Con Maurizio Martina, e perché

27 novembre 2018

– Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che significavano qualcosa,
anche se eri troppo piccolo per capire il perché. […] Le persone di quelle storie
avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto.
Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa.
– Noi a cosa siamo aggrappati, Sam?
– C’è del buono in questo mondo, padron Frodo.
È giusto combattere per questo.

  

Un giudizio laico sugli ultimi anni: rivendicare i risultati, ammettere gli errori

Nella riflessione interna al PD trovo piuttosto speculare, e specularmente irresponsabile, l’immaturità di chi ritiene che in questi anni non abbiamo sbagliato nulla e quella di chi ritiene che abbiamo sbagliato tutto. Vedo la tentazione di proseguire, da un lato, in un’estenuazione del renzismo ortodosso; dall’altro, nell’antirenzismo militante. Mi sembrano entrambe non tanto delle strategie fuori tempo massimo, quanto due scaramanzie difensive contrapposte e immobilizzanti – e in questo drammaticamente convergenti –: sicuramente, nessuna delle due mi pare una soluzione. Tantopiù se cedono alla tentazione di trasformare ancora una volta il percorso congressuale in una delegittimazione continua, in una caricaturizzazione violenta, in una balcanizzazione che non potrà rimanere senza strascichi.

Occorre un coraggio profondamente laico, e un atteggiamento profondamente inclusivo, per ammettere gli errori fatti, rivendicando i risultati ottenuti. Dare la colpa agli altri non serve a niente. Il che non significa negare la pericolosità e la virulenza dei nostri avversari, delle loro strategie, dei loro strumenti, e in generale del clima che si è largamente impadronito del Paese: pericolosità non per il PD, ma per la qualità della nostra democrazia e del nostro dibattito civile. Una presa di coscienza – peraltro fortunatamente viva in non pochi settori della nostra società – che non ammette alcuna indulgenza, né alcun desiderio d’imitazione. Ma occorre riconoscere che non abbiamo saputo vedere la forza e la pervasività di ciò che stava arrivando, e che si autoproclamava imperiosamente alternativo alla nostra azione politica e di governo: azione che non è stata percepita, nonostante tutto, come sufficientemente credibile e sufficientemente condivisa.

Riformismo radicale e altri ossimori

È necessario ribadire un approccio riformista: ma questo dev’essere lo strumento per riscoprire finalmente, com’è indispensabile e urgente, il primato della politica, sottraendolo all’abbraccio mortale dell’illusione populista. Limitarci a deridere gli insuccessi del governo e delle amministrazioni locali dei nostri avversari, le cui promesse s’infrangono miseramente di fronte alla realtà, non è una risposta sufficiente. Occorre chiedersi a quali bisogni reali – ancorché sovente deformati – quelle promesse pretendono di rispondere: e dare ad essi risposte per nulla indulgenti, anzi franche e severe, e tuttavia allo stesso tempo solidali ed empatiche.

Occorre, certo, difendere strenuamente il campo della ragione, dei dati, delle competenze come unico spazio possibile per la discussione pubblica e per la stessa convivenza civile. Ma bisogna anche sollecitare uno sforzo collettivo di pensiero verso una nuova visione del mondo.

Essere riformisti non può mai significare la rinuncia totale a svolgere una critica al capitalismo e al liberismo: perfino quando – contingenzialmente – se ne auspichi e favorisca un migliore sviluppo e un più completo compimento. Non spetta alla sinistra innalzare il vessillo della mera libertà assoluta, né in senso economico né in senso etico: lo mostra, non bastasse altro, la gravità e l’urgenza della questione ambientale (che è forse l’unico elemento unificatore nella grande varietà delle esperienze progressiste più innovative e di successo negli ultimi anni). Anche se un’alleanza con le forze autenticamente liberali è strategica e indifferibile nell’attuale panorama politico internazionale.

 

Tornare a essere luogo

Per noi non si tratta soltanto di ritornare a una visione ad alto raggio, a una narrazione forte, di lungo periodo, che appare l’unico mezzo per non ricadere nell’occasionalismo, nel maquillage, nella gestione dell’emergenza e del quotidiano (basti pensare all’amministrazione locale), e affinché la comunicazione politica sia al servizio della politica, e non viceversa.

Si tratta soprattutto di tornare a essere un luogo credibile a cui chiamare le migliori forze del Paese – individui e corpi intermedi, con rispetto per i luoghi tradizionali ma con un occhio particolare alle nuove aggregazioni – per sollecitarle a formulare le loro istanze, per arrivare a proposte che sappiano a un tempo essere radicali e parlare a una pluralità di soggetti sociali. Ritrovare un modello di partito non pesante ma pensante (questa sì un’espressione felice di Matteo Renzi, cui purtroppo non è seguita, mi pare – per responsabilità non solo sua –, alcuna azione concreta); un centro di gravità, non luogo di compromesso ma connettore di storie e costruttore di esperienze: solido e consapevole, ma in virtù di ciò poroso e disponibile all’osmosi.

L’alternativa è un partito asfittico, tra una mediocrazia di superstiti funzionari di partito, parlamentari e amministratori e un esile corpo di militanti cui troppo spesso non viene offerta una struttura collettiva in cui crescere e formarsi nella discussione informata, nel confronto ordinato, nel rispetto. Insomma, una comunità. Di cui abbiamo dannatamente bisogno.

In questo contesto, una visione di centrosinistra ampia e aggregante, da cui spero mi si possa concedere di non aver mai deflettuto, non serve certo a non avere «nessun nemico a sinistra» – anzi, non di rado occorre dire dei «no» molto secchi, come non bisogna temere di riceverne –, ma a perseverare in quell’attitudine inclusiva che è alla base dell’esperienza stessa del PD.

 

Una scelta

Come qualcuno sa, avevo iniziato a stilare queste righe quando ancora non erano chiari i contorni della sfida congressuale. Certo, sentivo forte l’esigenza di una candidatura che rompesse lo schema, per me pernicioso, che ho delineato all’inizio. Che non fosse, al tempo stesso, velleitaria, di nicchia o di settore, perché questo tipo di candidature non perturba, ma anzi rafforza lo schema principale. Una candidatura che, senza invocare l’ennesima «nuova era», portasse semplici ragioni di unità: non confezionando col bilancino un’impossibile ricetta, ma aprendo con umiltà a un futuro non prigioniero di una qualche frazione del passato, a un orizzonte da traguardare insieme.

Per questo, piuttosto imprevedibilmente – anche se con più forza dopo l’importante manifestazione del 30 settembre –, mi sono scoperto  sperare che Maurizio Martina decidesse di candidarsi. Apprendere che Graziano Delrio – di cui nei mesi precedenti avevo auspicato la candidatura – stava sostenendo quella scelta è stata per me una conferma importante; così come considero una buona notizia, giusto stamattina, che Matteo Richetti abbia deciso di convergere entro un progetto più ampio.

Nel mio piccolissimo, portando con allegria il bagaglio delle mie scelte, dei miei errori e dei miei fallimenti, mi metto con estrema semplicità al servizio di questo progetto. Con la sola ambizione di dare una mano.

