Episcopalis communio: papa Francesco riforma il Sinodo dei vescovi

24 settembre 2018

Lunedì 17 settembre è stata pubblicata la nuova costituzione apostolica di papa Francesco sul Sinodo dei vescovi Episcopalis communio. Il documento è entrato in vigore al momento della pubblicazione, quindi sarà applicato, per quanto possibile, alle assemblee sinodali già convocate come quella imminente sui giovani e quella sull’Amazzonia.

Cos’è il Sinodo dei vescovi

Il Sinodo dei vescovi è una riunione di vescovi – prevalentemente nominati dalle conferenze episcopali di ogni nazione – convocata dal papa per trattare temi importanti della vita della Chiesa. Dopo la convocazione vi è una fase preparatoria, che dura parecchi mesi e nella quale vengono elaborati alcuni documenti di lavoro; segue la riunione vera e propria, della durata di qualche settimana. Per consuetudine avviene in ottobre. Un sinodo ordinario comprende più di 200 membri, più svariate decine di esperti e uditori (compresi alcuni rappresentanti di altre Chiese cristiane, detti “delegati fraterni”). Vi sono poi sinodi più ristretti (detti straordinari) e altri dedicati a una singola area geografica (detti speciali).

Il Sinodo dei vescovi è stato istituito da Paolo VI nel 1965 col motu proprio Apostolica sollicitudo, durante l’ultima fase del Concilio Vaticano II. Introdurre uno strumento di consultazione dei vescovi, seppure giocoforza ridotto rispetto a un concilio, pareva allora un modo per conservare e innestare permanentemente nella vita della Chiesa un elemento importante dell’esperienza conciliare.
Oggi il sinodo è un momento importante della vita della Chiesa, anche se è spesso criticato – oltre che per essere composto da soli vescovi – perché fortemente controllato dalla Curia, che redige i documenti preparatori su cui la discussione in assemblea spesso non riesce a incidere in modo sostanziale. Nel 2006, sotto il pontificato di Benedetto XVI venne emanato un regolamento che sostituiva i precedenti e introduceva alcune limitate riforme (per esempio riservando un certo spazio al libero confronto tra i membri).

Il seminario di studio del 2016

La costituzione apostolica di papa Francesco rivede complessivamente il funzionamento del Sinodo, pur conservandone gli elementi sostanziali. Per i dettagli, il documento rimanda a future istruzioni e regolamenti demandati alla Segreteria generale del sinodo (che è una sorta di comitato permanente a cui è demandata l’organizzazione delle assemblee).
Non mi pare sia stato ancora rimarcato che le principali novità ricalcano con notevole precisione le conclusioni di un seminario di studio organizzato dalla Segreteria generale del Sinodo nel febbraio del 2016, in cui già si adombrava l’idea di «una revisione della normativa sul Sinodo dei vescovi». Il breve comunicato riportato in questo link – che a sua volta si riferisce al discorso di papa Francesco per il 50° dell’istituzione del Sinodo – è denso e illuminante e andrebbe esaminato in dettaglio dagli studiosi. A sua volta, alcune delle innovazioni proposte dal comunicato del 2016 sono state tratte dall’esperienza dei sinodi sulla famiglia del 2014 e 2015.

Il proemio dottrinale: cenni di teologia del sinodo

Come si vede, il suggerimento di un «proemio dottrinale» è stato sostanzialmente seguito. L’introduzione della costituzione apostolica – non particolarmente ampia, ma molto più lunga rispetto al motu proprio di Paolo VI del 1965 – ha infatti un carattere prevalentemente storico e pastorale, ma al suo interno si possono rintracciare facilmente concetti teologici significativi.
Ciò vale prima di tutto per l’enunciazione iniziale per cui «La comunione episcopale (Episcopalis communio), con Pietro e sotto Pietro, si manifesta in modo peculiare nel Sinodo dei vescovi»: infatti – come è detto non molto più avanti – «la dimensione sovradiocesana del munus episcopale», se propriamente «si esercita in modo solenne nella veneranda istituzione del concilio ecumenico», tuttavia «si esprime pure nell’azione congiunta dei vescovi sparsi su tutta la terra, azione che sia indetta o liberamente recepita dal romano pontefice». Inoltre, si sottolinea che «il vescovo è contemporaneamente maestro e discepolo. Egli è maestro quando, dotato di una speciale assistenza dello Spirito Santo, annuncia ai fedeli la Parola di verità in nome di Cristo capo e pastore. Ma egli è anche discepolo quando, sapendo che lo Spirito è elargito a ogni battezzato, si pone in ascolto della voce di Cristo che parla attraverso l’intero popolo di Dio, rendendolo “infallibile in credendo”». Proprio in questo senso, «il Sinodo dei vescovi deve sempre più diventare uno strumento privilegiato di ascolto del popolo di Dio»: infatti, «benché nella sua composizione si configuri come un organismo essenzialmente episcopale, il Sinodo non vive pertanto separato dal resto dei fedeli. Esso, al contrario, è uno strumento adatto a dare voce all’intero Popolo di Dio proprio per mezzo dei vescovi»… «mostrandosi di assemblea in assemblea un’espressione eloquente della sinodalità come “dimensione costitutiva della Chiesa”».

La fase preparatoria: consultazione dei fedeli

In generale, i concetti espressi nella parte introduttiva servono a giustificare e contestualizzare quanto stabilito dalla parte dispositiva, in particolare le novità.

Tra esse, spicca sicuramente l’attenzione riservata alla consultazione dei fedeli, che viene definita come lo scopo della fase preparatoria del sinodo. Il risalto che viene dato a questa fase è fortemente innovativo. Si stabilisce che «la consultazione del popolo di Dio si svolge nelle Chiese particolari» (cioè nelle singole diocesi e quindi non solo a livello di conferenze episcopali), e anzi «in ciascuna Chiesa particolare i vescovi svolgono la consultazione del popolo di Dio avvalendosi degli organismi di partecipazione previsti dal diritto, senza escludere ogni altra modalità che essi giudichino opportuna» (nell’introduzione si afferma esplicitamente: «può rivelarsi fondamentale il contributo degli organismi di partecipazione della Chiesa particolare, specialmente il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale»).
Per i religiosi, se prima era prevista la mera consultazione dell’Unione dei superiori generali, ora si precisa che «le unioni, le federazioni e le conferenze maschili e femminili degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica consultano i superiori maggiori, che a loro volta possono interpellare i propri consigli e anche altri membri». Si aggiunge inoltre che «anche le associazioni di fedeli riconosciute dalla Santa Sede consultano i loro membri». dei suddetti Istituti e Società. Ma «la Segreteria generale del sinodo può individuare pure altre forme di consultazione».
Viene altresì previsto il «coinvolgimento degli istituti di studi superiori». Infine, viene sancito che «rimane integro il diritto dei fedeli, singolarmente o associati, di inviare direttamente i loro contributi alla Segreteria generale del sinodo»: ad onta della terminologia usata, si tratta di una prassi invalsa con il sinodo sulla famiglia, ma precedentemente sconosciuta.

