Il discorso di Conte al Senato: pillole in 16 tweet

5 giugno 2018

1. Per me la parte più preoccupante del discorso di Conte è l’inizio: la celebrazione tra l’eversivo e il fuffarolo del rovesciamento dell'”ordinario percorso istituzionale”. Prima ancora del superamento della distinzione destra/sinistra e della rivendicazione del populismo.

2. Siamo nel cuore dell’ideologia grillista, meno ingenua ma più compiuta di come la conoscevamo finora dai proclami della Raggi. Del resto Conte questo è: un grillino – sia pur tecnico – fatto e finito. Aspettiamoci dosi da cavallo di questa roba.

3. Conte parla di “diritti sociali … progressivamente smantellati” negli ultimi anni: una narrazione che punta a sfondare a sinistra. Le parole d’ordine sono il salario minimo orario e il reddito di cittadinanza; i nemici, l’austerity e la corruzione.

4. Nel discorso di Conte i cenni al lavoro e all’ambiente sono condivisibili (e piuttosto “grillini-prima maniera”) anche se generici; apprezzabile che siano fittamente intrecciati con la questione tecnologica.

5. L’indicazione (assai asciutta) degli USA come “alleato privilegiato” e soprattutto la visione positiva dell’UE temperano nel discorso di Conte l’apertura alla Russia, che tuttavia è impressionante sentir enunciare così esplicitamente.

6. Su vitalizi, giustizia, lotta alla corruzione e alle mafie Conte si muove come sul burro. Degno di lode il riferimento alla funzione riabilitativa della pena. Interessante il riferimento circostanziato al conflitto d’interesse: sarà da seguire l’attuazione.

7. Come è stato notato, Conte parla di “pensioni di cittadinanza” (?) ma non fa cenno alla Fornero. Il reddito di cittadinanza vero e proprio viene già spostato a una fase 2.

8. Occorre riconoscere che nel discorso di Conte la questione dell’immigrazione è trattata in modo appropriato ed equilibrato. Vedremo come ciò si relazionerà con le mosse di Salvini: pessime negli ultimi giorni.

8bis. Lodevole il richiamo all’uccisione di Soumayla che chiude autorevolmente un giorno e mezzo d’ingiustificato silenzio.

9. Nel capitolo sul fisco Conte mostra le corde: la proporzionalità della flat tax, ovverosia la quadratura del cerchio. L’annuncio del carcere per i grandi evasori è come lo zucchero a velo. Lodevole che si eviti la retorica del povero italiano tartassato da Equitalia.

10. Sulla sanità Conte dice cose ovvie. Sulla ricerca pure: cosa deludente da parte di un professore universitario. Interessante il paragrafo su internet e sul digitale. Non scontato il lungo soffermarsi sul terzo settore.

11. Interessanti i riferimenti di Conte alla responsabilità sociale delle imprese e alla legge fallimentare. Irenico il riferimento alle parti sociali. Tutte da verificare le promesse sulla deburocratizzazione.

12. Il compitino di Conte sugli italiani all’estero e sulle regioni a statuto speciale è una classica marchetta da Prima Repubblica per prendersi qualche voto in più.

13. L’ampia trattazione dei rapporti col Parlamento invece individua una sede in cui Conte potrebbe recuperare centralità e protagonismo anche mediatico rispetto ai “soci di maggioranza”. Vedremo.

14. Ai terremotati Conte dedica il “pensiero finale” e l’annuncio di una visita, ma nessuna promessa.

15. Grandi assenti nel discorso di Conte: le donne (un solo breve riferimento); le famiglie (tradizionali e non); il patrimonio culturale; il turismo; l’agricoltura; molto poco sulla sicurezza, nulla sulla difesa. Praticamente nulla sulla scuola. Altro?

16. In gran sintesi, il discorso di Conte è quintessenza di grillismo avveduto ma ideologicamente forte, un po’ “prima maniera”, che occhieggia a sinistra e punta (anche con qualche imbarazzo ed excusatio non petita) a occultare e ammorbidire la componente leghista del contratto.

Nota bene: inizialmente ho diffuso questo post col titolo erroneo “Il discorso di Conte alla Camera…”. Scusate l’errore.