Le ragioni di questa mia scelta implicano il rispetto assoluto verso tutti gli altri candidati e i loro sostenitori; prima ancora, il rispetto del partito, dei suoi luoghi, dei suoi metodi. E anche dei suoi limiti e delle sue difficoltà. Implicano anche la volontà di portare avanti più che mai un confronto di idee e di proposte, senza temere ma anzi favorendo contaminazioni e trasversalità.
Non ha senso sostenere Martina se non si vuole far crescere tutto il partito. Tutto. Senza perdite, senza fratture, senza abbandoni silenziosi che sono, ciascuno, una nostra muta sconfitta. È l’unica logica che ritengo ammissibile, tantopiù in questo momento. Ecco, lo sarebbe perfino se vivessimo in tempi normali. Non so se mi spiego.

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Due spiccioli sulle elezioni regionali in Molise

23 aprile 2018

Il Molise non è l’Ohio e l’idea che i risultati delle regionali dettino l’agenda a Mattarella è risibile come sarebbe affidare a De Toma – il candidato del centrodestra che si è ormai aggiudicato la presidenza della Regione – la formazione del nuovo governo a Roma.

Ciò detto, qualche riflessione su queste elezioni si può pure fare.

1) L’onda Cinque Stelle non è inarrestabile, nemmeno al Centro-Sud.

2) I Cinque Stelle hanno comunque ottenuto un risultato enorme rispetto alle precedenti regionali (37% contro 12%).

3) I Cinque Stelle si confermano più deboli sul piano locale, essendo ancora carenti nel radicamento territoriale. Da questo punto di vista, aver moltiplicato le liste mettendo in campo una grandissima quantità di candidati locali è stata sicuramente una mossa vincente per il centrodestra. (Mentre rinunciare a qualunque genere di coalizione e presentarsi con la sola lista M5S rischia di diventare un handicap per il Movimento proprio mentre ci sono le condizioni per un suo avanzamento nei territori.)

4) Il centrosinistra cala rispetto al risultato già pessimo delle politiche. E’ un tracollo che la coalizione “larga” non riesce assolutamente a frenare. Il risultato molto brutto del PD non si spiega unicamente con il “sacrificio” rispetto alle civiche, peraltro poco utile, né con motivazioni legate al malcontento per l’amministrazione uscente – che certo non ha giovato. L’impressione è quella di una grave marginalità e labilità. Anche LeU è in calo.

5) La molteplicità delle sigle vizia qualunque confronto interno tra le liste “nazionali” del centrodestra. Converrà limitarsi che la Lega, nonostante lo scarso radicamento locale, non cala rispetto alle politiche, e che il bacino dell’area che fa capo a Forza Italia è alquanto ampio; accanto ad esso, riprende vigore un’area “moderata” era in gran parte confluita in FI. Non male anche FdI.

6) Azzardando ipotesi sui flussi di voto: sicuramente il M5S viene penalizzato dall’astensione più alta (seppur relativamente fisiologica: al dato complessivo va tolto quello degli oltre 70.000 molisani residenti all’estero, che non erano computati alle politiche); difficile che abbia influito un calo di consenso per il comportamento del Movimento a Roma dopo le politiche; molto più probabile che un certo numero di elettori M5S delle politiche abbia deciso, alle regionali, di premiare candidati (soprattutto di centrodestra) a lui più “vicini”. Da questo punto di vista la nuova legge elettorale regionale, che impediva il voto disgiunto, ha probabilmente avuto un influsso non trascurabile.
Il centrosinistra probabilmente cede al centrodestra voti legati ai candidati “transfughi” (alcuni consiglieri uscenti di centrosinistra si sono ricandidati, e saranno eletti, col centrodestra); ma più in generale, forse, sconta un “effetto ballottaggio” con la concentrazione di voti (d’opinione) sui due candidati che venivano avvertito come più competitivi.

 

Vedremo come questi dati si combineranno con quelli delle regionali del Friuli-Venezia Giulia domenica prossima (in quell’occasione si voterà anche per le comunali a Udine e in altri 18 comuni della Regione) prima delle elezioni comunali del 10 giugno, che interesseranno 762 comuni, tra cui Ancona e altri 20 capoluoghi di provincia. In Emilia-Romagna si voterà in 18 comuni; nel Bolognese, oltre all’importante test di Imola, ci saranno le elezioni anche a Camugnano; nel Modenese a Guiglia, Serramazzoni, Camposanto e Polinago.


Qualche appunto per il futuro del PD

12 marzo 2018

Le voci ricorrenti per cui la Direzione del PD – appena iniziata – e la sua prossima Assemblea nazionale non sarebbero intenzionate a lanciare immediatamente il percorso congressuale mi confortano.
Sarebbe un errore gravissimo, come ho già segnalato nei post precedenti, risolvere in un’affrettata conta attorno a qualche nome e a qualche slogan – e a pochissime idee – i problemi che la tremenda sconfitta alle elezioni politiche ha messo bruscamente davanti al PD. Per fortuna sembra che questo errore verrà evitato.
Personalmente propendo perché l’Assemblea dia vita a una segreteria unitaria di reggenza, attorno a una figura che venga percepita come una garanzia per tutti, in modo da rappresentare tutte le sensibilità. Non mi metto a ragionare su questo o su quel nome, quelli che si leggono sui giornali possono probabilmente andare bene.
Questa segreteria NON potrà in alcun modo limitarsi a svolgere l’ordinaria amministrazione, in vista dello svolgimento del congresso – nel 2019, si dice, e spero vivamente che non sia prima.
Non solo perché avrà prima di tutto l’importante responsabilità di guidare la delegazione del partito nelle prossime consultazioni al Quirinale e nei passaggi successivi, che potranno essere molto delicati. (Come ho già scritto, sono tra quelli che auspicano che un governo politico espresso dai vincitori delle elezioni possa effettivamente insediarsi, nel rispetto della volontà degli elettori, e che il PD rimanga coerentemente all’opposizione.)
Ma soprattutto perché la vera preparazione del congresso dovrebbe consistere in un’azione robusta di ascolto, in grado di rendere il nostro partito più capace di intercettare le idee, gli umori e i sentimenti delle persone, di riconnetterci con quella realtà con cui probabilmente abbiamo spesso perso il contatto: sia al centro che nelle variegate periferie del nostro Paese, comprese quelle zone che abbiamo scoperto con sgomento non essere più “nostre”, o non più di tanto.
Non mi illudo: è molto difficile. In vista di un congresso ognuno cerca di organizzare le sue truppe fidate, di fare i propri conti su numeri il più possibile “sicuri”; aprire le porte, in qualunque forma, viene percepito come destabilizzante o addirittura inquinante. Però, posporre almeno di un anno i tempi del congresso apre la speranza di uno spazio disteso in cui dedicarci a un’opera terribilmente necessaria. A meno che uno non pensi – e temo che non in pochi, in realtà, lo stiano pensando – di rifugiarsi ancora una volta nella ridotta geografica dei propri fortini, in quella mentale delle proprie certezze. Ma di fortini, ormai, non ne sono praticamente rimasti: e quei pochissimi sono minacciati da ogni parte. Quanto a certezze, ecco, non so voi come siate messi.