Il ruolo della Segreteria generale

Altra possibilità prefigurata dal percorso sinodale sulla famiglia – in cui l’assemblea del 2014 è stata legata a quella del 2015 in un unico processo – è quella per cui «l’assemblea del sinodo può essere celebrata in più periodi tra loro distinti». Qui spicca il ruolo della Segreteria generale (sia pur «insieme al relatore generale e al segretario speciale dell’assemblea») di «promuovere lo sviluppo della riflessione sul tema o su alcuni aspetti di particolare rilievo emersi dai lavori assembleari». Va nella stessa direzione la possibilità (già verificatasi per il Sinodo sui giovani) di «promuovere la convocazione di una riunione presinodale con la partecipazione di alcuni fedeli» designati dalla Segreteria stessa.
Il rafforzamento complessivo della Segreteria generale del sinodo, pure auspicato dal documento del 2016 che parlava della possibilità di «prospettare in certo modo il carattere permanente dell’organismo sinodale» (concetto peraltro già introdotto nel regolamento del 2006), avviene non solo introducendo la figura del sottosegretario e assicurando esplicitamente la presenza di «un congruo numero di officiali e di consultori», ma con l’affermazione che la Segreteria è «competente nella preparazione e nell’attuazione delle assemblee del sinodo, nonché nelle altre questioni che il romano pontefice vorrà sottoporle per il bene della Chiesa universale».

Le assemblee del sinodo

La composizione del sinodo e la fase celebrativa dello stesso rappresentano probabilmente l’aspetto meno innovativo della costituzione apostolica, eccezion fatta per l’importante previsione per cui «secondo il tema e le circostanze, possono essere chiamati all’Assemblea del Sinodo anche alcuni altri, che non siano insigniti del munus episcopale [cioè: non vescovi], il ruolo dei quali viene determinato di volta in volta dal romano pontefice». Era una possibilità non esclusa dal Codice di diritto canonico (che parla semplicemente di “maggioranza di vescovi”), ma di fatto non sfruttata se non per l’inserimento di alcuni religiosi. Bisogna inoltre notare che l’elezione dei membri non viene normata in modo particolareggiato: l’istruzione applicativa potrà quindi contenere elementi innovativi.
Per il resto, se il documento del 2016 proponeva «un maggiore ascolto e coinvolgimento dei fedeli che partecipano all’assemblea sinodale… valorizzando ulteriormente la presenza nelle assemblee sinodali degli esperti e degli uditori», Episcopalis communio non pare indicare a tale proposito nuove piste; andrà piuttosto notato che viene recepito dal regolamento del 2006, e dalla prassi invalsa dall’anno precedente, il momento di «libero scambio di opinioni tra i membri».
Viene però rilevata l’importanza della dimensione liturgica nel sinodo stesso («È … necessario che, nel corso dei lavori sinodali, ricevano particolare risalto le celebrazioni liturgiche e le altre forme di preghiera corale, per invocare sui membri dell’Assemblea il dono del discernimento e della concordia. È altresì opportuno che, secondo l’antica tradizione sinodale, il libro dei vangeli sia solennemente intronizzato all’inizio di ogni giornata, rammentando anche simbolicamente a tutti i partecipanti la necessità di rendersi docili alla Parola divina, che è “Parola di verità” [Col 1, 5]»): una sottolineatura che andrebbe confrontata a quanto papa Francesco ha sovente rimarcato descrivendo l’esperienza della Conferenza dell’episcopato latinoamericano ad Aparecida.

La fase attuativa

È invece profondamente innovativo il fatto che la «fase attuativa» del sinodo, cioè l’«accoglienza e l’attuazione delle conclusioni dell’assemblea», sia considerata – così auspicava il documento del 2016 – «un momento interno al processo sinodale»: essa è demandata primariamente ai vescovi (anche qui è previsto «l’aiuto degli organismi di partecipazione previsti dal diritto») e coordinata dalle conferenze episcopali, che possono «predisporre iniziative comuni». È però prevista anche un’azione da parte della Segreteria generale – di concerto col dicastero vaticano pertinente –, che può costituire a tale scopo una commissione di esperti, predisporre studi e altre iniziative, ma anche, «con il mandato del romano pontefice, … emanare documenti applicativi, sentito il dicastero competente».

Il documento finale

Quest’ultima novità si lega all’altro elemento di particolare importanza introdotto da Episcopalis communio e giustamente rimarcato dai commentatori: cioè lo status del documento finale dell’assemblea.
Occorre ricordare che, fino al 2005, l’unico documento del sinodo che veniva pubblicato era il messaggio dei padri sinodali, generalmente un breve documento di carattere esortativo e di scarsa rilevanza dottrinale e pastorale.  L’assemblea sfociava sì in un «elenco finale delle proposizioni» formulate – in latino –, votate dai padri sinodali al termine del sinodo e «presentate alla considerazione del sommo pontefice»; ma tali proposizioni non erano di pubblico dominio. L’unico esito pubblico e ufficiale del sinodo era pertanto il documento post-sinodale emanato direttamente dal papa, normalmente uno-due anni dopo. La dialettica interna al sinodo e tra il sinodo e il documento papale rimaneva quindi completamente occultata.
Benedetto XVI fin dal 2005 autorizzò invece la pubblicazione delle proposizioni (seppure in «una versione in lingua italiana, provvisoria, ufficiosa e non ufficiale»), consuetudine da allora invalsa. Al sinodo del 2014 vi fu un’ulteriore importante innovazione: anzitutto, l’elenco delle proposizioni venne sostituito da una «relazione del sinodo»; questo non solo fu pubblicato, ma vennero anche riportati i voti ottenuti dai singoli paragrafi. Il fatto è tantopiù rilevante perché quella relazione venne poi a costituire il documento preliminare per il sinodo del 2015. Anche nel 2015 la relazione finale venne pubblicata con i voti ottenuti dai singoli punti.

La nuova costituzione apostolica prevede invece che «se approvato espressamente dal romano pontefice, il documento finale partecipa del magistero ordinario del successore di Pietro». Inoltre «qualora poi il romano pontefice abbia concesso all’Assemblea del sinodo potestà deliberativa, a norma del can. 343 del Codice di diritto canonico, il documento finale partecipa del magistero ordinario del successore di Pietro una volta da lui ratificato e promulgato. In questo caso il documento finale viene pubblicato con la firma del romano pontefice insieme a quella dei membri». Occorre ricordare che la possibile potestà deliberativa dell’assemblea sinodale era già stata indicata nell’Apostolica sollicitudo di Paolo VI, ma non era mai stata applicata. Ora, comunque, si stabilisce che, sia pure a seguito dell’approvazione del papa, oppure della ratifica e promulgazione da parte dello stesso, il documento finale del sinodo gode di per sé dell’autorità di un documento papale. Ciò conferisce, com’è evidente, una dignità precipua al percorso sinodale: certo senza impedire in alcun modo al papa di pubblicare un proprio documento che ne recepisca il frutto (anzi, ciò si renderà probabilmente necessario qualora si tratti di introdurre innovazioni giuridiche specifiche), ma conferendo al Sinodo – cum Petro et sub Petro – la pienezza di quel valore che era affermato fin dalla sua origine, nel seno stesso del concilio Vaticano II.

