Con Maurizio Martina, e perché

27 novembre 2018

– Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che significavano qualcosa,
anche se eri troppo piccolo per capire il perché. […] Le persone di quelle storie
avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto.
Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa.
– Noi a cosa siamo aggrappati, Sam?
– C’è del buono in questo mondo, padron Frodo.
È giusto combattere per questo.

  

Un giudizio laico sugli ultimi anni: rivendicare i risultati, ammettere gli errori

Nella riflessione interna al PD trovo piuttosto speculare, e specularmente irresponsabile, l’immaturità di chi ritiene che in questi anni non abbiamo sbagliato nulla e quella di chi ritiene che abbiamo sbagliato tutto. Vedo la tentazione di proseguire, da un lato, in un’estenuazione del renzismo ortodosso; dall’altro, nell’antirenzismo militante. Mi sembrano entrambe non tanto delle strategie fuori tempo massimo, quanto due scaramanzie difensive contrapposte e immobilizzanti – e in questo drammaticamente convergenti –: sicuramente, nessuna delle due mi pare una soluzione. Tantopiù se cedono alla tentazione di trasformare ancora una volta il percorso congressuale in una delegittimazione continua, in una caricaturizzazione violenta, in una balcanizzazione che non potrà rimanere senza strascichi.

Occorre un coraggio profondamente laico, e un atteggiamento profondamente inclusivo, per ammettere gli errori fatti, rivendicando i risultati ottenuti. Dare la colpa agli altri non serve a niente. Il che non significa negare la pericolosità e la virulenza dei nostri avversari, delle loro strategie, dei loro strumenti, e in generale del clima che si è largamente impadronito del Paese: pericolosità non per il PD, ma per la qualità della nostra democrazia e del nostro dibattito civile. Una presa di coscienza – peraltro fortunatamente viva in non pochi settori della nostra società – che non ammette alcuna indulgenza, né alcun desiderio d’imitazione. Ma occorre riconoscere che non abbiamo saputo vedere la forza e la pervasività di ciò che stava arrivando, e che si autoproclamava imperiosamente alternativo alla nostra azione politica e di governo: azione che non è stata percepita, nonostante tutto, come sufficientemente credibile e sufficientemente condivisa.

Riformismo radicale e altri ossimori

È necessario ribadire un approccio riformista: ma questo dev’essere lo strumento per riscoprire finalmente, com’è indispensabile e urgente, il primato della politica, sottraendolo all’abbraccio mortale dell’illusione populista. Limitarci a deridere gli insuccessi del governo e delle amministrazioni locali dei nostri avversari, le cui promesse s’infrangono miseramente di fronte alla realtà, non è una risposta sufficiente. Occorre chiedersi a quali bisogni reali – ancorché sovente deformati – quelle promesse pretendono di rispondere: e dare ad essi risposte per nulla indulgenti, anzi franche e severe, e tuttavia allo stesso tempo solidali ed empatiche.

Occorre, certo, difendere strenuamente il campo della ragione, dei dati, delle competenze come unico spazio possibile per la discussione pubblica e per la stessa convivenza civile. Ma bisogna anche sollecitare uno sforzo collettivo di pensiero verso una nuova visione del mondo.

Essere riformisti non può mai significare la rinuncia totale a svolgere una critica al capitalismo e al liberismo: perfino quando – contingenzialmente – se ne auspichi e favorisca un migliore sviluppo e un più completo compimento. Non spetta alla sinistra innalzare il vessillo della mera libertà assoluta, né in senso economico né in senso etico: lo mostra, non bastasse altro, la gravità e l’urgenza della questione ambientale (che è forse l’unico elemento unificatore nella grande varietà delle esperienze progressiste più innovative e di successo negli ultimi anni). Anche se un’alleanza con le forze autenticamente liberali è strategica e indifferibile nell’attuale panorama politico internazionale.

 

Tornare a essere luogo

Per noi non si tratta soltanto di ritornare a una visione ad alto raggio, a una narrazione forte, di lungo periodo, che appare l’unico mezzo per non ricadere nell’occasionalismo, nel maquillage, nella gestione dell’emergenza e del quotidiano (basti pensare all’amministrazione locale), e affinché la comunicazione politica sia al servizio della politica, e non viceversa.

Si tratta soprattutto di tornare a essere un luogo credibile a cui chiamare le migliori forze del Paese – individui e corpi intermedi, con rispetto per i luoghi tradizionali ma con un occhio particolare alle nuove aggregazioni – per sollecitarle a formulare le loro istanze, per arrivare a proposte che sappiano a un tempo essere radicali e parlare a una pluralità di soggetti sociali. Ritrovare un modello di partito non pesante ma pensante (questa sì un’espressione felice di Matteo Renzi, cui purtroppo non è seguita, mi pare – per responsabilità non solo sua –, alcuna azione concreta); un centro di gravità, non luogo di compromesso ma connettore di storie e costruttore di esperienze: solido e consapevole, ma in virtù di ciò poroso e disponibile all’osmosi.

L’alternativa è un partito asfittico, tra una mediocrazia di superstiti funzionari di partito, parlamentari e amministratori e un esile corpo di militanti cui troppo spesso non viene offerta una struttura collettiva in cui crescere e formarsi nella discussione informata, nel confronto ordinato, nel rispetto. Insomma, una comunità. Di cui abbiamo dannatamente bisogno.

In questo contesto, una visione di centrosinistra ampia e aggregante, da cui spero mi si possa concedere di non aver mai deflettuto, non serve certo a non avere «nessun nemico a sinistra» – anzi, non di rado occorre dire dei «no» molto secchi, come non bisogna temere di riceverne –, ma a perseverare in quell’attitudine inclusiva che è alla base dell’esperienza stessa del PD.

 

Una scelta

Come qualcuno sa, avevo iniziato a stilare queste righe quando ancora non erano chiari i contorni della sfida congressuale. Certo, sentivo forte l’esigenza di una candidatura che rompesse lo schema, per me pernicioso, che ho delineato all’inizio. Che non fosse, al tempo stesso, velleitaria, di nicchia o di settore, perché questo tipo di candidature non perturba, ma anzi rafforza lo schema principale. Una candidatura che, senza invocare l’ennesima «nuova era», portasse semplici ragioni di unità: non confezionando col bilancino un’impossibile ricetta, ma aprendo con umiltà a un futuro non prigioniero di una qualche frazione del passato, a un orizzonte da traguardare insieme.