In questi giorni, giustamente, molti circoli stanno chiamando i propri militanti e i propri iscritti per riflettere sul significato del voto del 4 marzo e su come ripartire per il futuro. E’ un bene. Ma non basta: il pericolo di ritrovarci sempre tra di noi, e di conseguenza di raccontarci sempre le stesse cose, spesso con le stesse parti in commedia, è troppo grande.  Occorre guardare fuori, in quel vasto mondo che scopriamo sempre più estraneo, ma che è quello in cui e per cui vogliamo agire. Occorre confrontarci, come scrivevo martedì, con le persone nelle loro aggregazioni e associazioni (non quelle “solite”, quelle che una volta rappresentavano interi mondi, ma che oggi troppe volte sembrano comode scorciatoie fatte apposta per evitarci di allungare il muso in mezzo alla gente “vera”) e nelle solitudini di una massa parcellizzata e polverizzata – e tuttavia viva. Aprire le porte, le finestre, se necessario i lucernari e i comignoli.
Un’operazione come questa presuppone organizzazione se non vogliamo che tanti sforzi generosi si esauriscano in una fiammata di volontarismo, e che siano limitati alle zone dove già ora il partito è più vivo e più saldamente innestato nei gangli della società che si rinnova. Intercettare le persone significa essere consapevoli di come e dove oggi le persone vivono, agiscono, si relazionano tra di loro; con un occhio alle nuove tecnologie, ma ancor più agli stili di vita delle persone, delle famiglie, delle aggregazioni più o meno durature. L’organizzazione è necessaria per valorizzare ogni ritorno (nel senso del “feedback”, ma anche delle persone che decidono di dare al PD un’altra possibilità), per offrire riscontri, per costruire comunità. E per creare comunità, naturalmente, serve comunicazione: bidirezionale, non polemica, orientata alla persona, unitiva, “calda” ma sfidante, che chiama a mettersi in gioco, a muovere un passo, a uscire dalle tastiere, a creare una dimensione condivisa.
Trovo questi passi – per quanto ovvi – fondamentali e preliminari a qualunque indicazione di merito possa comporre il percorso del prossimo congresso e, soprattutto, il futuro del PD. Senza questi accorgimenti e questi sforzi, qualunque approdo sarà autoreferenziale e perdente, in un cerchio sempre più ristretto e asfittico. Sapremo fare questo investimento a fondo perduto? Molto prima di interrogativi più che rispettabili, ma troppo stilizzati e affettati (più a sinistra, più a destra, eccetera), questa è la prima domanda a cui chi ha a cuore questo partito deve rispondere. In fretta.


Trasumanar e organizzar

9 marzo 2018

Pare già partita la giostra dei nomi per le prossime primarie del PD dopo le dimissioni di Renzi. Quelle dimissioni – premetto – erano inevitabili, e a questo punto è ovvio e necessario che il processo congressuale si debba aprire, mentre spetta al vicesegretario Martina garantire la gestione del partito in un momento politicamente e istituzionalmente molto delicato. Detto ciò, la “conta” mi interessa molto poco.
In questa fase mi interessano soprattutto i contenuti, ma molto più quelli sul metodo che quelli nel merito. Per intenderci, sosterrò chi mi promette, in maniera credibile e dettagliata, apertura e ascolto delle persone (NON limitato a quelle “del partito” e alla nostra rete “di comodo”); organizzazione decente, in modo da far fruttificare ogni disponibilità e ogni manifestazione d’interesse, creando finalmente il piano inclinato che porta dal simpatizzare alla militanza, in modi e tempi che siano consapevoli delle attuali modalità di vita e di relazione delle persone; funzionamento reale e democratico degli organismi eletti a tutti i livelli. I contenuti – possibilmente non in formulette del tipo “più a sinistra”, “più a destra”, “più di fianco” – sono fondamentali, figurarsi: ma, tantopiù in questa fase, hanno senso come esito di un processo di base che non può compiersi nei tempi – che pure spero più dilatati – della fase congressuale (parlo volentieri, non a caso, di congresso prima che di primarie). Il congresso non deve concludere questa fase: deve farla partire. Non è il tempo della fretta, non è il tempo delle scorciatoie, è il tempo della riflessione che diventa costruzione paziente e, possibilmente, condivisa. Ma questa riflessione deve cominciare, e subito.


Per una ragionevole speranza

1 marzo 2018

Vorrei spiegarvi perché anche a queste elezioni voterò PD e perché vi invito a farlo anche voi.

Non credo che questo sia un partito perfetto: perché non esiste un partito perfetto, né possiamo pretendere un partito che ci rappresenti perfettamente, né un partito fatto solo di santi e di eroi. Il PD è un partito vero, o ci prova: non è “proprietà privata” di nessuno, è una comunità fatta di uomini. E nelle cose fatte di uomini ci sono difetti, errori, colpe…: avete presente, no? Stessa cosa per un governo!

Ma questo governo – i tre governi del PD: Letta, Renzi, Gentiloni – ha fatto un sacco di cose buone.

Alcune misure sono state molto criticate, per esempio il “Jobs Act” e la riforma della “Buona Scuola”. Condivido alcune critiche: per esempio, avrei voluto maggiori disincentivi al licenziamento e maggiori ammortizzatori sociali per le persone licenziate. Tuttavia, è innegabile che questa legge ha avuto una parte nell’agganciare la ripresa economica e nel far ripartire le assunzioni. Inoltre, si sono impedite le dimissioni in bianco, migliorate le norme per la maternità e la paternità, ed è stata fatta la legge contro il caporalato. Personaggi del calibro di Nadia Terranova e Carlo Calenda hanno affrontato con determinazione una quantità di gravi crisi industriali, portando in molti casi a risultati positivi.
Non possiamo neanche dimenticare che i famosi “80 euro” rappresentano il maggiore abbassamento del costo del lavoro a favore delle classi medie e medio-basse: quelle che maggiormente vanno protette dal rischio di povertà. Ed è stata abolita l’IMU sulla prima casa è stata abolita, escluse le abitazioni di lusso.
L’introduzione del reddito di inclusione, invece, è fatta per spingere le persone più disagiate a ripartire, non per lasciarle nella precarietà. Il “bonus bebè” è una misura concreta di sostegno alle famiglie. La legge sul “dopo di noi” ha dato per la prima volta una concreta garanzia alle famiglie con persone disabili. Ricordiamo anche la nuova legge sulla continuità affettiva riguardo alle famiglie affidatarie.

Sul fronte della scuola, confermando il sistema pubblico-privato, questo governo ha destinato alla scuola pubblica risorse mai viste prima, sia per le strutture sia per promuovere la formazione (anche con il bonus docente), l’innovazione e l’autonomia scolastica, e ha permesso l’assunzione in ruolo di centomila insegnanti.
Anche nella sanità, dopo i duri tagli degli anni precedenti, gli investimenti sono tornati ad aumentare, permettendo da ultimo un alleggerimento dei vincoli alle assunzioni e la stabilizzazione dei precari; si sono creati i nuovi Livelli essenziali di assistenza, per garantire a tutti parità d’accesso ai servizi; si è stabilito l’obbligatorietà dei vaccini.
Nel campo della sicurezza sono state finalmente destinate più risorse alle forze di polizia e sono stati dati ai sindaci maggiori strumenti per combattere la criminalità e il degrado. Parlando di legalità, è nata l’Autorità anti-corruzione ed è stato approvato il Codice anti-mafia il processo civile telematico e la storica legge sulla responsabilità civile dei magistrati Ma ricordiamo anche che il recupero dell’evasione fiscale non è mai stato così alto (da 12 a 20 miliardi l’anno)!