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Da Müller a Ladaria Ferrer: un “cambio” naturale ma non scontato alla Congregazione per la dottrina della fede

3 luglio 2017

La sostituzione del card. Müller con mons. Ladaria Ferrer come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il più importante dicastero vaticano, non è in alcun modo “spoil system”. In primo luogo perché Müller è arrivato alla conclusione naturale del suo mandato quinquennale. In secondo luogo perché lo spagnolo Ladaria Ferrer è il suo successore più naturale: segretario – cioè “numero due” – della Congregazione, nominato come Müller da Benedetto XVI già nel 2008, dopo una “carriera” da teologo tutta romana, prima alla Pontificia università gregoriana poi nella stessa Congregazione.

L’avvicendamento di Müller  è stato annunciato dal Vaticano sabato 1° luglio dopo una giornata di voci sempre più insistenti, le prime nel sottobosco dei blog tradizionalisti. La tempistica ha fatto pensare a molti osservatori che la fonte fosse lo stesso Müller, che era stato ricevuto in udienza dal papa proprio venerdì 30 giugno.
Müller, beninteso, è un personaggio poliedrico: non si può considerare un conservatore a tutto tondo, né tantomeno un tradizionalista. Vanno ricordate, per esempio, le sue aperture e i suoi gesti nei confronti degli esponenti della teologia della liberazione. Nel serrato dibattito che dura dalla pubblicazione di Amoris laetitia sicuramente ha promosso un’interpretazione “continuista” dei passi più discussi, diversa da quella a cui papa Francesco ha dimostrato di accordare favore; mentre nel dibattito del sinodo sulla famiglia del 2015 è stato – insieme ad altri esponenti di primo piano della Curia come Pell e Sarah – tra i firmatari della “lettera dei 13 cardinali” (alcuni poi, non lui, negarono di averla sottoscritta) che protestavano per alcune procedure sinodali.

Un altro momento irrituale fu la sua dichiarazione, nell’aprile del 2015, per cui la Congregazione per la dottrina della fede aveva il compito di “strutturare teologicamente” un pontificato. Poco prima, peraltro, aveva pubblicato un articolo piuttosto strutturato sui “Criteri teologici per una riforma della Chiesa e della Curia romana”, mostrando un’adesione convinta al progetto di riforma di Francesco e mettendone in evidenza la continuità con gli intenti di Benedetto XVI.
Più che le singole posizioni espresse, può essere che sia stato il piglio piuttosto presenzialista di Müller a convincere papa Francesco a non rinnovare il suo incarico. Forse, invece, hanno avuto un ruolo decisivo le accuse alla Congregazione per la dottrina della fede di conservare ancora zone d’ombra in cui si annidavano efficaci resistenze alla “linea dura” del Vaticano – inaugurata, beninteso, da Benedetto XVI – contro la pedofilia nel clero (in particolare rispetto alla deposizione dei vescovi negligenti): sono di poche settimane fa le dichiarazioni molto dure di Marie Collins in polemica col card. Müller dopo le dimissioni della Collins dalla Commissione per la tutela dei minori istituita nel 2014.

Ladaria Ferrer ha un profilo dottrinalmente moderato e personalmente riservato. Certo è un gesuita, come Francesco, cosa che rendeva per alcuni improbabile la successione. Da lui è lecito attendersi una discontinuità nell’atteggiamento più che nella posizione dottrinale. Sarà interessante osservare chi sarà il nuovo segretario della Congregazione: probabilmente sarà nominato dopo una consultazione con lo stesso Ladaria Ferrer: un altro segno di un avvicendamento “fisiologico” anche se non scontato.


La prima riforma di papa Francesco

17 aprile 2013

Dal “consiglio degli otto” nominato dal papa può nascere un cambiamento della Chiesa nel segno della collegialità conciliare. La sola ipotesi che la riforma della Curia sia promulgata il 4 ottobre, festa di San Francesco, ne lascia intendere il valore epocale.

Sabato 13 aprile il Bollettino della Sala stampa della Santa Sede ha annunciato che papa Francesco “ha costituito un gruppo di cardinali per consigliarlo nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della costituzione apostolica Pastor bonus sulla Curia romana”.
L’annuncio avviene mediante un comunicato della Segreteria di Stato, e proprio il giorno dopo che il papa aveva visitato gli uffici e i dipendenti della Segreteria. Delicatezze formali – confermate dall’understatement mostrato dal portavoce della Santa Sede, padre Lombardi, nel commentare l’annuncio – che indicano, anziché nascondere, il punto cruciale: il papa intende lavorare immediatamente a una riforma della Curia mediante uno snello gruppo di lavoro completamente distinto dalla Curia stessa. Ma il compito dei nominati non si limita a questo, anzi è in primo luogo una funzione di “consiglio nel governo della Chiesa universale” che sembra alludere in modo trasparente a un organismo permanente, del tutto nuovo: la riforma non è unicamente annunciata, ma inizia già.
La data, a un mese esatto dall’elezione, non è casuale: indica una cadenza ravvicinata ma al tempo stesso ragionata, stabilita con pacata decisione.

L’articolo continua qui, su BoDem.


Ancora sulla rinuncia di Benedetto XVI

6 marzo 2013

Ieri è stato pubblicato su BODEM, la nuova rivista online diretta da Salvatore Vassallo, un mio articolo sulla rinuncia di Benedetto XVI al pontificato: lo trovate qui.
Ovviamente vi consiglio la lettura dell’intera rivista e vi segnalo fin d’ora l’assemblea di BODEM aperta al pubblico sabato 16 marzo a Ca’ La Ghironda (Zola Predosa), dalle 10 alle 13.


Sulla possibile anticipazione del conclave

17 febbraio 2013

Si sta discutendo molto su quale sarà la data d’inizio del conclave. Ieri p. Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede, ha ammesso che non si esclude che esso possa venire anticipato, sulla base del fatto che i quindici giorni d’intervallo previsti, che intercorrono dall’inizio della sede vacante (ma la costituzione apostolica Universi dominici gregis dice solo “dalla morte del papa”: il caso di dimissioni, pur previsto genericamente, su questo punto non è normato), servono per attendere i cardinali elettori assenti (per la stessa ragione il periodo può essere prolungato fino a venti giorni). Se quindi i cardinali fossero tutti presenti prima, la norma potrebbe legittimamente considerarsi accantonata.

Mi sembra tuttavia che occorra guardare con più attenzione alle operazioni previste durante la sede vacante, prima dell’inizio del conclave: fatta eccezione, naturalmente, per quelle relative alla morte e alle esequie del papa, tutte le altre dovranno infatti essere applicate.
Anzitutto e in generale, la norma vigente (che è sempre la costituzione apostolica Universi dominici gregis promulgata nel 1996 da Giovanni Paolo II) stabilisce che al collegio dei cardinali, nel tempo in cui la Sede apostolica è vacante, è affidato il governo della Chiesa … e per la preparazione di quanto è necessario all’elezione del nuovo pontefice. Questo compito dovrà essere svolto nei modi e nei limiti previsti da questa costituzione”.