Per questo, piuttosto imprevedibilmente – anche se con più forza dopo l’importante manifestazione del 30 settembre –, mi sono scoperto  sperare che Maurizio Martina decidesse di candidarsi. Apprendere che Graziano Delrio – di cui nei mesi precedenti avevo auspicato la candidatura – stava sostenendo quella scelta è stata per me una conferma importante; così come considero una buona notizia, giusto stamattina, che Matteo Richetti abbia deciso di convergere entro un progetto più ampio.

Nel mio piccolissimo, portando con allegria il bagaglio delle mie scelte, dei miei errori e dei miei fallimenti, mi metto con estrema semplicità al servizio di questo progetto. Con la sola ambizione di dare una mano.

Le ragioni di questa mia scelta implicano il rispetto assoluto verso tutti gli altri candidati e i loro sostenitori; prima ancora, il rispetto del partito, dei suoi luoghi, dei suoi metodi. E anche dei suoi limiti e delle sue difficoltà. Implicano anche la volontà di portare avanti più che mai un confronto di idee e di proposte, senza temere ma anzi favorendo contaminazioni e trasversalità.
Non ha senso sostenere Martina se non si vuole far crescere tutto il partito. Tutto. Senza perdite, senza fratture, senza abbandoni silenziosi che sono, ciascuno, una nostra muta sconfitta. È l’unica logica che ritengo ammissibile, tantopiù in questo momento. Ecco, lo sarebbe perfino se vivessimo in tempi normali. Non so se mi spiego.

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Salvare il PD: no al governo col M5S (ma non basta)

3 Maggio 2018

Per me impedire l’accordo M5S-PD significa salvare il PD. Non so se giovedì, da Fazio, Renzi ha fatto questo, o se ha colto l’occasione improvvidamente fornitagli da un manipolo di suoi avversari interni o ex alleati per intestarsi una battaglia che, come mostrano non solo i consensi raccolti dal documento che gira da ieri in vista della Direzione, ma soprattutto le voci di elettori e militanti, è molto più trasversale.

Non so se l’accordo fosse veramente più avanti di quanto sia trasparito a livello ufficiale (nel caso, aver detto esplicitamente, con tanto di nomi, che alcuni attuali ministri del PD erano stati “apprezzati” è stato per Di Maio ingenuamente controproducente oltre che gravemente contraddittorio). Però appare verosimile che l’accordo fosse, per alcuni dei suoi sostenitori, il modo e il punto da cui partire per mettere Renzi definitivamente “di lato”, rendendolo inoffensivo. Operazione complicata, anche qualora i favorevoli in Direzione fossero più del previsto, dal momento che alla fine il coltello dalla parte del manico ce l’hanno i gruppi parlamentari, questi in gran parte di salda fede renziana (e quei voti in Parlamento servono tutti, o quasi tutti, anche contando l’appoggio di LeU e di qualche altro parlamentare qua e là). A me sembra verosimile che Martina abbia cercato, di per sé lodevolmente, di trovare una quadra maggiormente inclusiva rispetto alla semplice maggioranza renziana, ma abbia poi subìto l’accelerazione altrui: fino alla concreta possibilità che la Direzione si trovasse formalmente a votare l’avvio di un dialogo, ma sostanzialmente a dare il via alla confezione di un “pacchetto” già pretederminato. Da qui la reazione di chi si diceva contrario a qualunque dialogo: una posizione scomoda e apparentemente anche poco logica, ma nei fatti sanamente prudente. Del resto per Martina – che, fino a un voto dell’Assemblea nazionale, è semplicemente il vicesegretario di Renzi (nominato da quest’ultimo ma sulla base di un “ticket” ben chiaro durante il percorso congressuale) ora facente funzione a seguito delle dimissioni di quest’ultimo – sarebbe non solo temerario, ma anche scorretto distanziarsi dalla constituency originaria. L’assestarsi su precondizioni decisamente poco esigenti, in particolare non negare la possibilità di un governo a guida Di Maio – quindi la piena vittoria politica non solo dei Cinque Stelle ma anche del loro “capo politico”, a cui non sarebbe stato chiesto nessun sacrificio – era l’elemento che maggiormente faceva temere questo scivolamento. E che non per nulla è stato proprio il punto su cui Renzi – come ha notato Cerasa – ha chirurgicamente mollato il suo ceffone: l’accordo col M5S è morto nel momento in cui l’ex segretario ha sillabato che i voti dei senatori PD – a quanto gli constava – Di Maio se li poteva scordare. E i notabili del PD non hanno potuto opporgli nulla nei fatti: perché gli constava giusto.

 

Ma perché penso che l’accordo col M5S significhi l’annientamento del PD? Per ragioni tattiche e per ragioni strutturali.
Le ragioni tattiche dicono che in queste condizioni essere “quelli che possono far cadere il governo” è un’arma assolutamente spuntata. Che il PD da un lato finirebbe ad avere una funzione di freno alle iniziative del M5S, dall’altro a essere costretto all’inseguimento del M5S stesso: una tenaglia mortale, sotto il fuoco di fila delle armi propagandistiche non solo del M5S stesso ma anche del centrodestra.
Le ragioni strutturali – anche al di là delle considerazioni sui rapporti tra M5S e democrazia (non solo la gestione della democrazia interna, ma soprattutto la loro idea e il loro modo di trattare la democrazia rappresentativa nonché il pubblico dibattito) e della falsa vulgata per cui i Cinque Stelle sarebbero sostanzialmente “di sinistra”, su cui ci sarebbe da scrivere libri e libri – dicono che l’accordo significherebbe la fine della vocazione maggioritaria del PD, l’accodarsi a partito gregario: confidando in una base elettorale che il 5 marzo ha già mostrato, certo, minoritaria, ma che, lungi dal considerarsi una nicchia residuale, resta e si sente radicalmente alternativa al M5S non meno che al centrodestra. L’idea di un accordo col M5S significa da un lato un’eccessiva fiducia nella capacità istituzionale e amministrativa del PD, come se i grillini fossero tutto sommato innocui mattacchioni facili da tenere sotto controllo con un po’ di tecnica e un po’ di tattica, qualche virtuosismo e schermaglie parlamentari, oltre a una nutrita pattuglia di ministri e sottosegretari. Dall’altro significa una drammatica sfiducia nella capacità del PD di fare politica – in Parlamento e nel Paese –, di individuarsi e mostrarsi come polo minoritario, ma alternativo e dinamico, capace di fare proposte incalzanti e di inventare campagne d’opinione che sappiano provocare le altre forze e dettare l’agenda politica italiana. Chi ha orrore di un PD arroccato al proprio calante potere e incapace di ritrovare la connessione sentimentale con il suo popolo (almeno con quello rimasto) dovrebbe essere molto spaventato dalla prospettiva di un accordo.