Renzi è stato criticato per aver salvato e accolto decine di migliaia di migranti, Minniti è stato criticato quando ha cercato di gestire il fenomeno anche con provvedimenti controversi: la realtà è che si è mantenuta coerentemente, in una situazione molto complessa, una posizione che coniugasse l’umanità e il realismo.

Il governo del PD ha approvato la legge sulle unioni civili: qualcuno non sarà d’accordo, ma a ripensarci non vi sembra strano, ora, che due anni fa una coppia dello stesso sesso non avesse alcun tipo di riconoscimento? Ed è stata approvata la legge sul testamento biologico, una legge profondamente equilibrata e basata sui migliori principi del nostro umanesimo.
È stato abolito il finanziamento ai partiti, sostituito da una forma di contribuzione volontaria (una mossa molto coraggiosa: perfino avventata per alcuni).

In campo ambientale dobbiamo ricordare almeno la legge sugli ecoreati, quella contro lo spreco alimentare, quella per la ciclabilità. Ritengo tuttavia che in questo campo, in cui ci sono stati anche provvedimenti controversi (per esempio alcuni di quelli compresi nel cosiddetto “Sblocca Italia”), sia necessario fare di più: e molte proposte sono effettivamente contenute nel programma per i prossimi anni.
Ma non possiamo dimenticare il varo di altre importanti e attese riforme: quella del Terzo settore, quella della Pubblica amministrazione, quelle relative al campo culturale (in cui si è vissuta una stagione di grande rafforzamento delle istituzioni culturali italiane, a cominciare dai musei); senza contare le tante misure per la semplificazione burocratica e fiscale.

Tutto questo – e molte altre cose – è stato fatto nel rispetto delle regole previste dall’Europa. Occorre continuare a lottare per un’Europa diversa, ma bisogna farlo con i conti a posto, mantenendo la nostra credibilità e la nostra affidabilità: non per nulla, il numero delle infrazioni della normativa europea registrate nei confronti dell’Italia in questi anni si è dimezzato.

È sufficiente? No. Bisogna andare avanti. In particolare per andare incontro alla precarietà, alle nuove emarginazioni, alle insicurezze di chi si sente smarrito di fronte all’economia globale.

Ma i risultati ottenuti sono importanti e vanno messi al sicuro. Non possiamo dare la guida dell’Italia a pericolosi dilettanti che si sono dimostrati privi di qualunque capacità anche nel governo locale, come il Movimento Cinque Stelle, e che mascherano dietro un’illusoria pretesa di onestà a tutti i costi una pericolosa ignoranza dei principi basilari della democrazia. Non possiamo ridare il Paese a chi pochi anni fa lo ha fatto precipitare irresponsabilmente nella crisi, come il centrodestra. Non possiamo fidarci di chi semina l’odio e la paura nascondendo una paurosa povertà di contenuti, come la Lega e i partiti di estrema destra, che strizzano allegramente l’occhio ai neofascismi.

Al di là delle contrapposte utopie, che spesso si sono rivelate perniciose, il Partito Democratico e le altre forze che compongono la coalizione di centrosinistra mi sembrano le uniche forze che possono guidarci in un percorso di RAGIONEVOLE SPERANZA.

Vi invito a votare PARTITO DEMOCRATICO e a suggerire quest’opportunità ai vostri familiari, amici, conoscenti (basta una chiacchierata, telefonata, un messaggio whatsapp: se volete potete usare anche questo piccolo “appello al voto”). Vorrei anche invitarvi a partecipare alle iniziative del PD, a iscrivervi, a diventare militanti: per provare a cambiare le cose che non vanno, per sostenere quelle che funzionano. Ma, ecco: una cosa alla volta. Partiamo da questo voto. Sembra niente. È tantissimo.

(Il programma del PD nel dettaglio lo trovate QUI.) 


Alle soglie del congresso PD

14 marzo 2017

Rispetto a tre-quattro anni fa Matteo Renzi ha certo perso consenso nel Paese. Cosa peraltro piuttosto prevedibile: prima era solo un addensarsi di aspettative che ognuno (a parte i fiorentini) poteva disegnarsi a suo modo, ora ha governato l’Italia per tre anni in cui molte decisioni sono state prese, molte leggi approvate, molti nodi tagliati in un modo o nell’altro. Il suo stile di comunicazione e di governo sicuramente ha contribuito a polarizzare opinioni e simpatie, i delusi ci sono e spesso sono tra i critici più taglienti.
Tuttavia, contemporaneamente, Renzi ha acquistato consenso nel PD. Non solo perché, banalmente, alcuni (a volte rumorosamente, più spesso silenziosamente) sono andati via dal PD per via di Renzi, mentre altri si sono avvicinati per lo stesso motivo. Ma anche perché Renzi alla fine è riuscito a convincere molti militanti e simpatizzanti che finora non gli avevano concesso la loro fiducia.
Certo, essere il segretario mette sicuramente Renzi in una posizione di vantaggio: per molti militanti, non solo tra i più anziani, “il segretario”, anche quando non si è tra i suoi sostenitori, è una persona che comunque merita rispetto e attenzione, che possono trasformarsi in apprezzamento. In questi anni ho visto molte persone del PD, che non definirei in alcun modo “renziane”, dare a Renzi un’apertura di credito. Al netto dei suoi difetti, limiti ed errori e di alcune scelte di governo meno condivise. Del resto una polarizzazione così forte, voluta sia da Renzi sia dall’oltranzismo di molti oppositori interni, non poteva che generare una scelta di campo che non ammetteva mezze misure.

Un passaggio fondamentale, da questo punto di vista, è stata la campagna per il referendum costituzionale. La sconfitta ha cementato solidarietà e desiderio di rivalsa anche tra i non renziani. Se per i principali oppositori interni una débacle così bruciante doveva significare tout court la fine di Renzi, per una parte importante del partito la brutalità dell’interruzione del triennio renziano ha generato una reazione netta e orgogliosa, non priva di qualche eccesso. Senza contare che la scissione – nata in ultima analisi da questa drammatica aporia di lettura dei fatti, e le cui reali proporzioni saranno valutabili solo tra qualche tempo – ha in ogni caso generato tra chi ha deciso di rimanere nel PD un ulteriore impulso alla coesione.
Del resto, a chi non condivide la “linea” di Renzi ma ha scelto di non abbandonare il partito (compresa una fetta importante della classe dirigente), la candidatura di Orlando, più di quella di Emiliano, ha offerto provvidenzialmente una modalità pienamente accettabile e competitiva di esprimere la propria posizione. Al netto di contrapposizioni utili ad attirare l’attenzione dei media più ancora dell’interesse dei militanti, peraltro, il progetto di Orlando sarà tanto più convincente quanto più capace di andare, anziché contro Renzi, oltre Renzi, ad allontanarsi dalla nostalgia del passato per prospettare in modo convincente quella tensione al futuro che ha reso inaccettabile per la maggior parte l’idea di tornare tra le braccia di D’Alema e Bersani.