Se infatti gli “affari ordinari”, anzi “le questioni di minore importanza”, vengono demandate a un organismo ristretto, detto “congregazione particolare”, composto dal camerlengo e da tre cardinali estratti a sorte tra quelli già presenti e sostituiti con lo stesso metodo ogni tre giorni, le questioni importanti sono sottoposte alle “congregazioni generali“, ovvero alle assemblee quotidiane di tutti i cardinali già giunti a Roma (compresi, se lo desiderano, gli ultraottantenni – quelli che non potranno cioè eleggere il futuro papa). Il giorno della prima congregazione generale viene stabilito “dal camerlengo di santa romana Chiesa e dal primo cardinale di ciascun ordine tra gli elettori”: da quel momento sarà convocata una congregazione tutti i giorni.
E’ molto significativo che il primo atto della prima congregazione generale debba essere il giuramento – per l’intero organismo e per i singoli cardinali (i ritardatari lo pronunceranno al loro arrivo) – “di osservare esattamente e fedelmente tutte le norme, contenute nella costituzione apostolica Universi dominici gregis”. Un dovere che non è da intendersi in senso esclusivamente passivo: a ciascuno dei cardinali dev’essere data immediatamente una copia della costituzione apostolica, insieme alla “possibilità di proporre eventualmente questioni circa il significato e l’esecuzione delle norme nella stessa stabilite”. In sostanza, è l’intero collegio cardinalizio a portare la responsabilità della corretta e compiuta esecuzione di queste norme. In particolare, le congregazioni generali dovranno prendere una serie di decisioni in preparazione all’elezione del futuro papa (si parla infatti di “congregazioni preparatorie”).
Da un lato ci sono tutte le operazioni relative alle esequie del pontefice defunto, che in questo caso naturalmente non saranno applicate. Tutte le altre, invece, rimangono necessarie: si tratta in particolare dell’annullamento dell’anello e del sigillo del papa; della predisposizione degli alloggi per i cardinali e della Cappella Sistina (che spetterà esecutivamente a una commissione, “composta dal cardinale camerlengo e dai cardinali che svolgevano rispettivamente l’ufficio di segretario di Stato e di presidente della Pontificia commissione per lo Stato della Città del Vaticano”); dell’attribuzione per sorteggio degli alloggi ai singoli cardinali; dell’indizione di due meditazioni sulla situazione della Chiesa e della scelta dei “due ecclesiastici di specchiata dottrina, saggezza ed autorevolezza morale” che dovranno tenerle. Infine, spetta alle congregazioni generali stabilire “giorno e ora dell’inizio delle operazioni di voto.
Sarà quindi solo la congregazione generale dei cardinali a stabilire la data dell’inizio del conclave vero e proprio, e in particolare a decidere se occorra mantenere l’intervallo di quindici giorni dall’inizio della sede vacante o se tale intervallo possa essere ridotto, nel caso che tutti i cardinali siano già arrivati in Vaticano. E l’unico atto che potrebbe essere legittimamente deciso prima del 28 sarebbe un invito informale ai cardinali elettori a recarsi a Roma. Secondo la norma vigente, quindi, come abbiamo visto, è formalmente impossibile che la data d’inizio conclave venga decisa prima dell’inizio della sede vacante: è molto probabile anzi che essa venga fissata solo qualche giorno dopo. L’anticipazione al 10 marzo – una delle ipotesi comparse su alcuni organi d’informazione – è sicuramente nel novero del possibile: ma potremo saperlo unicamente nei primi giorni di marzo.
 
Certo, nulla vieta che papa Benedetto XVI, prima delle dimissioni e nel pieno dei propri poteri, impartisca disposizioni – per esempio, mediante la promulgazione di un motu proprio – che vadano a modificare quelle vigenti. Mi sembra però che un simile atto (che potrebbe spettare, assolutamente, soltanto al papa) sia piuttosto improbabile: in particolare, è difficile che papa Ratzinger decida di intaccare  prerogative che attualmente spettano, tutte intere, al collegio cardinalizio. Il paragone con l’atto con cui Benedetto XVI nel 2007 ha introdotto modifiche per l’elezione del suo successore (come del resto gran parte dei suoi predecessori) è assolutamente improprio: nessuna di queste modifiche è mai stata fatta nell’imminenza della fine del pontificato.
Fra l’altro, se la preoccupazione è quella che possa essere il nuovo papa a celebrare i riti della Settimana Santa, bisogna tener presente che, iniziando regolarmente il conclave il 15 marzo e rispettando le norme vigenti, sarebbero a disposizione oltre 20 votazioni per eleggere il papa entro la domenica delle Palme, e svariate di più per eleggerlo entro l’inizio del Triduo Pasquale. Ed è oltre un secolo e mezzo che il papa viene sempre eletto prima della quindicesima votazione. Senza contare che non è affatto detto che ridurre il tempo a disposizione dei cardinali prima dell’inizio del conclave si traduca effettivamente in un abbreviamento del conclave stesso. Più giorni di consultazione, riflessione e preghiera tra i cardinali potrebbero al contrario essere utili per una scelta che la stragrande maggioranza degli elettori non si aspettava così imminente.
Ma qui si aprirebbe il capitolo su come le diverse tempistiche potrebbero influire sulla designazione del successore di Benedetto XVI: una questione da cui tutti comprendono quanto papa Ratzinger intenda  rimanere completamente fuori. La decisione di rimanere lontano da Roma dal momento delle dimissioni, e per due mesi, è abbastanza indicativa in questo senso. Più in generale, la decisione delle dimissioni – inaudita da molti secoli – pone inevitabilmente di fronte a situazioni inedite e delicate, a nodi non normati che appare utile risolvere mediante un’interpretazione ragionevole delle norme vigenti: interventi normativi ad hoc, apparentemente risolutivi, potrebbero porre non solo problemi di opportunità, ma anche di coerenza e d’interpretazione rispetto al corpus finora sedimentato.

Postilla del 20/2:
Oggi Tornielli su VaticanInsider riferisce che sarebbe imminente la firma da parte di Benedetto XVI di un breve motu proprio che darebbe ai cardinali la facoltà di anticipare l’inizio del conclave. In questo caso la modifica della norma vigente non intaccherebbe la titolarità delle congregazioni dei cardinali sui tempi del conclave, lasciando la decisione alla libera discussione dei cardinali (a maggioranza assoluta dei presenti, come osserva Tornielli): tra i quali sono già stati formulati pubblicamente pareri discordanti sul punto.
Nota delle 15.00: P. Lombardi, direttore della Sala stampa della Santa Sede, ha confermato – con una certa freddezza, mi verrebbe da dire – la possibilità della pubblicazione del motu proprio, di cui Benedetto XVI sta valutando l’opportunità.

Dopo le dimissioni: questioni vaticane

13 febbraio 2013

Nel testo è stata aggiunta qualche postilla.

Benedetto XVI si è “dimesso” o ha “abdicato”?

Il termine più corretto è “rinuncia all’ufficio”, dove “l’ufficio” è quello di vescovo di Roma. Il papa, infatti, altri non è che il vescovo di Roma, a cui secondo la dottrina cattolica spetta il compito di presiedere all’unità della Chiesa e all’integrità della fede, e di conseguenza – secondo quanto fissato in ultimo dal Concilio Vaticano I nel 1870 – il primato di potestà di giurisdizione, a cui tutti i pastori e tutti i fedeli sono sottomessi sia nelle questioni relative alla fede e ai costumi sia in quanto relativo alla disciplina e al governo della Chiesa. Solo in virtù del suo essere vescovo di Roma il papa è, tra l’altro, la suprema autorità dello Stato della Città del Vaticano.