Detto questo, non posso fermarmi sullo chapeau a Renzi e alla sua mossa magistrale. Non tanto perché non sia convinto del suo “rilancio” di un governo di tutti e di una legislatura costituente, dal momento che penso che questa proposta sia semplicemente un’abile mossa dialettica per togliersi dall’angolo della domanda sul “che fare”, ma non abbia una reale praticabilità, e che Renzi lo sappia benissimo.
Ma perché, come avevo scritto nei giorni successivi alle elezioni, ritengo che il Partito Democratico abbia l’assoluta urgenza di avviare un percorso ampio (anche congressuale, ma non immediatamente congressuale, e con tempi distesi) non solo di confronto coi militanti e i simpatizzanti ma soprattutto di ascolto dei cittadini – fuori dagli organismi di partito e dalle aule delle istituzioni – e delle loro paure, angosce, speranze; un percorso di riscoperta e di rinnovamento delle sue ragioni fondanti, di elaborazione di proposte politiche forti e adatte a questi tempi. Dire che gli elettori non ci hanno capito non basta. Ammettere di avere fatto errori non equivale a squadernarli, questi errori, e a decidere in che direzione drizzare la barra per porvi rimedio. Pensare che basti il ritorno di Renzi o che basti disfarsi di Renzi per evitare questo difficile percorso – che non potrà avere esiti scontati se vorrà essere autentico – rappresentano due errori uguali e contrari alla ricerca di un’ultima, maledetta scorciatoia: converrà tenercene ugualmente distanti. “Io vi scongiuro, o miei fedeli: restate fedeli alla terra!”.


Due spiccioli sulle elezioni regionali in Molise

23 aprile 2018

Il Molise non è l’Ohio e l’idea che i risultati delle regionali dettino l’agenda a Mattarella è risibile come sarebbe affidare a De Toma – il candidato del centrodestra che si è ormai aggiudicato la presidenza della Regione – la formazione del nuovo governo a Roma.

Ciò detto, qualche riflessione su queste elezioni si può pure fare.

1) L’onda Cinque Stelle non è inarrestabile, nemmeno al Centro-Sud.

2) I Cinque Stelle hanno comunque ottenuto un risultato enorme rispetto alle precedenti regionali (37% contro 12%).

3) I Cinque Stelle si confermano più deboli sul piano locale, essendo ancora carenti nel radicamento territoriale. Da questo punto di vista, aver moltiplicato le liste mettendo in campo una grandissima quantità di candidati locali è stata sicuramente una mossa vincente per il centrodestra. (Mentre rinunciare a qualunque genere di coalizione e presentarsi con la sola lista M5S rischia di diventare un handicap per il Movimento proprio mentre ci sono le condizioni per un suo avanzamento nei territori.)

4) Il centrosinistra cala rispetto al risultato già pessimo delle politiche. E’ un tracollo che la coalizione “larga” non riesce assolutamente a frenare. Il risultato molto brutto del PD non si spiega unicamente con il “sacrificio” rispetto alle civiche, peraltro poco utile, né con motivazioni legate al malcontento per l’amministrazione uscente – che certo non ha giovato. L’impressione è quella di una grave marginalità e labilità. Anche LeU è in calo.

5) La molteplicità delle sigle vizia qualunque confronto interno tra le liste “nazionali” del centrodestra. Converrà limitarsi che la Lega, nonostante lo scarso radicamento locale, non cala rispetto alle politiche, e che il bacino dell’area che fa capo a Forza Italia è alquanto ampio; accanto ad esso, riprende vigore un’area “moderata” era in gran parte confluita in FI. Non male anche FdI.

6) Azzardando ipotesi sui flussi di voto: sicuramente il M5S viene penalizzato dall’astensione più alta (seppur relativamente fisiologica: al dato complessivo va tolto quello degli oltre 70.000 molisani residenti all’estero, che non erano computati alle politiche); difficile che abbia influito un calo di consenso per il comportamento del Movimento a Roma dopo le politiche; molto più probabile che un certo numero di elettori M5S delle politiche abbia deciso, alle regionali, di premiare candidati (soprattutto di centrodestra) a lui più “vicini”. Da questo punto di vista la nuova legge elettorale regionale, che impediva il voto disgiunto, ha probabilmente avuto un influsso non trascurabile.
Il centrosinistra probabilmente cede al centrodestra voti legati ai candidati “transfughi” (alcuni consiglieri uscenti di centrosinistra si sono ricandidati, e saranno eletti, col centrodestra); ma più in generale, forse, sconta un “effetto ballottaggio” con la concentrazione di voti (d’opinione) sui due candidati che venivano avvertito come più competitivi.

 

Vedremo come questi dati si combineranno con quelli delle regionali del Friuli-Venezia Giulia domenica prossima (in quell’occasione si voterà anche per le comunali a Udine e in altri 18 comuni della Regione) prima delle elezioni comunali del 10 giugno, che interesseranno 762 comuni, tra cui Ancona e altri 20 capoluoghi di provincia. In Emilia-Romagna si voterà in 18 comuni; nel Bolognese, oltre all’importante test di Imola, ci saranno le elezioni anche a Camugnano; nel Modenese a Guiglia, Serramazzoni, Camposanto e Polinago.


