di coalizione – quella prevalsa nell’ultimo congresso e del resto messa in pratica nelle amministrazioni di centrosinistra di tutt’Italia – sia, e anche di più, nell’ottica di “vocazione maggioritaria” e tendenzialmente bipartitista, stella polare di Veltroni dal Lingotto in poi.

La bozza di legge elettorale presentata da Violante, e a cui si ispira l’accordo di massima di ieri tra Alfano, Bersani e Casini, va in una direzione profondamente diversa. Nonché diversa dalla proposta – pure compromissoria e, va detto, pasticciata – su cui il PD aveva trovato l’accordo nell’ultima Assemblea nazionale.

Non ci si può girare intorno: prevedere un sistema di fatto proporzionale mediante il quale le forze politiche stabiliscano solo dopo il voto, a seconda dei rapporti di forza che si vengono a trovare in Parlamento, con chi allearsi – e quindi, con quale programma e quali obiettivi, indipendentemente da quelli che hanno sottoposto agli elettori – è un colpo mortale al bipolarismo. È inevitabile che piaccia a qualcuno. Anche nel PD. Ma è preoccupante che nel PD l’alleanza tra i nemici del bipolarismo e coloro che non hanno mai condiviso, evidentemente, il progetto originario del PD, risulti – allo stato attuale – vincente, non solo su quanto deliberato in ultimo dagli organi del partito, ma anche sulla stessa base che ha permesso la vittoria congressuale di Bersani, e che non contraddiceva le ragioni fondanti del partito stesso.
Ce ne sarebbe d’avanzo per chiedere la convocazione di ben più dell’Assemblea nazionale, in effetti: la preoccupazione espressa con estrema forza da Rosy Bindi (già col documento dei Democratici Davvero del 17 marzo), ma anche da Arturo Parisi, è assolutamente giustificata. Se salta il bipolarismo, il PD diventa qualcosa di profondamente diverso da ciò che è. E non è affatto detto che, nel medio periodo, continui a esistere.

Curiosamente ciò avviene dopo che sulla riforma del lavoro il PD ha trovato una notevole unità d’intenti, come non era scontato, con un equilibrio non strumentale che sembra convincere sia coloro che volentieri prepensionerebbero fin da subito il governo Monti, sia coloro che già si spingono a pensare a un governo Monti e a una “grande coalizione” anche dopo le elezioni del 2013.
Se entrambe queste tendenze – due tendenze estreme, nella sostanza, e io credo largamente minoritarie rispetto al buonsenso prevalente nel partito – si trovassero soddisfatte dell’accordo sulla legge elettorale, spero risulti chiaro a chi guida il PD che ciò significa semplicemente prevedere, senza infingimenti, che il partito si spacchi in due. E come quando si gioca con l’osso dei desideri, l’unico dubbio non è se l’osso di pollo si spezzerà, ma solo a chi resterà in mano la parte più grossa.

La legge elettorale abbozzata ieri diventa lo strumento più efficace per ottenere questo risultato. Chi la ritenesse un male minore per superare, con una visione di piccolo cabotaggio, una congiuntura non facile è invitato a riflettere sulle conseguenze pesanti che avrebbe sul medio-lungo periodo. Chi ritenesse che sia un ragionevole compromesso per superare l’attuale Porcellum – in buona fede, per ridare ai cittadini la facoltà di scegliere (anche se non è detto come!) i parlamentari; o in cattiva fede, per dare un contentino al popolo bue eliminando una fettina di posti in Parlamento ma anche il rischio, per la classe dirigente del PD, di sottoporsi a primarie per le candidature annunciate ormai con troppa solennità da Bersani (magari nella non infondata speranza di sterilizzare anche le future primarie per sindaci e presidenti di Regione): ecco, costoro e tutti tengano ben presente che, per la forza inevitabile delle cose, le conseguenze andranno ben oltre questi effetti.

 Per questo ritengo che tutti coloro che nel partito avversano questa legge elettorale, e al tempo stesso il disegno che essa favorisce, debbano mettere da parte le differenze, in particolare quelle di posizionamento e quelle che coinvolgono l’insieme delle riforme istituzionali, e porsi risolutamente di traverso. Insieme. Subito.
So bene che non è semplice mettere d’accordo chi sostiene un ambizioso superamento del bicameralismo perfetto e chi talora interpreta in modo eccessivamente difensivo la necessità di farsi garante della lettera e dello spirito della Costituzione. E chi ha idee diverse sulle prospettive del PD verso il centro e verso sinistra. Ma qui è lo stesso campo comune entro cui esplicitare queste divergenze a essere messo in discussione, e forse spazzato via. Non c’è tempo per accademismi. Chi sostiene la bozza Violante sta mettendo da parte le divergenze strategiche per segnare un punto, apparentemente “tattico”, di grande portata. Sarà meglio che chi la pensa diversamente faccia lo stesso.
Tanto per non far nomi, lo dico a personaggi del calibro di Salvatore Vassallo, alla Bindi e ai Democratici Davvero, a ciò che con Parisi resta dei prodiani, a Civati e al gruppo di Prossima Italia e a settori importanti della vecchia mozione Marino. Tutte persone che non hanno mai temuto di essere in minoranza, e di parlare con forza da posizioni scomode. Bene, anche a me non importa apparire ingenuo o fare la figura del naïf, se dico che ora non è tempo di testimonianza, né di posizionamenti. È tempo di agire insieme.


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