Come si chiamerà Benedetto XVI dopo il 28 febbraio?

Alle ore 20.00 del 28 febbraio Benedetto XVI cesserà dal pontificato e tornerà a essere semplicemente il cardinal Joseph Aloisius Ratzinger (teoricamente potrebbe presentare al successore una rinuncia al cardinalato, ma la cosa è assolutamente improbabile). C’è tuttavia un aspetto formale problematico: il titolo cardinalizio che possedeva prima di essere eletto papa, quello della sede di Velletri-Segni, fu attribuito dopo pochi giorni al card. Arinze, che tuttora lo conserva. Occorrerà verosimilmente attribuirgli un altro titolo, forse tra i cosiddetti “cardinali vescovi” (quelli che prendono la denominazione dalle diocesi suburbicarie di Roma e costituiscono l’ordine più “elevato” dei cardinali): tali titoli sono però attualmente tutti occupati da altri cardinali. Si dovrà ricorrere, almeno provvisoriamente, al titolo di un “cardinale presbitero” (che prendono la denominazione dalle  chiese della città di Roma: com’è noto, infatti, un tempo i cardinali altri non erano che i preti e i diaconi romani, nonché i vescovi delle diocesi della periferia, a cui spettava il compito di eleggere il loro capo).
In ogni caso, come ha già ipotizzato p. Lombardi, la qualifica di Ratzinger sarà molto probabilmente quella di “vescovo emerito di Roma”.

postilla (13 febbraio): Leggo ora che Andrea Tornielli, su VaticanInsider, sostiene che Ratzinger non sarebbe più cardinale, in quanto con l’elezione a papa (o meglio, con l’accettazione della carica) non farebbe più parte del collegio cardinalizio. La cosa mi sembra molto discutibile (e anche Tornielli ammette che in effetti la cosa è discussa tra i canonisti). Il cardinalato viene attribuito dal papa; solo l’interessato può rinunciarvi, comunicandolo al papa regnante. Naturalmente Ratzinger non ha mai fatto tale rinuncia. L’elezione a papa influisce sulla qualifica di cardinale? Essere eletto papa significa essere eletto vescovo di Roma. Esattamente come un altro cardinale può essere eletto vescovo di un’altra città, senza per questo perdere la dignità cardinalizia. Per esempio, il card. Tettamanzi che da arcivescovo di Genova; è diventato arcivescovo di Milano, o dopo di lui il card. Scola, da patriarca di Venezia.
È vero che il cardinale eletto papa perde il titolo cardinalizio che aveva: ma questo dovrebbe essere attribuito al fatto che la chiesa di cui diventa titolare è la cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano, in cui viene insediato – si tratta addirittura di una tautologia. Non per questo cessa di appartenere al “clero di Roma”, che è appunto ciò che in origine e in radice contraddistingueva i cardinali. Mi sembra che sia dal punto di vista storico-teologico, sia da quello canonico, sia quindi molto difficile sostenere che Joseph Ratzinger, una volta effettive le dimissioni da papa, non disporrà della dignità cardinalizia. Del resto un redazionale dello stesso VaticanInsider riporta l’opinione della storica Cataldi Gallo per cui è palese che Ratzinger tornerà a rivestire la porpora cardinalizia.
Altra postilla (15 febbraio): Oggi Luigi Accattoli sul Corriere scrive che “probabilmente papa Ratzinger tornerà cardinale e vestirà la porpora”. P. Lombardi ha affermato invece che continuerà a chiamarsi Benedetto XVI, essendo un titolo “inalienabile”, pur ricordando che la questione è ancora allo studio. Nutro francamente dei dubbi.

 Quando si terrà l’inizio del conclave?

Nella conferenza stampa di lunedì, p. Lombardi sembrava accennare alla possibilità di una partenza del conclave già il 1° marzo, il giorno immediatamente successivo a quello in cui le dimissioni saranno effettive. È probabile che nei primissimi giorni di marzo il conclave venga indetto, ma non che esso inizi effettivamente. La normativa attuale, che pure prevede che il papa possa rinunciare al suo ministero, quando tuttavia definisce l’indizione del conclave fa riferimento solamente al caso di morte del papa: il conclave deve tenersi “il quindicesimo giorno dalla morte del pontefice”, per “attendere per quindici giorni interi gli assenti”: per “motivi gravi” questo intervallo può essere portato fino a venti giorni, ma non oltre. Si pensa che questo intervallo di quindici giorni – che in gran parte, nel caso di morte del papa, è impiegato per celebrare le sue esequie, che durano nove giorni, i cosiddetti novendiali – sarà rispettato anche in questo caso. Le “congregazioni preparatorie”, cioè le riunioni dei cardinali che precedono il conclave vero e proprio – e che si svolgono anche negli stessi giorni delle esequie del papa – potrebbero invece svolgersi subito dopo il 28. Sembra del tutto improbabile che lo stesso papa Benedetto XVI, in questi ultimi giorni di pontificato, possa dare disposizioni anche semplicemente organizzative per preparare il conclave. Certamente la convocazione del conclave – che spetta al decano del collegio cardinalizio, il card. Sodano, che non è tra gli elettori avendo più di 80 anni – non potrà essere fatta prima del momento in cui le dimissioni di Benedetto XVI saranno effettive, cioè le ore 20.00 del 28 febbraio: non pare canonicamente possibile l’indizione di un conclave finché la sede non è vacante, mentre il papa è ancora, sia pur per poco, “felicemente regnante”. In conclusione, la data più probabile per l’inizio del conclave è il 15 marzo.

Chi parteciperà al conclave?

La risposta a questa domanda è assolutamente certa fin da ora. Gli elettori sono i cardinali, “a eccezione di quelli che, prima del giorno […] in cui la sede apostolica resti vacante, abbiano già compiuto l’80° anno di età”. L’esclusione dei cardinali ultraottantenni è una disposizione recente, dovuta a Paolo VI. Ciò significa che resteranno esclusi tutti i cardinali che il 28 febbraio avranno già compiuto 80 anni; potranno entrare in conclave tutti gli altri, anche se dovessero compiere 80 anni prima dell’ingresso nel conclave. Potrebbe essere il caso del cardinale tedesco Kasper, che compie 80 anni proprio il 5 marzo: contrariamente a quanto riportato da alcune fonti, sarà sicuramente un elettore. Mentre il più giovane degli esclusi sarà il cardinale ucraino Husar, che festeggerà l’ottantesimo compleanno il 26 febbraio, appena due giorni prima delle dimissioni di Benedetto XVI. Per quanto si prolunghi il conclave, il “corpo elettorale” rimarrà sempre gli stessi, salvo naturalmente il caso di morte; teoricamente, per gravi motivi di salute alcuni cardinali potrebbero comunque non partecipare al conclave (il cardinale tedesco Lehmann, per esempio, è seriamente infermo) o – nel caso più improbabile in cui le condizioni si aggravino dopo l’arrivo in conclave – non prendere parte a tutte o alcune delle votazioni.
postilla (15 febbraio): Ieri pomeriggio il Vatican Information Service ha ammesso e corretto l’errore di lunedì 11 su questo punto, quando aveva affermato che il numero degli elettori sarebbe dipeso dalla data d’inizio del conclave.