Politica e curriculum: considerazioni inattuali (che fa Fico)

26 marzo 2018

Non ho mai partecipato alle polemiche e ai lazzi sui curriculum vitae dei ministri “non laureati”, o con la laurea “sbagliata” o comunque che non sarebbero “del ramo”, perché sono fermamente convinto che l’unica competenza necessaria per un incarico politico sia la capacità di rappresentare gli elettori (di qui la necessità fondamentale di distinzione assoluta tra incarichi politici e tecnici in uno Stato democratico). Del resto non si vede perché nel privato sia considerato normale, e anzi titolo di merito, che un manager possa tranquillamente lavorare in campi completamente diversi in virtù delle sue competenze manageriali –  e non settoriali – mentre un politico non dovrebbe poter operare allo stesso modo in virtù delle sue competenze politiche (politico e manager, va annotato, sono due figure ben diverse, ma non prive di tratti in comune)? Intelligenza politica significa anche capacità di selezionare collaboratori tecnici competenti, affidandosi ad essi senza peraltro lasciarsene condizionare.

Abbiamo avuto pessimi ministri della Sanità medici, ed eccellenti ministri della Sanità che medici non lo erano; sciagurati assessori all’Urbanistica con ottime referenze professionali, a fianco di ottimi colleghi che nella vita facevano tutt’altro. E ovviamente anche viceversa, perché nemmeno si sostiene che “essere del ramo” sia un handicap per un incarico politico, né tantomeno che l’acquisizione di competenze non possa tornare preziosa nel corso della carriera politica di una persona (acquisire competenze di qualunque tipo torna SEMPRE prezioso per qualunque cosa ci si trovi ad occupare, in modo spesso imprevedibile): certo, ci sono (al netto dei conflitti d’interesse grossolani) potenziali rischi (il medico che fa il ministro della Sanità con un punto di vista “da medico” che non gli permette di guardare agli interessi delle altre categorie coinvolte); ma la capacità del politico dev’essere proprio quella di contemperare e trascendere i singoli legittimi interessi in una visione generale di bene comune.

E questo è vero per ministri e assessori, cioè cariche di tipo settoriale. A maggior ragione per figure politiche a tutto tondo, dal sindaco al parlamentare.

(La ragione per cui sarebbe opportuno che il “politico di professione” fosse un’eccezione non risiede nel fatto che uno debba occuparsi, in politica, delle cose su cui ha maturato un’esperienza lavorando, ma nell’importanza che il politico sia economicamente libero dalla politica e non ricattabile, diciamo così, col pane quotidiano.)

Per questo criticare il curriculum vitae di un esponente politico che giunge a un’alta carica ha poco senso, mentre è assolutamente sensato criticare se, in precedenza, ha avuto cattivi risultati ricoprendo altri incarichi. La mancanza di esperienza non è, naturalmente, un titolo di merito, ma non è neppure possibile che la politica sia come quelle aziende che affiggono alla porta il cartello “cercasi apprendista – solo con esperienza”. Certo, sulla capacità o meno delle forze politiche di promuovere armoniosamente, senza balzi e senza intoppi, la crescita “dalla gavetta” dei propri aderenti sarebbe opportuno riflettere.

Più in generale, per criticare il curriculum vitae et studiorum di un avversario politico sarebbe opportuno, prima, accertarsi di appartenere a un partito che promuove una selezione rigorosamente meritocratica del proprio personale sulla base della competenza, anziché della fedeltà, che valorizza le proprie eccellenze di base e la cui classe dirigente non è composta in larga parte di persone che dipendono dalla politica e che nella loro vita non hanno mai lavorato.


Qualche appunto per il futuro del PD

12 marzo 2018

Le voci ricorrenti per cui la Direzione del PD – appena iniziata – e la sua prossima Assemblea nazionale non sarebbero intenzionate a lanciare immediatamente il percorso congressuale mi confortano.
Sarebbe un errore gravissimo, come ho già segnalato nei post precedenti, risolvere in un’affrettata conta attorno a qualche nome e a qualche slogan – e a pochissime idee – i problemi che la tremenda sconfitta alle elezioni politiche ha messo bruscamente davanti al PD. Per fortuna sembra che questo errore verrà evitato.
Personalmente propendo perché l’Assemblea dia vita a una segreteria unitaria di reggenza, attorno a una figura che venga percepita come una garanzia per tutti, in modo da rappresentare tutte le sensibilità. Non mi metto a ragionare su questo o su quel nome, quelli che si leggono sui giornali possono probabilmente andare bene.
Questa segreteria NON potrà in alcun modo limitarsi a svolgere l’ordinaria amministrazione, in vista dello svolgimento del congresso – nel 2019, si dice, e spero vivamente che non sia prima.
Non solo perché avrà prima di tutto l’importante responsabilità di guidare la delegazione del partito nelle prossime consultazioni al Quirinale e nei passaggi successivi, che potranno essere molto delicati. (Come ho già scritto, sono tra quelli che auspicano che un governo politico espresso dai vincitori delle elezioni possa effettivamente insediarsi, nel rispetto della volontà degli elettori, e che il PD rimanga coerentemente all’opposizione.)
Ma soprattutto perché la vera preparazione del congresso dovrebbe consistere in un’azione robusta di ascolto, in grado di rendere il nostro partito più capace di intercettare le idee, gli umori e i sentimenti delle persone, di riconnetterci con quella realtà con cui probabilmente abbiamo spesso perso il contatto: sia al centro che nelle variegate periferie del nostro Paese, comprese quelle zone che abbiamo scoperto con sgomento non essere più “nostre”, o non più di tanto.
Non mi illudo: è molto difficile. In vista di un congresso ognuno cerca di organizzare le sue truppe fidate, di fare i propri conti su numeri il più possibile “sicuri”; aprire le porte, in qualunque forma, viene percepito come destabilizzante o addirittura inquinante. Però, posporre almeno di un anno i tempi del congresso apre la speranza di uno spazio disteso in cui dedicarci a un’opera terribilmente necessaria. A meno che uno non pensi – e temo che non in pochi, in realtà, lo stiano pensando – di rifugiarsi ancora una volta nella ridotta geografica dei propri fortini, in quella mentale delle proprie certezze. Ma di fortini, ormai, non ne sono praticamente rimasti: e quei pochissimi sono minacciati da ogni parte. Quanto a certezze, ecco, non so voi come siate messi.