Al Lingotto Renzi è stato molto abile nel trasmettere il messaggio di voler rimediare ai propri errori: in particolare l’eccessiva personalizzazione e la necessità di riconnettersi con temi e sensibilità propriamente “di sinistra”. Il “ticket” con Martina, l’aspetto più appariscente di entrambi i corni di questa correzione, è un elemento sufficientemente concreto (dietro Martina c’è un’ala numericamente e strategicamente importante del partito) per fugare il dubbio che si tratti di un mero restyling di comunicazione. E lascia ben sperare anche per uno dei problemi più seri: la gestione del partito, che è stata obiettivamente molto carente, e non ha bisogno tanto di proclami programmatici ma soprattutto di qualcuno che metta mano al magma in modo più deciso, autorevole e profondo di quanto sia avvenuto finora.

Questa strategia a due cerchi concentrici (quello interno alla mozione Renzi, con Martina, e quello esterno ad essa ma interno al partito, con Orlando) sembra capace non solo di frenare in modo sostanziale le fughe della sinistra interna ma anche di ridare spinta all’intero progetto: senza dimenticare che un terzo “cerchio utile”, esterno al PD ma non alla strategia complessiva, dovrebbe essere, non senza difficoltà e complicazioni, quello del “campo progressista” di Pisapia. E l’ala centrista? Nel complesso saldamente in mano a Renzi, ma sarà importante seguire eventuali fibrillazioni e posizionamenti; così come occorrerà tener sempre presente la dimensione geografica del partito: non solo per una candidatura connotata anche da questo punto di vista come quella di Emiliano; ma proprio perché nel rapporto spesso sfilacciato tra il suo centro e le periferie il PD si gioca molto del suo futuro.


Come siamo arrivati qui

29 aprile 2013

Se fossi in Parlamento, voterei la fiducia al governo Letta.
Ma sarebbe grave dimenticare come siamo arrivati a questa situazione.

Dal congresso alle primarie. Una sinistra “che facesse la sinistra”, per poi allearsi col centro, era già una direzione insita nel progetto di Bersani al congresso del 2009. I possibili contrappesi in direzione ulivista, che pure esistevano (e grazie ai quali io stesso finii per aderire a quel progetto), si sono via via rivelati inefficaci. La polarizzazione delle primarie di novembre 2012, in particolare l’idea che non fossero tanto un sano confronto interno al PD, ma una guerra per la sopravvivenza della “vera” identità del PD – evidentemente vista in una logica di continuità con le identità dei partiti precedenti, in particolare della tradizione risalente al PCI – rispetto a una pericolosa invasione (una percezione falsamente indotta, ma a cui, beninteso, alcuni atteggiamenti di Renzi e di certi suoi sostenitori hanno talora prestato il fianco), è stata particolarmente efficace nella mobilitazione interna ma ha provocato conseguenze nefaste. Da un lato, facendo sentire come stranieri in casa propria non solo i tanti del PD che sostenevano Renzi, ma soprattutto i molti sostenitori provenienti dall’esterno e in particolare chi a lui guardava pur proveniendo da altre aree politiche. Dall’altro, alimentando una pericolosa falsa sicurezza, non priva di componenti regressive, come se vincere alle primarie fosse stato il punto cruciale di una stagione che si sarebbe comunque risolta in un trionfo elettorale del centrosinistra.

La rinuncia alla vocazione maggioritaria, comunque declinata, e la prospettiva di un governo che avrebbe comunque visto l’alleanza con Monti – l’unica variabile, a questo punto, erano i rapporti di forza – ha finito per renderci insufficientemente convincenti sia al centro, sia a sinistra; soprattutto, l’incapacità di dare risposte all’elettorato bisognoso di rinnovamento e di partecipazione – con le primarie di novembre 2012 vissute come assalto o difesa del fortino assediato anziché come occasione di apertura alla società e di vero e comunque positivo confronto – ha significato aprire vaste praterie al movimento di Grillo, che alternava abilmente alle prevalenti parole d’ordine anticasta alcuni accenti destrorsi e parole d’ordine tipicamente di sinistra come quella per l’ambiente e i beni comuni.

Le “parlamentarie”. Anche le pur innovative primarie per l’elezione dei parlamentari hanno avuto un impatto limitato e talora controproducente, riuscendo a intercettare la sola platea degli elettori più affezionati. Hanno peraltro prodotto un forte rinnovamento – anagrafico più che politico – delle candidature. I candidati scelti fuori dalle primarie, poi, in parte hanno costituito scelte felici e di pregio, capaci di parlare a una platea più vasta; in parte hanno risposto a un riequilibrio correntizio anche comprensibile, ma che è stato percepito come contraddittorio con la logica delle primarie, esposto a facili critiche interne ed esterne.

La campagna elettorale. Tutto questo, probabilmente, non avrebbe compromesso la vittoria del PD e della coalizione di centrosinistra, che partiva da un vantaggio robusto. Ma giunto il tempo della campagna elettorale vera e propria, mentre Berlusconi – dopo averne dettato i tempi facendo cadere il governo Monti – rianimava il proprio sconfortato esercito con una serie di trovate mirabolanti, e Grillo varava a tutto campo lo “tsunami tour”, sembrava che le energie del PD si fossero completamente esaurite nella stagione delle primarie. O che attendessimo semplicemente che l’Italia, come per diritto divino, cadesse nelle nostre mani come il frutto maturo della crisi. La campagna elettorale – per ammissione ormai unanime – è stata assolutamente insufficiente, se non addirittura inesistente, e comunque afona. Discutibile quanto ciò sia dovuto a una grave insufficienza tecnica e organizzativa, quanto a una imperdonabile sottovalutazione politica e alla difficoltà di trovare contenuti concreti e condivisi: sta di fatto che non siamo stati in grado di produrre una comunicazione chiara ed efficace, mentre quote sempre maggiori anche del nostro elettorato risultavano ormai in bilico, assieme alle regioni-chiave per assicurarsi un numero sufficiente di seggi in Senato.
Se la ricostruzione di vari sondaggisti è corretta, è negli ultimi 10-15 giorni che gli equilibri si sono volti robustamente a nostro sfavore, producendo il risultato del 25 marzo.

Dopo le elezioni. Questo risultato è stato solo gradualmente compreso e ammesso come una grave sconfitta, con la complicazione del pessimo risultato di Monti che rendeva insufficiente l’alleanza tra centro e centrosinistra. Il tentativo di Bersani di formare un governo dialogando col Movimento 5 Stelle è servito anche a prendere tempo per assorbire il colpo e preparare il partito alle conseguenze. L’elezione dei presidenti di Camera e Senato ha fatto pensare a un certo punto – probabilmente a torto – che il dialogo con i grillini fosse possibile, ma è chiaro che un’applicazione coerente del “metodo Grasso” avrebbe comportato la rinuncia dell’aspirazione di Bersani a presidente del Consiglio: cosa che di fatto non è mai avvenuta.  Dopo il rifiuto di Napolitano – secondo me discutibile – di mandare Bersani al voto delle Camere in assenza di numeri certi, la candidatura di Marini a presidente della Repubblica materializzava oggettivamente, al di là delle intenzioni dei singoli, la prospettiva delle larghe intese.  Tale prospettiva, alla fine – nonostante il rigetto a furor di popolo di Marini, il disonorante siluramento della candidatura di Prodi e la spinta di una parte del partito per convergere su Rodotà candidato dai grillini –,  è risultata prevalente con la sofferta rielezione di Napolitano.
Evidentemente è un risultato a cui parte del gruppo dirigente puntava da tempo, come la strategia più ovvia una volta constatata l’insufficienza dell’alleanza con Monti, peraltro concorde nel sostenere la necessità di allargare al centrodestra. Se le contraddizioni delle ultime settimane sono da rimproverare a Bersani – degno, e ci mancherebbe, del massimo rispetto personale e della più grande umana solidarietà –, quella di base la condivide non solo con tutto il gruppo dirigente nazionale con le sue filiere locali, ma con tutti gli elettori delle primarie: quelli che l’hanno sostenuto e quelli che, “in solidum”, ne hanno accettato lealmente il risultato, anzi i risultati: non solo quello del 2 dicembre, ma anche quelli del 25 marzo e del 28 aprile che ne sono coerentemente derivati. Per questo non servono improbabili abiure e rapidi riposizionamenti, ma una riflessione seria sull’accaduto che apra una prospettiva per il futuro.