Ratzinger parteciperà al conclave?

La possibilità che il card. Ratzinger, dopo le dimissioni, prenda parte al conclave è stata immediatamente esclusa: non si tratta solo di un’opportuna e saggia scelta di Benedetto XVI, che dopo le dimissioni si allontanerà anche fisicamente dal Vaticano, andando a risiedere temporaneamente a Castel Gandolfo (e ritornando, pare, solo quando saranno terminati i lavori in corso presso quello che – come ora si è compreso – sarà il suo nuovo alloggio, l’ex monastero di clausura interno alle Mura Vaticane; anche se oggi si ventila la possibilità che qualcuno possa consigliare all’ex papa un alloggio fuori del Vaticano). Soprattutto, infatti, bisogna ricordare che Joseph Ratzinger ha comunque 87 anni e non sarebbe in nessun caso computabile tra i cardinali elettori.
Teoricamente, invece, il card. Ratzinger potrebbe partecipare alle riunioni preparatorie del collegio dei cardinali, in cui sono inclusi anche gli ultraottantenni, che si tengono prima del conclave e a cui spetta “il disbrigo degli affari ordinari o di quelli indilazionabili” e “la preparazione di quanto è necessario all’elezione del sommo pontefice”. Se Ratzinger posticipasse di pochi giorni la sua partenza dal Vaticano vi parteciperebbe a pieno diritto. Appare però del tutto improbabile che ciò avvenga, tantopiù considerato che ai cardinali non elettori “è concessa la facoltà di astenersi” da tali riunioni.

Quando verrà eletto il nuovo papa?

Molti danno per certo che il nuovo papa sarà eletto in tempo perché possa celebrare i riti della Settimana Santa o almeno del Triduo Pasquale. Tutto dipende da quando sarà fatto cominciare il conclave (vedi sopra) e naturalmente da quanto durerà. Bisogna tener conto che, a parte il primo giorno, nel quale si tiene al massimo un’unica votazione, nei giorni successivi vi saranno – fino a elezione avvenuta – quattro elezioni al giorno (due al mattimo e due al pomeriggio). Dopo tre giorni vi sarà una pausa di al massimo un giorno, pausa che si replicherà successivamente – in caso di mancata elezione – dopo ulteriori sette votazioni, e così via. Anche nel caso che si rispettino i 15 giorni previsti in caso di morte del papa, e quindi che il conclave si apra solo il 15 marzo, e che le pause previste vengano fatte durare un giorno intero, prima della domenica delle Palme (che cade il 24, mentre il giovedì santo è il 28) i cardinali avrebbero a disposizione 25-26 votazioni per eleggere il nuovo papa.
Sono oltre 150 anni che il conclave si protrae al massimo fino alla quattordicesima votazione (avvenne nel 1922 e terminò con l’elezione di Pio XI), spesso molto meno. Anche se non può esservi alcuna certezza, è evidente che ci sono forti probabilità che il nuovo papa possa effettivamente presiedere i riti non solo del Triduo Pasquale ma dell’intera Settimana Santa, anche se un’elezione fortemente a ridosso dei giorni santi potrebbe creare un problema di cerimoniale, non secondario: trovare il tempo per la presa di possesso della sede episcopale di Roma, cioè l’insediamento vero e proprio del nuovo vescovo sullla cattedra di san Pietro in San Giovanni in Laterano. Sempre, ovviamente, che non accada come nel 1830, quando il conclave si protrasse per 83 votazioni prima che ne risultasse eletto Gregorio XVI.

Con quanti voti verrà eletto il nuovo papa?

 Tra le innovazioni decise da Giovanni Paolo II per l’elezione dei suoi successori, quella veramente importante fu una. La normativa tradizionale prevedeva che per l’elezione del papa fosse necessario il voto dei due terzi dei cardinali elettori. Papa Wojtyla stabilì che, a partire dalla trentesima votazione (cioè dopo 13 giorni di conclave) fosse sufficiente la maggioranza assoluta. Gli analisti osservano che, con questa nuova regola, è sufficiente dimostrare in conclave che un candidato raccoglie tale maggioranza: un tale “pacchetto” di voti, infatti, renderebbe impossibile la formazione di qualunque maggioranza alternativa durante le prime votazioni e, alla trentesima votazione, si tramuterebbe nel consenso sufficiente all’elezione del candidato. Se fin dalle prime votazioni si riesce quindi a far confluire su un candidato una quantità di voti vicina alla maggioranza assoluta, si produce inevitabilmente l’immediato abbandono delle candidature alternative e di conseguenza la rapida elezione di quel candidato, su cui a quel punto finiscono per confluire anche molti altri voti. Secondo molto osservatori, è proprio questo che si è verificato al conclave del 2005 che ha portato all’elezione di Benedetto XVI. 
Proprio papa Ratzinger ha presto abolito tale norma, ripristinando la necessità, senza eccezioni, della maggioranza dei due terzi dei voti. Viene introdotta tuttavia un’ulteriore innovazione: dopo il tredicesimo giorno di conclave, ciascuna votazione successiva prende la forma di un vero e proprio ballottaggio tra i due candidati che nella votazione precedente avevano riportato il maggior numero di voti (curiosamente, è stabilito altresì che da tale momento quei due candidati perdano il diritto di voto). Vedremo tra breve quali saranno gli effetti di questa novità.