In questi giorni, giustamente, molti circoli stanno chiamando i propri militanti e i propri iscritti per riflettere sul significato del voto del 4 marzo e su come ripartire per il futuro. E’ un bene. Ma non basta: il pericolo di ritrovarci sempre tra di noi, e di conseguenza di raccontarci sempre le stesse cose, spesso con le stesse parti in commedia, è troppo grande.  Occorre guardare fuori, in quel vasto mondo che scopriamo sempre più estraneo, ma che è quello in cui e per cui vogliamo agire. Occorre confrontarci, come scrivevo martedì, con le persone nelle loro aggregazioni e associazioni (non quelle “solite”, quelle che una volta rappresentavano interi mondi, ma che oggi troppe volte sembrano comode scorciatoie fatte apposta per evitarci di allungare il muso in mezzo alla gente “vera”) e nelle solitudini di una massa parcellizzata e polverizzata – e tuttavia viva. Aprire le porte, le finestre, se necessario i lucernari e i comignoli.
Un’operazione come questa presuppone organizzazione se non vogliamo che tanti sforzi generosi si esauriscano in una fiammata di volontarismo, e che siano limitati alle zone dove già ora il partito è più vivo e più saldamente innestato nei gangli della società che si rinnova. Intercettare le persone significa essere consapevoli di come e dove oggi le persone vivono, agiscono, si relazionano tra di loro; con un occhio alle nuove tecnologie, ma ancor più agli stili di vita delle persone, delle famiglie, delle aggregazioni più o meno durature. L’organizzazione è necessaria per valorizzare ogni ritorno (nel senso del “feedback”, ma anche delle persone che decidono di dare al PD un’altra possibilità), per offrire riscontri, per costruire comunità. E per creare comunità, naturalmente, serve comunicazione: bidirezionale, non polemica, orientata alla persona, unitiva, “calda” ma sfidante, che chiama a mettersi in gioco, a muovere un passo, a uscire dalle tastiere, a creare una dimensione condivisa.
Trovo questi passi – per quanto ovvi – fondamentali e preliminari a qualunque indicazione di merito possa comporre il percorso del prossimo congresso e, soprattutto, il futuro del PD. Senza questi accorgimenti e questi sforzi, qualunque approdo sarà autoreferenziale e perdente, in un cerchio sempre più ristretto e asfittico. Sapremo fare questo investimento a fondo perduto? Molto prima di interrogativi più che rispettabili, ma troppo stilizzati e affettati (più a sinistra, più a destra, eccetera), questa è la prima domanda a cui chi ha a cuore questo partito deve rispondere. In fretta.


Trasumanar e organizzar

9 marzo 2018

Pare già partita la giostra dei nomi per le prossime primarie del PD dopo le dimissioni di Renzi. Quelle dimissioni – premetto – erano inevitabili, e a questo punto è ovvio e necessario che il processo congressuale si debba aprire, mentre spetta al vicesegretario Martina garantire la gestione del partito in un momento politicamente e istituzionalmente molto delicato. Detto ciò, la “conta” mi interessa molto poco.
In questa fase mi interessano soprattutto i contenuti, ma molto più quelli sul metodo che quelli nel merito. Per intenderci, sosterrò chi mi promette, in maniera credibile e dettagliata, apertura e ascolto delle persone (NON limitato a quelle “del partito” e alla nostra rete “di comodo”); organizzazione decente, in modo da far fruttificare ogni disponibilità e ogni manifestazione d’interesse, creando finalmente il piano inclinato che porta dal simpatizzare alla militanza, in modi e tempi che siano consapevoli delle attuali modalità di vita e di relazione delle persone; funzionamento reale e democratico degli organismi eletti a tutti i livelli. I contenuti – possibilmente non in formulette del tipo “più a sinistra”, “più a destra”, “più di fianco” – sono fondamentali, figurarsi: ma, tantopiù in questa fase, hanno senso come esito di un processo di base che non può compiersi nei tempi – che pure spero più dilatati – della fase congressuale (parlo volentieri, non a caso, di congresso prima che di primarie). Il congresso non deve concludere questa fase: deve farla partire. Non è il tempo della fretta, non è il tempo delle scorciatoie, è il tempo della riflessione che diventa costruzione paziente e, possibilmente, condivisa. Ma questa riflessione deve cominciare, e subito.


Per una ragionevole speranza

1 marzo 2018

Vorrei spiegarvi perché anche a queste elezioni voterò PD e perché vi invito a farlo anche voi.

Non credo che questo sia un partito perfetto: perché non esiste un partito perfetto, né possiamo pretendere un partito che ci rappresenti perfettamente, né un partito fatto solo di santi e di eroi. Il PD è un partito vero, o ci prova: non è “proprietà privata” di nessuno, è una comunità fatta di uomini. E nelle cose fatte di uomini ci sono difetti, errori, colpe…: avete presente, no? Stessa cosa per un governo!

Ma questo governo – i tre governi del PD: Letta, Renzi, Gentiloni – ha fatto un sacco di cose buone.

Alcune misure sono state molto criticate, per esempio il “Jobs Act” e la riforma della “Buona Scuola”. Condivido alcune critiche: per esempio, avrei voluto maggiori disincentivi al licenziamento e maggiori ammortizzatori sociali per le persone licenziate. Tuttavia, è innegabile che questa legge ha avuto una parte nell’agganciare la ripresa economica e nel far ripartire le assunzioni. Inoltre, si sono impedite le dimissioni in bianco, migliorate le norme per la maternità e la paternità, ed è stata fatta la legge contro il caporalato. Personaggi del calibro di Nadia Terranova e Carlo Calenda hanno affrontato con determinazione una quantità di gravi crisi industriali, portando in molti casi a risultati positivi.
Non possiamo neanche dimenticare che i famosi “80 euro” rappresentano il maggiore abbassamento del costo del lavoro a favore delle classi medie e medio-basse: quelle che maggiormente vanno protette dal rischio di povertà. Ed è stata abolita l’IMU sulla prima casa è stata abolita, escluse le abitazioni di lusso.
L’introduzione del reddito di inclusione, invece, è fatta per spingere le persone più disagiate a ripartire, non per lasciarle nella precarietà. Il “bonus bebè” è una misura concreta di sostegno alle famiglie. La legge sul “dopo di noi” ha dato per la prima volta una concreta garanzia alle famiglie con persone disabili. Ricordiamo anche la nuova legge sulla continuità affettiva riguardo alle famiglie affidatarie.