La fusione in Parlamento

22 febbraio 2013

La battaglia politica che si è consumata – e certo non spenta – sulla fusione dei Comuni della Valsamoggia avrà influenza sul risultato delle elezioni di domenica e lunedì in vallata? Dalle scelte degli abitanti della Valle del Samoggia per il Parlamento nazionale potremo trarre qualche indicazione per capire quali probabilità di successo avrà l’assalto alle amministrazioni locali targate PD? Un assalto, sia detto di passaggio, per il quale le opposizioni sembrano già mobilitate in una sorta di campagna elettorale permanente da qui al 2014, con la probabile intenzione di marciare separati per colpire uniti all’eventuale ballottaggio.

Le elezioni politiche sono il livello più distante dalla realtà amministrativa locale, nonché quello in cui le mode passeggere e gli eventi contingenti incidono meno sulle convinzioni e sulle abitudini sedimentate. Proprio per questo, paradossalmente, se gli eventi locali, e in particolare quelli relativi alla fusione dei Comuni, lasceranno un segno sulle elezioni del 24-25 in Valsamoggia, siamo autorizzati a pensare che tali tendenze potrebbero essere ancora più incisive alle elezioni amministrative del 2014 (ovviamente è una possibilità teorica: in quasi un anno e mezzo possono succedere molte cose).

Penso da un lato ai cittadini che, credendo nel progetto della fusione, e proprio grazie alla pesante polarizzazione politica che – qualunque cosa se ne pensi – si è sviluppata su questo tema, si sono avvicinati alle forze dell’attuale maggioranza, e in particolare al PD. C’è stato sicuramente uno spostamento di questo tipo da parte di esponenti vicini alle liste civiche: alcuni di essi sono anche noti. In parte è probabile che si tratti in buona parte di persone che comunque in passato avevano votato PD, ma che se ne erano successivamente distanziate, in particolare alle elezioni locali, ma forse anche in altre occasioni. Ma è possibile che questo effetto si sia verificato anche per una fascia più ampia di cittadini. Potrebbe quindi mostrarsi sotto forma di una prestazione più tonica del PD alle elezioni di questo fine settimana (un dato che andrà misurato sia rispetto ai risultati delle elezioni precedenti, sia rispetto a quelli dei Comuni vicini).

D’altro canto, una parte degli elettori dell’attuale maggioranza locale di centrosinistra si è schierata – molti nel segreto dell’urna, altri anche pubblicamente – contro la fusione dei Comuni. Per alcuni di essi ciò potrebbe non influire sulle scelte politiche nazionali; per altri, la virulenza della polemica sarà probabilmente tale da indurli a prendere le distanze dai partiti che hanno sostenuto la fusione anche nel voto del prossimo fine settimana. Ma (a parte l’ipotesi tutt’altro che peregrina che una parte di questi elettori scelga l’astensione), quali forze politiche ne beneficeranno? In prima fila ci sono il Movimento 5 Stelle e Sinistra e Libertà, che si dividono variamente buona parte dell’elettorato (nonché della dirigenza) delle liste civiche. Con alcune dinamiche particolari: SeL ha polemizzato nelle scorse settimane con i partiti ora raggruppati nella lista di Rivoluzione Civile – che si presentano come sinistra “dura e pura” in quanto non alleati col PD – rinfacciando loro di essersi “piegati” alla fusione dei Comuni (Federazione della Sinistra e Italia dei Valori hanno firmato il documento a favore della fusione e votato il provvedimento in Regione). Del resto SeL in Valsamoggia, anche nelle ultime settimane di campagna elettorale, sta insistendo con molta forza sulla questione della fusione, senza lasciar trapelare alcun imbarazzo per il fatto di presentarsi in coalizione col PD. Non è affatto escluso, del resto, che una parte di elettori di provenienza PD consideri il voto per SeL come adatto sia a marcare il proprio dissenso sulle questioni locali, sia a esprimere comunque un “voto utile” rimanendo nell’ambito del “classico” centrosinistra.

Naturalmente occorrerà osservare anche i voti del centrodestra, che si è compattamente schierato – PdL e Lega – contro la fusione. Sarà difficile trarre considerazioni dai risultati dell’UDC, sia perché il suo atteggiamento sulla fusione è stato, a livello locale, contraddittorio (alcuni esponenti si sono schierati a favore, altri – come pure in Regione – contro), sia perché si tratta di una formazione relativamente esigua. Un’eventuale tendenza delle liste civiche a catalizzare il voto delle opposizioni potrebbe lasciare qualche traccia anche nelle scelte politiche nazionali.

Si tratta di semplici ipotesi che potrebbero facilmente essere spazzate via se si verificherà che nei Comuni interessati dalla fusione il differenziale tra i risultati dei vari partiti sarà uguale a quello dei Comuni circostanti. Vedremo presto se queste piste di lettura avranno qualche fondamento, e se – guardando alle elezioni comunali del 2014 – le forze politiche locali saranno rafforzate dai risultati di lunedì, chi nei propri timori chi nelle proprie speranze. Che si mescolano – legittimamente, col debito senso delle proporzioni – alle speranze e ai timori di tutti gli italiani per il futuro del Paese in questo appuntamento cruciale.

 


Allargare i confini, intercettare le energie

13 giugno 2012

Questo è il testo del mio intervento alla Direzione provinciale PD di ieri, martedì 12 giugno.

Vedo un intuito profondo nella scelta di Bersani di “chiamare” le primarie. La virtù delle primarie è anzitutto – anche se non sempre ci si pensa – quella di definire un campo, delimitare un perimetro (che lo si chiami “centrosinistra”, “alleanza dei progressisti ecc.). È un modo per arrestare le derive dell’antipolitica, dell’antisistema a tutti i costi: allargare i confini – non a caso Bersani insiste su primarie “aperte” – significa dire “ci siamo, “chi ci sta ci sta, si lavora insieme per qualcosa. Significa dire: questo è il campo dove ci sta la competizione, leale ma anche forte, ma anzitutto c’è la condivisione, il coinvolgimento su un progetto che certo va definito, e sul quale si può litigare, ma su cui fin d’ora si possa dire “c’interessa”.

In questo senso è perfettamente consequenziale, per Bersani, mettere Di Pietro davanti a una scelta: senza rispetto e riconoscimento reciproci non si va avanti, o Di Pietro decide di fare la controfigura di Grillo oppure sceglie una strada di responsabilità: confido che i tanti amministratori IDV che governano con noi sappiano indurlo a fare la scelta giusta. Come pure confido che Vendola non rinunci a quel “marchio” di governabilità che resta per lui caratteristico e vincente rispetto a altre espressioni della sinistra radicale.