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Salvare il PD: no al governo col M5S (ma non basta)

3 Maggio 2018

Per me impedire l’accordo M5S-PD significa salvare il PD. Non so se giovedì, da Fazio, Renzi ha fatto questo, o se ha colto l’occasione improvvidamente fornitagli da un manipolo di suoi avversari interni o ex alleati per intestarsi una battaglia che, come mostrano non solo i consensi raccolti dal documento che gira da ieri in vista della Direzione, ma soprattutto le voci di elettori e militanti, è molto più trasversale.

Non so se l’accordo fosse veramente più avanti di quanto sia trasparito a livello ufficiale (nel caso, aver detto esplicitamente, con tanto di nomi, che alcuni attuali ministri del PD erano stati “apprezzati” è stato per Di Maio ingenuamente controproducente oltre che gravemente contraddittorio). Però appare verosimile che l’accordo fosse, per alcuni dei suoi sostenitori, il modo e il punto da cui partire per mettere Renzi definitivamente “di lato”, rendendolo inoffensivo. Operazione complicata, anche qualora i favorevoli in Direzione fossero più del previsto, dal momento che alla fine il coltello dalla parte del manico ce l’hanno i gruppi parlamentari, questi in gran parte di salda fede renziana (e quei voti in Parlamento servono tutti, o quasi tutti, anche contando l’appoggio di LeU e di qualche altro parlamentare qua e là). A me sembra verosimile che Martina abbia cercato, di per sé lodevolmente, di trovare una quadra maggiormente inclusiva rispetto alla semplice maggioranza renziana, ma abbia poi subìto l’accelerazione altrui: fino alla concreta possibilità che la Direzione si trovasse formalmente a votare l’avvio di un dialogo, ma sostanzialmente a dare il via alla confezione di un “pacchetto” già pretederminato. Da qui la reazione di chi si diceva contrario a qualunque dialogo: una posizione scomoda e apparentemente anche poco logica, ma nei fatti sanamente prudente. Del resto per Martina – che, fino a un voto dell’Assemblea nazionale, è semplicemente il vicesegretario di Renzi (nominato da quest’ultimo ma sulla base di un “ticket” ben chiaro durante il percorso congressuale) ora facente funzione a seguito delle dimissioni di quest’ultimo – sarebbe non solo temerario, ma anche scorretto distanziarsi dalla constituency originaria. L’assestarsi su precondizioni decisamente poco esigenti, in particolare non negare la possibilità di un governo a guida Di Maio – quindi la piena vittoria politica non solo dei Cinque Stelle ma anche del loro “capo politico”, a cui non sarebbe stato chiesto nessun sacrificio – era l’elemento che maggiormente faceva temere questo scivolamento. E che non per nulla è stato proprio il punto su cui Renzi – come ha notato Cerasa – ha chirurgicamente mollato il suo ceffone: l’accordo col M5S è morto nel momento in cui l’ex segretario ha sillabato che i voti dei senatori PD – a quanto gli constava – Di Maio se li poteva scordare. E i notabili del PD non hanno potuto opporgli nulla nei fatti: perché gli constava giusto.

 

Ma perché penso che l’accordo col M5S significhi l’annientamento del PD? Per ragioni tattiche e per ragioni strutturali.
Le ragioni tattiche dicono che in queste condizioni essere “quelli che possono far cadere il governo” è un’arma assolutamente spuntata. Che il PD da un lato finirebbe ad avere una funzione di freno alle iniziative del M5S, dall’altro a essere costretto all’inseguimento del M5S stesso: una tenaglia mortale, sotto il fuoco di fila delle armi propagandistiche non solo del M5S stesso ma anche del centrodestra.
Le ragioni strutturali – anche al di là delle considerazioni sui rapporti tra M5S e democrazia (non solo la gestione della democrazia interna, ma soprattutto la loro idea e il loro modo di trattare la democrazia rappresentativa nonché il pubblico dibattito) e della falsa vulgata per cui i Cinque Stelle sarebbero sostanzialmente “di sinistra”, su cui ci sarebbe da scrivere libri e libri – dicono che l’accordo significherebbe la fine della vocazione maggioritaria del PD, l’accodarsi a partito gregario: confidando in una base elettorale che il 5 marzo ha già mostrato, certo, minoritaria, ma che, lungi dal considerarsi una nicchia residuale, resta e si sente radicalmente alternativa al M5S non meno che al centrodestra. L’idea di un accordo col M5S significa da un lato un’eccessiva fiducia nella capacità istituzionale e amministrativa del PD, come se i grillini fossero tutto sommato innocui mattacchioni facili da tenere sotto controllo con un po’ di tecnica e un po’ di tattica, qualche virtuosismo e schermaglie parlamentari, oltre a una nutrita pattuglia di ministri e sottosegretari. Dall’altro significa una drammatica sfiducia nella capacità del PD di fare politica – in Parlamento e nel Paese –, di individuarsi e mostrarsi come polo minoritario, ma alternativo e dinamico, capace di fare proposte incalzanti e di inventare campagne d’opinione che sappiano provocare le altre forze e dettare l’agenda politica italiana. Chi ha orrore di un PD arroccato al proprio calante potere e incapace di ritrovare la connessione sentimentale con il suo popolo (almeno con quello rimasto) dovrebbe essere molto spaventato dalla prospettiva di un accordo.