Sul fronte della scuola, confermando il sistema pubblico-privato, questo governo ha destinato alla scuola pubblica risorse mai viste prima, sia per le strutture sia per promuovere la formazione (anche con il bonus docente), l’innovazione e l’autonomia scolastica, e ha permesso l’assunzione in ruolo di centomila insegnanti.
Anche nella sanità, dopo i duri tagli degli anni precedenti, gli investimenti sono tornati ad aumentare, permettendo da ultimo un alleggerimento dei vincoli alle assunzioni e la stabilizzazione dei precari; si sono creati i nuovi Livelli essenziali di assistenza, per garantire a tutti parità d’accesso ai servizi; si è stabilito l’obbligatorietà dei vaccini.
Nel campo della sicurezza sono state finalmente destinate più risorse alle forze di polizia e sono stati dati ai sindaci maggiori strumenti per combattere la criminalità e il degrado. Parlando di legalità, è nata l’Autorità anti-corruzione ed è stato approvato il Codice anti-mafia il processo civile telematico e la storica legge sulla responsabilità civile dei magistrati Ma ricordiamo anche che il recupero dell’evasione fiscale non è mai stato così alto (da 12 a 20 miliardi l’anno)!

Renzi è stato criticato per aver salvato e accolto decine di migliaia di migranti, Minniti è stato criticato quando ha cercato di gestire il fenomeno anche con provvedimenti controversi: la realtà è che si è mantenuta coerentemente, in una situazione molto complessa, una posizione che coniugasse l’umanità e il realismo.

Il governo del PD ha approvato la legge sulle unioni civili: qualcuno non sarà d’accordo, ma a ripensarci non vi sembra strano, ora, che due anni fa una coppia dello stesso sesso non avesse alcun tipo di riconoscimento? Ed è stata approvata la legge sul testamento biologico, una legge profondamente equilibrata e basata sui migliori principi del nostro umanesimo.
È stato abolito il finanziamento ai partiti, sostituito da una forma di contribuzione volontaria (una mossa molto coraggiosa: perfino avventata per alcuni).

In campo ambientale dobbiamo ricordare almeno la legge sugli ecoreati, quella contro lo spreco alimentare, quella per la ciclabilità. Ritengo tuttavia che in questo campo, in cui ci sono stati anche provvedimenti controversi (per esempio alcuni di quelli compresi nel cosiddetto “Sblocca Italia”), sia necessario fare di più: e molte proposte sono effettivamente contenute nel programma per i prossimi anni.
Ma non possiamo dimenticare il varo di altre importanti e attese riforme: quella del Terzo settore, quella della Pubblica amministrazione, quelle relative al campo culturale (in cui si è vissuta una stagione di grande rafforzamento delle istituzioni culturali italiane, a cominciare dai musei); senza contare le tante misure per la semplificazione burocratica e fiscale.

Tutto questo – e molte altre cose – è stato fatto nel rispetto delle regole previste dall’Europa. Occorre continuare a lottare per un’Europa diversa, ma bisogna farlo con i conti a posto, mantenendo la nostra credibilità e la nostra affidabilità: non per nulla, il numero delle infrazioni della normativa europea registrate nei confronti dell’Italia in questi anni si è dimezzato.

È sufficiente? No. Bisogna andare avanti. In particolare per andare incontro alla precarietà, alle nuove emarginazioni, alle insicurezze di chi si sente smarrito di fronte all’economia globale.

Ma i risultati ottenuti sono importanti e vanno messi al sicuro. Non possiamo dare la guida dell’Italia a pericolosi dilettanti che si sono dimostrati privi di qualunque capacità anche nel governo locale, come il Movimento Cinque Stelle, e che mascherano dietro un’illusoria pretesa di onestà a tutti i costi una pericolosa ignoranza dei principi basilari della democrazia. Non possiamo ridare il Paese a chi pochi anni fa lo ha fatto precipitare irresponsabilmente nella crisi, come il centrodestra. Non possiamo fidarci di chi semina l’odio e la paura nascondendo una paurosa povertà di contenuti, come la Lega e i partiti di estrema destra, che strizzano allegramente l’occhio ai neofascismi.

Al di là delle contrapposte utopie, che spesso si sono rivelate perniciose, il Partito Democratico e le altre forze che compongono la coalizione di centrosinistra mi sembrano le uniche forze che possono guidarci in un percorso di RAGIONEVOLE SPERANZA.

Vi invito a votare PARTITO DEMOCRATICO e a suggerire quest’opportunità ai vostri familiari, amici, conoscenti (basta una chiacchierata, telefonata, un messaggio whatsapp: se volete potete usare anche questo piccolo “appello al voto”). Vorrei anche invitarvi a partecipare alle iniziative del PD, a iscrivervi, a diventare militanti: per provare a cambiare le cose che non vanno, per sostenere quelle che funzionano. Ma, ecco: una cosa alla volta. Partiamo da questo voto. Sembra niente. È tantissimo.

(Il programma del PD nel dettaglio lo trovate QUI.) 


Congresso PD: numeretti e sassolini

24 marzo 2017

I primissimi risultati dei “congressini” dei circoli sembrano premiare Renzi anche nell’Emilia profonda. Invece che sottolineare correttamente che stiamo parlando di un risultato ancora statisticamente non rilevante, alcuni sostenitori, anche autorevoli, delle mozioni concorrenti (non uso “avversarie” perché stiamo parlando, e dovremmo ricordarcene tutti, di una competizione interna a un partito) insistono sul fatto che il calo dei votanti (anch’esso, peraltro, per ora statisticamente non significativo…) dimostrerebbe il cattivo “stato di salute” del PD.

 

In sede congressuale, naturalmente, ciascuno usa gli argomenti che vuole e soprattutto che può.

 

Vorrei però precisare un paio di cose:

 

Il PD ha sicuramente un problema di calo delle iscrizioni, che è l’indice di una crisi più generale di modello di partito. A cui vanno trovate soluzioni, né nostalgiche né demolitorie. Ma è una crisi che rimonta a ben prima dell’epoca di Renzi, come mostrano sufficientemente bene i dati. Tenendo in conto anzi che è stata la nascita del PD a essere un momento di controtendenza rispetto alla crisi dei partiti che in esso sono confluiti. Dove in molte realtà c’erano centinaia di iscritti, ma pochissimi venivano a votare ai congressi e ancora meno partecipavano alla vita del partito.