“C’è molto PD al di fuori del PD”, ha detto giustamente il segretario Donini nella sua relazione. Bello. Ma è un bel problema! Penso che queste primarie siano l’occasione – e temo proprio che siano l’ultima – per riprenderlo dentro. Sicuramente dentro questo sforzo condiviso. Possibilmente, anche dentro il PD: almeno per i moltissimi per cui l’alternativa non è tra il PD e altro, è tra il PD e il niente, magari voto quel che mi capita ma soprattutto non m’impegno più.
(Apro una parentesi: primarie con un solo candidato PD non sono il modo migliore per tenerne aperte le porte: tutte le persone che si riconoscono nel progetto del PD, ma preferirebbero non votare Bersani, a chi le lasciamo? A chi le vogliamo lasciare? Pensiamo anche a come si sono svolte le primarie qui a Bologna – nonostante alla fine il candidato “targato” PD fosse uno solo. La Bindi, da presidente, pone giusti problemi statutari: ma non ignori il senso politico profondo di quest’operazione!)

Indire le primarie è una reazione sana, che contrasta con lo spirito di arroccamento. Il rischio infatti è tremendo e paradossale: essere identificati con la “Casta”: vuoi perché il centrodestra per ora non c’è più – che sia per sfacelo, per tattica o ambo le cose -; vuoi soprattutto nei luoghi dove portiamo da tempo l’onere del governo; vuoi perché facciamo delle cazzate – vedi nomine Agcom ecc., su cui già altri qui si sono ben espressi.

Quando paventavo la “santa alleanza” di tutti contro il PD, un paio di mesi fa, anche a livello locale, venivo preso in giro: e io stesso dubitavo di averla sparata un po’ grossa. Poi il “tutti contro il PD” l’abbiamo visto materializzarsi e vincere a Parma e a Comacchio e sfiorare la vittoria a Budrio (ovviamente, complimenti al PD di Budrio che alla fine l’ha spuntata).
Ecco, questo tipo di schema nasce proprio – penso – quando il PD non sa aprirsi in un afflato di costruzione comune: quello che Donini, all’epoca della campagna per Bologna, chiamava “civico” (e che non ha nulla a che vedere con la “lista civica” di Repubblica). Avere la saggezza e l’umiltà di accogliere le diversità, per non vedersele coalizzate contro. È difficile, dal momento che abbiamo un progetto di governo, e non possiamo permetterci di accogliere indiscriminatamente gli impulsi allo sfascio, la bizzarria antisistema, il complottismo – fenomeni che, fra l’altro, mi preoccupano anche dal punto di vista della stessa convivenza sociale.
Difficile, insomma, quest’operazione di apertura e di contaminazione: ma assolutamente necessaria. Anche laddove si debba rinunciare a qualche tranquillità nell’azione politica e amministrativa. Anche laddove sembri di moltiplicare invano la fatica, e dio sa quanto ci sarebbe bisogno di concentrare le energie sulle priorità del governare, anche a livello locale, in questi tempi difficili. Ma si tratta proprio di un investimento per tener dentro quelle grandi energie potenziali, fatte di cittadini competenti e volenterosi, di quelli che troppo spesso abbiamo visto abbandonare le nostre file, per dinamiche su cui occorrerebbe riflettere profondamente.

Non vi nascondo, in questo senso – lo dico sommessamente ma lo dico – la mia preoccupazione per la Valsamoggia, in cui un progetto di portata epocale, una sfida coraggiosa, di grande buonsenso ma soprattutto di grande proiezione verso il futuro, come la fusione dei Comuni, rischia di soffrire troppo più del fisiologico per l’insufficienza – a mio personale parere – di questa operazione di apertura e di coinvolgimento autentico dei cittadini. Non basta la sana convinzione che si sta portando avanti un progetto valido, la buona coscienza di agire con determinazione per il bene comune, se non c’è uno sforzo che non dev’essere solo (ma dev’essere anche questo) di buona comunicazione di obiettivi e processi, ma di chiamata a progettare insieme.
In questo senso gli ultimi mesi, ritengo, non sono stati completamente soddisfacenti, forse per troppo scrupolo, forse per voler mantenere – anche comprensibilmente – le mani più libere nel momento delicatissimo dell’implementazione del nuovo Comune unico. Abbiamo dato alle forze politiche di opposizione qualche alibi per prendere la strada più facile, quella del tanto peggio tanto meglio, e ormai hanno fatto in gran parte le loro scelte, che reputo distruttive. Resta molto da lavorare con le forze sociali e la cittadinanza. Abbiamo ancora alcuni mesi. Alcuni amministratori stanno lavorando molto bene con le forze sociali (cito, non solo per patriottismo, il sindaco di Bazzano, ma naturalmente non è l’unico!). Prendiamoci tutti questo compito, facciamolo e facciamolo insieme.

È solo un esempo – anche se un esempio che m’interessa particolarmente, e a cui del resto abbiamo voluto conferire un valore di esempio a livello nazionale – di un’operazione necessaria in tutto il Paese e nel nostro territorio. Serve la convinzione di tutti. Condivido anche il pensiero che se le primarie diventano solo una competizione mediatica tra candidati leader e non parlano di contenuti e sui contenuti non coinvolgono le persone per costruire un progetto, non basteranno.
Il terremoto ha mostrato la diffusa capacità e valore dei nostri amministratori. Ci ha mostrato come il senso di solidarietà, di comunità, di un’identità sana sia ancora ben vivo tra noi. Il PD è nel cuore profondo di questa storia, il PD non deve lasciare che questa storia prosegua senza di lui. Abbiamo pochi mesi per farlo.


Il PD, qui, adesso. Voci dalla rete

23 Maggio 2012

Stavolta nessuna “parola mia”. Sulle ultime elezioni amministrative, e su quel che c’è da fare, riporto solo un po’ di impressioni – più o meno “autorevoli”, per quel che conta -, naturalmente con un occhio particolare all’Emilia-Romagna, ma non solo.

Partirei dall’ottimo riassunto di Luca Sofri, secondo cui «Tra il PD “istituzionale” e quello sovversivo, vince il secondo» (poi Sofri dice anche qualcos’altro, qui. Un monito per tutti, specie per noi in Emilia-Romagna. Dice cose simili anche Giuseppe Civati: “Il Pd dove si apre alla partecipazione ed esprime un profilo di governo, serio e competente sotto il profilo amministrativo, in queste condizioni non ha rivali. Quando sa interloquire con il civismo e con la spinta che proviene dal basso, in questo momento, è letteralmente imbattibile.
Speriamo sappia far tesoro, però, di quella che è prima di tutto un’opportunità che si apre, non una partita che si chiude”.
Civati offre poi (qui) un’ottima analisi di com’è andata la vittoria in Lombardia – in cui ha avuto qualche parte. E dice anche alcune cose piuttosto energiche, qui. Un’analisi notevole, in particolare del successo del Movimento Cinque Stelle al Nord, è anche quella del bravo Stefano Catone, qui. Mentre un commentatore ricorda che «Alle politiche del 2008, nel solo Comune di Parma, il PD ha preso 47.153 voti, contro i 28.498 (di lista) delle regionali 2010 e i 17.472 (di lista) di queste comunali».