Detto questo, non posso fermarmi sullo chapeau a Renzi e alla sua mossa magistrale. Non tanto perché non sia convinto del suo “rilancio” di un governo di tutti e di una legislatura costituente, dal momento che penso che questa proposta sia semplicemente un’abile mossa dialettica per togliersi dall’angolo della domanda sul “che fare”, ma non abbia una reale praticabilità, e che Renzi lo sappia benissimo.
Ma perché, come avevo scritto nei giorni successivi alle elezioni, ritengo che il Partito Democratico abbia l’assoluta urgenza di avviare un percorso ampio (anche congressuale, ma non immediatamente congressuale, e con tempi distesi) non solo di confronto coi militanti e i simpatizzanti ma soprattutto di ascolto dei cittadini – fuori dagli organismi di partito e dalle aule delle istituzioni – e delle loro paure, angosce, speranze; un percorso di riscoperta e di rinnovamento delle sue ragioni fondanti, di elaborazione di proposte politiche forti e adatte a questi tempi. Dire che gli elettori non ci hanno capito non basta. Ammettere di avere fatto errori non equivale a squadernarli, questi errori, e a decidere in che direzione drizzare la barra per porvi rimedio. Pensare che basti il ritorno di Renzi o che basti disfarsi di Renzi per evitare questo difficile percorso – che non potrà avere esiti scontati se vorrà essere autentico – rappresentano due errori uguali e contrari alla ricerca di un’ultima, maledetta scorciatoia: converrà tenercene ugualmente distanti. “Io vi scongiuro, o miei fedeli: restate fedeli alla terra!”.


Come ti calo gli autobus

23 marzo 2011

La data, il 1° aprile, è quella giusta: perfetta per giocare un brutto scherzo.

Dopo aver aumentato di un terzo il costo del biglietto, l’ATC informa che dal prossimo 1° aprile la linea 671 Bologna-Bazzano-Vignola, insieme a poche altre, subirà riduzioni. Ops, pardon: la parola magica è “razionalizzazioni”.

Il «cattivo», naturalmente, è il governo: precisamente, la «riduzione dei trasferimenti pubblici prevista dalla manovra finanziaria estiva». Ma anche la Regione Emilia-Romagna non è sufficientemente “buona”: la “stretta” della manovra, infatti, è stata «compensata solo in parte dall’intervento di risorse regionali», nonché «dal recente adeguamento tariffario». Insomma, dice ATC, abbiamo aumentato i prezzi, ma non basta. Evidentemente siamo troppo buoni. Tanto buoni che abbiamo anche conservato  «l’obiettivo di contenere il più possibile i disagi all’utenza pendolare».

E quindi? Quindi «gli interventi adottati dal 1° aprile sulla linea 671 tra Bologna e Vignola sono stati limitati alla soppressione di corse negli orari centrali di morbida del mattino e, nel pomeriggio, delle corse delle 15.00 e delle 16.00 da Vignola e delle 17.00 – 18.00 – 19.00 da Bologna, mantenendo quindi da Bologna un cadenzamento delle corse ogni ora».

Abbastanza rassicurante. Peccato che “ogni ora” vada inteso, probabilmente, comprendendo anche le corse Bologna-Bazzano del 94. Per il 671, da Bologna, rimane infatti un vuoto dalle 8 alle 12.30: che significa un’assenza totale di autobus, in quella fascia oraria, sul tratto Bazzano-Vignola, sul quale la linea 94 non è presente.

Da Vignola, è anche peggio: al vuoto dalle 8 alle 12.30 si aggiunge anche quello dalle 14.15 alle 17.