Da renziano, a Renzi imputo di non essersi occupato di questo problema. Anzi, di tante è la critica più forte e più dura che gli muovo. E spero e credo che il “ticket” con Martina significhi proprio, anche, l’intenzione di lavorare sul partito. Ne abbiamo la necessità assoluta.

Ma non ci sto a dare a Renzi la colpa di una crisi, che nasce ben prima di lui e attraversa tutte le segreterie precedenti. Tutte.

Oggi a livello nazionale il PD presenta una situazione a macchia di leopardo: in alcuni territori (per esempio in varie aree della Lombardia e del Piemonte), grazie a nuovi modelli organizzativi e a una buona dose di energia e di creatività, sta rinascendo e insediandosi in luoghi tradizionalmente ostili; ma in molte altre zone osserviamo una semplice e progressiva decadenza del modello del passato, senza capacità di autentico rinnovamento.

Fa specie osservare che certe critiche provengono proprio da esponenti di punta di una classe dirigente territoriale che, nel suo complesso, ha probabilmente gestito l’esistente in modo decoroso ma sembra non aver saputo attuare mosse decisive per investire la tendenza.

 

L’idea surrettizia per cui i successi (per ora assolutamente provvisori!) di Renzi tra gli iscritti derivino dal fatto che ormai sarebbero rimasti nel partito solo i renziani è una palese falsità. Nessuno nega le dolorose fuoruscite – che peraltro non sono una novità –; ma occorrerebbe anche guardare a tutti coloro che si stanno avvicinando o riavvicinando al PD proprio in questi ultimi anni o mesi. Soprattutto, quella lettura si scontra con la realtà che ognuno ha sott’occhio nel proprio circolo e nel proprio ambiente, e che vede molti militanti, storicamente avversi a Renzi, dichiarare pubblicamente che stavolta daranno a Renzi il loro sostegno.
Sicuramente hanno influito le tante riforme e azioni tenacemente portate a termine dal governo, nonostante le riserve che ciascuno può avere su questa o su quella. Ma credo che abbia avuto una parte determinante la lunga e dura campagna referendaria. A differenza di autorevoli commentatori che ritengono che Renzi abbia stregato il PD offrendo l’illusione della vittoria, è proprio nel momento in cui Renzi non ha vinto – pagando duramente di persona – che ha convinto una buona parte del partito: che non si rassegna alla brusca interruzione di quella storia. Che intende fare tesoro degli errori commessi, ma certo non fare tabula rasa. Mentre il comportamento di molti degli avversari interni (buona parte dei quali ora sono…altrove) è stato avvertito in modo assai negativo dalla gran parte della “base”. Non sto parlando di dirigenti, sulle cui scelte può sempre essere fatto ventilare lo spettro della convenienza: parlo di militanti che non hanno nulla da guadagnare e nulla da perdere. Se non il loro partito e le loro speranze per il Paese.

Del resto, oggi anche la gran parte di coloro che sostengono gli altri candidati sono ben determinati a rimanere nel partito anche se le primarie dovesse vincerle Renzi. Ciò dovrebbe frenare le spinte degli ultras di tutte le fazioni e curare che la legittima e sacrosanta propaganda congressuale non vada oltre i livelli di guardia. Dopo il congresso, comunque vada, ci sarà un sacco di lavoro da fare, e sarà meglio farlo con tutte le energie disponibili.


Alle soglie del congresso PD

14 marzo 2017

Rispetto a tre-quattro anni fa Matteo Renzi ha certo perso consenso nel Paese. Cosa peraltro piuttosto prevedibile: prima era solo un addensarsi di aspettative che ognuno (a parte i fiorentini) poteva disegnarsi a suo modo, ora ha governato l’Italia per tre anni in cui molte decisioni sono state prese, molte leggi approvate, molti nodi tagliati in un modo o nell’altro. Il suo stile di comunicazione e di governo sicuramente ha contribuito a polarizzare opinioni e simpatie, i delusi ci sono e spesso sono tra i critici più taglienti.
Tuttavia, contemporaneamente, Renzi ha acquistato consenso nel PD. Non solo perché, banalmente, alcuni (a volte rumorosamente, più spesso silenziosamente) sono andati via dal PD per via di Renzi, mentre altri si sono avvicinati per lo stesso motivo. Ma anche perché Renzi alla fine è riuscito a convincere molti militanti e simpatizzanti che finora non gli avevano concesso la loro fiducia.
Certo, essere il segretario mette sicuramente Renzi in una posizione di vantaggio: per molti militanti, non solo tra i più anziani, “il segretario”, anche quando non si è tra i suoi sostenitori, è una persona che comunque merita rispetto e attenzione, che possono trasformarsi in apprezzamento. In questi anni ho visto molte persone del PD, che non definirei in alcun modo “renziane”, dare a Renzi un’apertura di credito. Al netto dei suoi difetti, limiti ed errori e di alcune scelte di governo meno condivise. Del resto una polarizzazione così forte, voluta sia da Renzi sia dall’oltranzismo di molti oppositori interni, non poteva che generare una scelta di campo che non ammetteva mezze misure.

Un passaggio fondamentale, da questo punto di vista, è stata la campagna per il referendum costituzionale. La sconfitta ha cementato solidarietà e desiderio di rivalsa anche tra i non renziani. Se per i principali oppositori interni una débacle così bruciante doveva significare tout court la fine di Renzi, per una parte importante del partito la brutalità dell’interruzione del triennio renziano ha generato una reazione netta e orgogliosa, non priva di qualche eccesso. Senza contare che la scissione – nata in ultima analisi da questa drammatica aporia di lettura dei fatti, e le cui reali proporzioni saranno valutabili solo tra qualche tempo – ha in ogni caso generato tra chi ha deciso di rimanere nel PD un ulteriore impulso alla coesione.
Del resto, a chi non condivide la “linea” di Renzi ma ha scelto di non abbandonare il partito (compresa una fetta importante della classe dirigente), la candidatura di Orlando, più di quella di Emiliano, ha offerto provvidenzialmente una modalità pienamente accettabile e competitiva di esprimere la propria posizione. Al netto di contrapposizioni utili ad attirare l’attenzione dei media più ancora dell’interesse dei militanti, peraltro, il progetto di Orlando sarà tanto più convincente quanto più capace di andare, anziché contro Renzi, oltre Renzi, ad allontanarsi dalla nostalgia del passato per prospettare in modo convincente quella tensione al futuro che ha reso inaccettabile per la maggior parte l’idea di tornare tra le braccia di D’Alema e Bersani.