L’ultima parola

11 febbraio 2013

Per avvertire l’eccezionalità dell’avvenimento di oggi, basti pensare che tra qualche secolo Benedetto XVI sarà ricordato per queste dimissioni molto prima che per tutto il resto. Il discorso di Ratisbona, le encicliche, i preti pedofili, Vatileaks… quando tutto questo sarà materia per gli specialisti, Joseph Ratzinger sarà anzitutto “il papa che si dimise”. Una decisione perfettamente prevista nella legislazione della Chiesa (da ultimo, col canone 332 § 2 del Codice di diritto canonico del 1983), ma assolutamente rara: il caso di Celestino V è il più celebre dei sette che si verificarono, l’ultimo nel 1415 con Gregorio XII, che così pose fine allo Scisma d’Occidente. Tempi in cui, non a caso, il potere e la figura del papa erano maggiormente immuni da quella retorica, cresciuta in età moderna, che, tantopiù dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità papale da parte del Concilio Vaticano I nel 1870, rendeva e  per molti (ma non per la Chiesa stessa) rende tuttora impensabile la sola idea delle dimissioni del papa.
Converrà osservare subito che quello di oggi non è stato un “annuncio”, ma una vera e propria dichiarazione (seppure anticipata) di dimissioni, un vero e proprio atto performativo – fatto di fronte ai cardinali riuniti in concistoro –, che compie ciò che dice. Il papa è ipso facto ufficialmente dimissionario, anche se le dimissioni avranno valore solo dalle 20.00 del 28 febbraio (anche il fatto che sia indicata l’ora esatta è significativo da questo punto di vista), e fino allora – come p. Lombardi ha precisato – permane nella pienezza dei poteri. Come precisa il diritto canonico, “nel caso che il romano pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti”. “Debitamente manifestata”: è precisamente quanto è avvenuto oggi, tanto che Benedetto XVI ha precisato che l’atto avviene in piena libertà. Non altro occorre né dobbiamo attendere. E con tutta evidenza non è possibile alcun ritorno indietro: non solo di fatto (come quando Giovanni XXIII annunciò la decisione di indire il Concilio Vaticano II), ma anche formalmente.
Esattamente dalle 20 di giovedì 28 – come viene esplicitamente detto – inizieranno quindi le procedure per il conclave, a norma della costituzione apostolica Universi dominici gregis del 1996: ovviamente senza tutto quanto si riferisce alla morte e ai lunghi funerali del pontefice, e delle modifiche successivamente emanate (la più importante: nel 2007 Benedetto XVI ha ripristinato la necessità che il papa sia eletto con la maggioranza di due terzi dei cardinali elettori, che dal ventinovesimo scrutinio avviene mediante ballottaggio dei due nominativi più votati). Se, dalla dichiarazione di Bendetto XVI, sembra di poter desumere che la convocazione ufficiale del conclave avverrà immediatamente dopo le dimissioni (impensabile che avvenga prima), non è immediatamente chiaro quale possa essere la data d’inizio del conclave vero e proprio: la norma parla infatti del “quindicesimo giorno dalla morte del pontefice” – un tempo in buona parte speso per le esequie del papa, che durano nove giorni, i cosiddetti novendiali –, e prorogabile di cinque giorni per l’eventuale attesa di cardinali assenti, e nulla dice su cosa avvenga nel caso il papa non sia defunto bensì dimesso. Mi sembra che la conferenza stampa di p. Lombardi non dia particolari delucidazioni su questo punto.
La tempistica e le modalità di quanto è avvenuto sembrano mostrare con chiarezza che l’atto ha sorpreso almeno la grande maggioranza dei cardinali e i dicasteri vaticani. Tuttavia, negli ambienti curiali quest’eventualità era considerata possibile e, da qualche mese, in qualche modo imminente.  Le stesse ultime nomine cardinalizie, e il loro carattere (sia pur moderatamente) “riequilibrativo” rispetto al precedente concistoro molto sbilanciato in favore di europei, italiani e curiali, erano state lette in qualche modo con gli occhi rivolti a un’eventualità di questo genere; e così pure talune indiscrezioni che erano circolate nei mesi precedenti, pur sotto la maschera deformante di una presunta imminenza della morte o – addirittura – dell’assassinio del papa. Ciò collima con quanto ha dichiarato oggi, con giusta semplicità, Georg Ratzinger, il fratello di Joseph.

Come è evidente, non occorre formalmente che il papa adduca alcuna motivazione per le sue dimissioni: anche per questo, quella che papa Ratzinger ha comunque ritenuto opportuno fornire rappresenta forse il tratto più impressionante – insieme al fatto stesso delle dimissioni – dell’evento di oggi. Il papa fa esplicito riferimento alla mancanza di “vigore del corpo e dell’animo”: non solo “del corpo”, che sarebbe stato più che sufficiente per giustificare le dimissioni. L’aumento dell’età media e il progresso della medicina facevano pensare che ci saremmo presto trovati di fronte, in media, a un prolungamento dei pontificati e all’aumento di situazioni spinose – come peraltro già avvenuto in passato – di senescenza papale: e probabilmente i successori di Benedetto XVI si sentiranno rafforzati, se del caso, nella decisione di dimettersi in caso di un lungo protrarsi di una situazione di grave malattia. Ma non sembra questo ciò che accade oggi: anche se sicuramente la declinante salute fisica di papa Ratzinger – quanto declinante lo dirà il futuro – ha giocato un ruolo determinante, non ci troviamo – p. Lombardi dice anche questo – di fronte a un papa gravemente malato che anticipa quanto sarebbe avvenuto con la morte imminente. Il caso è diverso. Un papa che manifesta la sua stanchezza “del corpo” e “dell’animo” – non “dello spirito”, si osserverà utilizzando la tradizionale ripartizione di san Paolo: secondo l’antropologia cristiana lo “spirito” è, in qualche modo, la presenza di Dio nella persona, e quella non può certo essere soggetta a stanchezza; e purtuttavia la debolezza d’“animo” non è precisamente, per intenderci, quanto si richiede ai santi, a cui pure non è ignoto quel genere di tristezze –, in misura tale da esserne indotto alla decisione di dimettersi: questa sì è una novità assoluta.
L’atto che rende la giornata di oggi, non solo per i cattolici, memorabile nei secoli, ha in sé una profonda umanità e un’imprevedibile modernità. Al momento dell’elezione di Benedetto XVI, molti sperarono che da un papa conservatore – meglio, da un ultraconservatore illuminato – venissero gesti di rottura. Ce n’è stato uno: l’ultimo, il più grande.