Certo, rimane il treno. Che però, disservizi a parte, non si sovrappone completamente al fabbisogno: l’area della Formica, per esempio, resta completamente scoperta, come pure tutta la zona rurale tra Mulino e Bazzano. E – anche considerando l’insieme di treno e autobus sul tratto Vignola-Bazzano e viceversa – si tratta comunque un dimezzamento delle corse nella fascia centrale della mattinata –  che non potrà far piacere, per esempio, agli anziani diretti verso il mercato (di Vignola o di Bazzano) o verso i due ospedali – e parzialmente nel pomeriggio. [vedi anche **Aggiornamento in fondo]

Ma l’impoverimento delle corse è serio anche nel tratto Bologna-Bazzano e viceversa:  e, a dispetto degli annunci, vengono eliminate anche alcune corse tipicamente dedicate ai pendolari, e decisamente affollate: per esempio, quelle in partenza da Bologna alle 17 e alle 18. Per intenderci, il numero totale delle corse del 671 cala da 24 a 16 (Bologna/Bazzano) e da 20 a 14 (Bazzano/Bologna).
Tra le corse soppresse, c’è anche quella delle ore 20:20 da Bologna, «in considerazione delle partenze dei treni dalla Stazione ferroviaria di Bologna alle 20:16 e 21:16». L’ultimo autobus da Bologna, quindi, sarà il 94 delle 19.50 (quello che arriva alle 19.55 a Porta Saragozza).

E’ chiaro che l’argomento della sovrapposizione rispetto al treno è un serio argomento a favore di ATC, nel senso di dare una parvenza di plausibilità a tagli che altrimenti sarebbero completamente scriteriati.  E’ chiaro altresì che i due servizi – per varie ragioni – non sono completamente sovrapponibili, e che almeno alcune delle corse soppresse sono decisamente frequentate. (Non per nulla, nel comunicato di ATC non vi è traccia delle giustificazioni che spesso essa adduce per analoghe “razionalizzazioni”, cioè il verificato scarso utilizzo delle linee.)

Per concludere, sembra di poter riscontrare punti di criticità per una parte dell’utenza più debole; dall’altro, queste riduzioni del servizio non contribuiscono certo a incentivare l’uso del mezzo pubblico e a ridurre l’uso dell’auto.
Ci si chiede anche come mai queste modifiche vengono introdotte il 1° aprile, senz’attendere neppure la fine delle scuole e l’arrivo dell’estate. A parte che verrebbe da chiedersi cosa ci possiamo aspettare, a questo punto, per l’orario estivo, è difficile non notare come tutti questi cambiamenti (a cominciare dall’aumento delle tariffe) vengono attuati proprio in assenza di un interlocutore “politico” potenzialmente forte, cioè il Comune di Bologna, che vive gli ultimissimi mesi del suo commissariamento.

Penso infine che i comuni interessati, in particolare quello di Bazzano – ulteriormente penalizzato, specie nel suo ruolo di “cerniera” rispetto all’area vignolese – dovrebbero sollecitare – presso la Provincia oltre che direttamente presso ATC – una revisione delle riduzioni.
Al futuro sindaco di Bologna il compito di imporre ad ATC una politica più seria, che non sacrifichi agli equilibri – pur necessari – di bilancio il servizio ai cittadini.  Certo, si fa presto a dire “soluzioni creative”. Ma se, per rimediare a un ammanco, tutto ciò che i manager ATC sanno fare è aumentare le tariffe e ridurre il servizio, allora, francamente, potrebbero anche farsi pagare di meno.

Qui i nuovi orari del 671.
Qui i vecchi (in vigore fino al 31 marzo).
Qui gli orari del 94. Qui quelli della ferrovia Bologna-Vignola.

**Aggiornamento: Per il tratto Vignola-Bazzano, e viceversa, esiste anche la linea 760 dell’ATCM (qui gli orari). Credevo fosse praticamente residuale, in realtà – nelle fasce “scoperte” di cui parlavamo – aggiunge ben poco in direzione Bazzano (una corsa alle 8.10 e una alle 14.15… contemporanea a quella dell’ATC), mentre l’integrazione è più consistente in direzione Vignola, sia al mattino (una corsa alle 8.48 e una alle 10.16) sia soprattutto al pomeriggio (una corsa alle 14.21, una alle 14.51, una alle 15.22). Grazie molte ad Alessio per la segnalazione.


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