Al Lingotto Renzi è stato molto abile nel trasmettere il messaggio di voler rimediare ai propri errori: in particolare l’eccessiva personalizzazione e la necessità di riconnettersi con temi e sensibilità propriamente “di sinistra”. Il “ticket” con Martina, l’aspetto più appariscente di entrambi i corni di questa correzione, è un elemento sufficientemente concreto (dietro Martina c’è un’ala numericamente e strategicamente importante del partito) per fugare il dubbio che si tratti di un mero restyling di comunicazione. E lascia ben sperare anche per uno dei problemi più seri: la gestione del partito, che è stata obiettivamente molto carente, e non ha bisogno tanto di proclami programmatici ma soprattutto di qualcuno che metta mano al magma in modo più deciso, autorevole e profondo di quanto sia avvenuto finora.

Questa strategia a due cerchi concentrici (quello interno alla mozione Renzi, con Martina, e quello esterno ad essa ma interno al partito, con Orlando) sembra capace non solo di frenare in modo sostanziale le fughe della sinistra interna ma anche di ridare spinta all’intero progetto: senza dimenticare che un terzo “cerchio utile”, esterno al PD ma non alla strategia complessiva, dovrebbe essere, non senza difficoltà e complicazioni, quello del “campo progressista” di Pisapia. E l’ala centrista? Nel complesso saldamente in mano a Renzi, ma sarà importante seguire eventuali fibrillazioni e posizionamenti; così come occorrerà tener sempre presente la dimensione geografica del partito: non solo per una candidatura connotata anche da questo punto di vista come quella di Emiliano; ma proprio perché nel rapporto spesso sfilacciato tra il suo centro e le periferie il PD si gioca molto del suo futuro.


Quorum, virgola, ego.

18 aprile 2016

La “piazza” virtuale è spiacevolmente invelenita dai postumi del referendum di ieri. Troppo per la misura del quesito in ballo. Si è voluto caricare questo referendum, specialistico e marginale, di significati arbitrari: l’operazione – piuttosto “a freddo” – non è riuscita, rimane solo quest’inutile coda di acrimonia.

Anche per via della natura del quesito, occorreva letteralmente inventarsi argomenti per motivare la gente, in un senso e nell’altro: da qui una delle campagne più brutte e farlocche degli ultimi tempi, e ce ne vuole.

Per abrogare una legge approvata a maggioranza dai legittimi rappresentanti dei cittadini, c’è bisogno del consenso di una grossa fetta di cittadini. Da qui l’idea costituzionale del quorum. Spetta a chi vuole abrogare la legge dimostrare che quel consenso è maggioritario nel corpo elettorale. Le regole del gioco sono chiare e ogni comportamento è lecito: compreso astenersi per far saltare il quorum, compreso chiedere di votare no perché tanto vincono i sì. A maggior ragione, quindi, serve dare e chiedere rispetto per tutti: per chi è andato a votare (sì, no, bianca – come me –, nulla) e per chi non c’è andato. Le reliquie del nonno partigiano, che Dio lo abbia in gloria, non andrebbero tirate fuori a caso: si sciupano anche così.

Avrei preferito che il mio partito spiegasse la scarsa utilità del referendum, senza invitare esplicitamente all’astensione. È una questione squisitamente estetica, ma anche l’estetica ha la sua importanza.

Molto più importante: avrei preferito che il mio partito evitasse questo scontro istituzionale tra Stato e Regioni. Risulta difficile capire come mai, disinnescati 5 referendum su 6, non si potesse arrivare a disinnescare anche il sesto. Direi che alla volontà di mediazione, a un certo punto, si è sostituita la voglia di arrivare alla prova di forza. Qualcuno faceva male i suoi conti, e l’ha persa malissimo, qualcun altro l’ha vinta. Era meglio non arrivarci.

Ancora più importante: vorrei che il mio partito fosse un partito. Non una caserma, ma neanche un bordello. Lo spettacolo non dico di iscritti e simpatizzanti, ma di parlamentari, dirigenti di partito, amministratori e militanti che facevano sostanzialmente ciascuno quel cazzo che gli pare, non di rado partecipando alla fiera del reciproco insulto, è stato avvilente.

Se fai lo sbruffone quando vinci sei uno sbruffone, se fai lo sbruffone quando perdi sei un cretino.

Lo Sblocca Italia rimane, a mio modesto parere, uno dei provvedimenti più discutibili del governo, non solo in campo di concessioni estrattive. Peccato che, anche in quest’ultimo campo, i problemi più importanti (per esempio la scarsa entità delle royalties) rimanessero ben fuori dell’ambito del referendum.

Ci sarebbe anche da fare un discorso serio sui rapporti tra Stato e autonomie locali. Chiedo troppo, vero?

La democrazia, come ogni attività umana, ha un costo. Piccolo: ogni voto costa 6-7 euro a cittadino. La Costituzione mette a disposizione l’istituto del referendum a determinate condizioni, che sono state rispettate. Inutile buttare addosso ai promotori le spese del referendum per aver esercitato un loro diritto costituzionale, inutile buttarle addosso al governo perché (come da legge) non le ha accorpate alle amministrative mettendo insieme pere con mele.

Non ha alcun senso sommare i voti fuori del proprio contesto. Al prossimo referendum, per non parlare delle prossime elezioni, quei quindici milioni e mezzo di votanti, e quei trentaquattro milioni di non votanti, si scomporranno e ricomporranno in modo completamente diverso. Incuranti delle mosche cocchiere.

Sarei veramente curioso di sapere quanti, tra chi si lamenta del quorum bestemmiando addosso a Renzi e sperando di impallinarlo al referendum costituzionale di ottobre, sanno che la riforma su cui si voterà in ottobre prevede l’abbassamento del quorum a livelli molto più agevoli (la metà dei votanti alle elezioni politiche precedenti) purché si siano raccolte 800.000 firme anziché 500.000 (ma rimane anche l’opzione attuale).

Siamo andati a votare in quindici milioni e mezzo, quorum ego. Anzi, quorum ega. Ma questa la capisce solo chi ha fatto le scuole medie a Bazzano qualche tempo fa.

 

 


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