Anche Debora Serracchiani dice chiaro e tondo che «il risultato di Parma… offusca ogni altra vittoria del Pd. … Se la credibilità di una leadership politica si rivela nel percepire e nell’accompagnare i mutamenti e i bisogni della società, per Bersani questo è il momento di dimostrare che il Pd è all’altezza delle vittorie e impara sul serio dalle sconfitte. Dopo Parma, il motto “rinnovarsi o morire” non è una critica alla segreteria ma una proposta concreta» (qui l’intero – breve – post).

Un tema che svolge con nettezza anche il nostro vicino di casa, Loris Marchesini, da Anzola: abbiamo vinto, sì, ma «con molti “se” e molti “ma”»: «abbiamo vinto perché si sta chiudendo nel modo peggiore per loro la stagione del centro-destra… abbiamo vinto dove abbiamo saputo esprimere il meglio delle candidature attraverso le primarie, abbiamo perso dove non le abbiamo sapute gestire ed abbiamo presentato candidature usurate (Parma) o rampanti (Palermo)…  abbiamo ancora una estrema lentezza, fino all’arroganza, nel procedere nel cambiamento necessario, nel virare il timone nella direzione giusta». Il resto qui.

Anche il segretario del PD di Bologna Raffaele Donini dice che «O si cambia, o si muore», anche se nella sua intervista di oggi (qui) sembra proiettare questa necessità di cambiamento più su Roma che sul nostro territorio.

Ma l’intervento più inquietante sulle possibilità di cambiamento nel PD è quello di Paolo Cosseddu: “E’ la regola dell’hully gully: se prima eravamo in dieci a ballare l’hully gully, adesso siamo in nove a ballare l’hully gully. Di cui otto dalemiani, però“.  Premunitevi contro la depressione, ma leggetelo assolutamente fino in fondo: qui.

Spostandoci di poco, dice parole brusche – beneficamente scomode – anche Francesco Costanzini da Sasso Marconi: «Caro PD, impara a gestire il dissenso, impara a non pilotare le scelte della gente e a fare primarie vere in ogni luogo. Non ha senso giocare a screditare l’avversario, piuttosto non permettere ad altri di cavalcare quelle che dovrebbero essere le tue battaglie ma che forse sono sopite chissà dove. Il consenso storico finirà, è destinato anagraficamente ad esaurirsi, pertanto è bene tornare a far politica con le passioni dei tempi che furono, tra la gente, con la gente, dal basso. Con trasparenza.
La credibilità la si ottiene agendo in modo democratico in ogni sede, senza collusioni col Potere. La coerenza in tutto ciò che si fa è una carta al tornasole, non si può pensare di proporsi come novità se la gente è la stessa, se le voci fuori dal coro vengono isolate, se non si pratica la democrazia dal basso, se non si rinuncia ai privilegi, se si lotta per le stesse poltrone da decenni.
La gente ha bisogno di tornare alla vera politica, a quel sistema che faceva sognare e che permetteva di amministrare la cosa pubblica in modo onesto, trasparente e per il bene comune. Berlusconi ce lo siamo “meritati”, ora il Paese ha bisogno di rigore da parte di tutti, chi è in Parlamento per primo deve dimostrare equità e di lavorare per la gente, per i lavoratori difendendo i diritti e aiutando i deboli anche rinunciando ai propri iniqui privilegi.
Bisogna imparare a considerare l’avversario in modo più sereno, bisogna imparare a leggere le sconfitte ed imparare dagli errori. Ci vuole un’assunzione di responsabilità, non processi pubblici ma essere capaci di avere coraggio e mettersi da parte quando si capisce di aver sbagliato! Solo così si conquistano le persone e si vincono le elezioni e si ben governa. Altrimenti si resta al palo sino a quando ci si riuscirà, prima di essere spazzati via e col tempo… sparire!»

Una riflessione molto originale e personale è quella di Roberto Balzani, sindaco di Forlì: «La lezione di Parma, pur al netto di tutte le complesse variabili locali, che non e’ sempre facile decifrare per esterni al contesto, e’ chiara: per una quota importante di elettorato, il ceto politico e’ un’oligarchia impermeabile e senza colore, assolutamente intercambiabile. E per questo solo fatto – che si tratti di governo o di opposizione “tradizionali” – da rifiutare in blocco. Ma sarebbe un errore pensare a un po’ di maquillage della comunicazione per ristabilire il contatto: il problema e’ più radicale e profondo e, a mio modesto avviso, riguarda in primo luogo le motivazioni per cui ciascun amministratore sceglie di fare politica. Cosa mette sul piatto? Cosa sacrifica, di se’ e della sua vita, per essere credibile (questione prioritaria rispetto ai risultati, che sono ovviamente interpolati da infinite casualità)? La selezione – anche nei partiti “tradizionali” – non può eludere questo nodo esistenziale: altrimenti cadiamo nella solita retorica dei valori e dei buoni proposti. Dei quali la gente e’ giustamente stufa. Cosa perdi per esporti tutti i giorni al giudizio dei tuoi concittadini? Su questo terreno si misura il tuo coraggio, la tua volontà di connettere pensiero e azione, infine la tua libertà

Da Lugo, Serena Fagnocchi ammonisce: «I voti non sono di proprietà dei partiti.  I cittadini votano le persone non i partiti. I candidati devono essere seri, credibili e nuovi. E se qualcuno pensa che il vuoto politico lasciato dall’astensione enorme non verrà colmato in un anno, e che basterà tenere la rotta con pochi aggiustamenti, assisterà alla riedizione della “gioiosa macchina da guerra”, temo (tanto ad essere chiamata Cassandra, rompicoglioni e inesperta ci sono abituata)».

Lascerei la parola riassuntiva al consigliere regionale PD Thomas Casadei: «Assai preoccupante il crollo della partecipazione; crollano Lega e PDL – ovvero chi ha dominato la scena nella “seconda repubblica”; ottima affermazione del PD e del centrosinistra unito e aperto a istanze civiche in tutta Italia – con successi eclatanti in territori ove da decenni aveva governato la destra (98 comuni sopra ai 15 mila abitanti saranno governati dal centrosinistra; 44 dal PDL); il …”terzo polo” è uno strano miscuglio che si muove in modo molto variopinto e senza grandi successi (peraltro in vari casi alleato della destra); in Emilia-Romagna – dato su cui riflettere con umiltà e serenità, ma anche molto coraggio, è eclatante il successo del Movimento 5 stelle a Parma e Comacchio (e per poco abbiamo “salvato” Budrio): derubricarlo a successo “per i voti della destra” non aiuta a comprendere il fenomeno e rischia di essere fuorviante. Dove il Pd e il centrosinistra hanno espresso spinta verso il cambiamento e programmi e candidati innovativi (a prescindere dal mero dato anagrafico) hanno vinto, dove hanno intrapreso altre vie … no. Abbiamo pochissimi mesi – un lampo – per presentare un’alternativa radicale e credibile alla crisi del sistema. Una sfida straordinaria che richiede, da subito, alcune azioni concrete [segue].»

Ecco: il post finisce così, con un “segue”. Tutto dipende da come lo riempiremo, ciascuno per la propria parte.
Per Bazzano cercherò di buttar giù qualcosa anch’io. Datemi tre-quattro di giorni di tempo.


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