Quello sgambetto a Dossetti, anzi al Concilio

8 gennaio 2013

Molti cattolici bolognesi hanno letto la lettera del card. Re al card. Biffi – diffusa da quest’ultimo sicuramente con l’approvazione del primo – in cui venivano confermati i giudizi espressi nell’ultimo libro di Biffi su don Dossetti, in particolare sulla sua attività al concilio Vaticano II. La pubblicazione di quella lettera ha suscitato parecchie reazioni e, infine, un’esplicita scusa da parte dell’organo di stampa che l’aveva pubblicata (pronosticandone anche – redazionalmente – una grande importanza nel dibattito storico); e anche la stampa “laica” locale ha finito per occuparsi della questione, seppur con prevedibili semplificazioni.
Sbaglierebbe di grosso chi riconducesse la vicenda a una questione curiale tutta bolognese, magari riducendola a un’iniziativa personale o inserendola semplicemente in una storia – che pur si potrebbe scrivere – di nobili schermaglie o miseri dispetti tra vecchie conventicole locali di varia estrazione. Sbaglierebbe ancor più chi, magari per riflesso condizionato, ne volesse dare un’interpretazione politica, come se in discussione ci fosse il Dossetti politico e magari gli attuali raggruppamenti del cattolicesimo politico, specie bolognese, che a lui maggiormente e più o meno giustificatamente si riconducono. E sarebbe triste che per questa via dalle nostre parti qualcuno ne traesse una certa soddisfazione. Non solo per quel tanto di pettegolo che inevitabilmente ne trasudi; e neanche solo per il fatto che perseverare in una lettura prevalentemente politica della parabola di Dossetti rimane, a mio parere, sintomo di una miopia tantomeno perdonabile in campo cattolico.
La lettura sarebbe errata soprattutto perché, in questa vicenda, se è bolognese la casella che – volente o nolente, e più o meno consapevole – ha ospitato la mossa, la partita è squisitamente romana e, s’intende, squisitamente ecclesiale. E Dossetti ne è l’obiettivo solo apparente. Squalificando l’azione di Dossetti durante i lavori il concilio Vaticano II, fino a definirlo come “usurpatore” – un termine di singolare precisione – delle prerogative istituzionali del card. Felici, si insinua un dubbio di legittimità, sostanziale se non addirittura formale, su quei lavori stessi, e sui documenti che ne sono il duraturo frutto.
Il 2012 non è “solo” il centenario della nascita di Dossetti: è soprattutto il 50° dell’apertura del Concilio, uno dei motivi dell’indizione dell’Anno della fede. E proprio in questa occasione, in cui la ricorrenza sta riportando l’attenzione, con vigore forse inatteso, sull’evento del Concilio, sui suoi documenti e sul suo significato; proprio mentre dal papa stesso giunge il ripetuto invito a tornare alla “lettera” del Concilio studiandone i documenti e approfondendone il significato con l’applicazione di una corretta ermeneutica, ecco che proprio il testo conciliare viene messo nei fatti in discussione. Da un lato Benedetto XVI conferma la fiducia nel Concilio e ne propugna – come dall’inizio del suo pontificato –  un’interpretazione che inserisca “la riforma” da esso operata contestualizzandola “nella continuità” rispetto al magistero precedente, così da fare giustizia di quelle che vede come possibili deviazioni, per esempio in senso progressista. Dall’altro, nel seno stesso della Chiesa, come malfidando nell’operazione papale o presupponendone insufficienti gli esiti, si viene ad attaccare il Concilio stesso, delegittimandone – con singolare precisione di mira – un punto nevralgico, ossia il suo stesso meccanismo deliberativo. Il fatto che tale operazione – stando a quel che si legge – venga condotta nella Positio della causa di beatificazione di Paolo VI (ma su questo avremmo bisogno di leggere qualcosa di più che un vago accenno) – vi getta una luce ancor più inquietante, dal momento che proprio le deliberazioni conciliari approvate e suggellate da quel papa sarebbero soggette a questa sorta di sussurrata invalidazione.
Ulteriori considerazioni si potrebbero formulare: non da ultimo, che il denunciare il carattere presuntamente “politico” di una decisione ecclesiale (ma perché non applicare lo stesso criterio ad altri atti di giurisdizione e di governo?) contraddice in nuce la logica divino-umana dell’incarnazione che alla Chiesa stessa presiede. Ma basti qui notare che questo tipo di argomentazione che, con l’apparenza di difendere quanto nella Chiesa vi è di più sacro, invece la svuota e l’indebolisce internamente come un cancro, era finora – e segnatamente nella sua applicazione al Vaticano II – patrimonio di frange ultra-tradizionaliste ad elevato sospetto di non-cattolicità. Questo suo rinvenimento mostra la permeabilità, rispetto a talune tendenze, di argini che, pur all’interno di un dibattito vivace come quello sull’ermeneutica del Concilio, si credevano ben solidi. Non è solo la pronta risoluzione del pur doloroso episodio “bolognese”, naturalmente, a convincere che non praevalebunt.


Baci sui Martedì

1 marzo 2012

Settimana ricca. Appena ieri segnalavo l’articolo scritto a quattro mani con Simone Sereni e pubblicato su VinoNuovo (precisamente qui) che, come potete vedere, ha suscitato una discreta serie di commenti.

Oggi, sono lieto di informarvi che una versione appena riveduta e corretta del mio articolo sulla campagna UNHATE di Benetton e sul Vaticano, che era apparso qui su Pentagras a dicembre, è stata pubblicata sulla bella rivista bolognese I martedì, col titolo “Solo un bacio?” (pp. 44-48).
Per i fans più sfegatati (?), la rivista è in vendita a Bologna all’edicola del Meloncello (v. Irma Bandiera 26) e all’edicola Petroni (v. Vittorio Veneto 22).


Quell’apostrofo roseo tra Benetton e il Vaticano

15 dicembre 2011

Il «lancio» è ormai terminato, e così pure i clamori: forse possiamo ragionarci su con un po’ di calma. Parliamo dell’ultima campagna di casa Benetton, riassumibile nel neologismo «UNHATE» che fa al tempo stesso da titolo e da slogan di un’unica parola. «UNHATE», un «non odiare» che assuona, nel prefisso, anche alle Nazioni Unite (UN) e naturalmente al più antico e duraturo United Colors of Benetton. La campagna non si presenta direttamente come una campagna pubblicitaria, bensì come l’iniziativa della Unhate Foundation, ente «voluto e fondato» dal gruppo Benetton per «contribuire alla creazione di una nuova cultura di tolleranza». Naturalmente il logo del gruppo è ben visibile, anche se non invasivo, come nella tradizione Benetton.

La campagna raffigura fotomontaggi ben riusciti ritraggono coppie di leaders mondiali avversari – o presunti tali – mentre si baciano sulle labbra. Quella che fa più scalpore raffigura Benedetto XVI e Ahmed Mohamed el-Tayeb, l’imam della grande moschea di Al-Azhar: scalpore che sembra cercato, anche perché la gigantografia – analogamente ad altre fatte comparire nelle principali città del mondo, con quelle che sono state definite dai promotori guerrilla actions, termine tipico delle campagne d’impegno sociale – è stata affissa proprio a Ponte Sant’Angelo, a un passo dal Vaticano. Che reagisce con notevole rapidità: esprime via comunicato della Sala stampa «una decisa protesta per un uso del tutto inaccettabile dell’immagine del Santo Padre, manipolata e strumentalizzata nel quadro di una campagna pubblicitaria con finalità commerciale», considerata «una grave mancanza di rispetto per il Papa, …un’offesa dei sentimenti dei fedeli, …una dimostrazione evidente di come nell’ambito della pubblicità si possano violare le regole elementari del rispetto delle persone per attirare attenzione per mezzo della provocazione». La Santa Sede ventila la possibilità di un’azione legale; in un comunicato successivo – stavolta a firma della Segreteria di Stato – afferma di aver effettivamente demandato ai propri legali «di intraprendere, in Italia e all’estero, le opportune azioni al fine di impedire la circolazione, anche attraverso i mass media, del fotomontaggio». Ciò nonostante i promotori della campagna si affrettino a dichiararsi «dispiaciuti che l’utilizzo dell’immagine del Papa e dell’imam abbia urtato la sensibilità dei fedeli» e a ritirare immediatamente l’immagine «da ogni pubblicazione». Anche un consigliere dell’imam, infatti, ha definito il fotomontaggio «irresponsabile e assurdo», aggiungendo che al-Azhar «non sa ancora se questa immagine merita una risposta, tanto è poco seria». Superfluo aggiungere che l’immagine, ormai, ha già fatto il giro del mondo.
Tra le altre reazioni alla campagna, spicca quella della Casa Bianca, che, come riporta un comunicato, «disapprova l’uso dell’immagine del presidente Barack Obama» – ritratto in un bacio col premier cinese Hu Jintao – per motivi commerciali. Mentre il presidente francese Sarkozy pare abbia reagito in modo positivo: del resto, il suo bacio con la cancelliera tedesca Angela Merkel sembra di gran lunga il meno politically uncorrect. Ma pare che la coppia sia il frutto della scomposizione di due decisamente meno innocue, poi venute a mancare per sopravvenuta scomparsa (politica in un caso, anche fisica nell’altro) dei due partner.

Toscani contro

L’idea è sicuramente geniale per la sua semplicità, anche pratica: per realizzarla serve solo qualche fotomontaggio ben fatto; il che consente di concentrare il budget della campagna sulla diffusione, potendo contare fra l’altro sull’effetto moltiplicatore innescato sia dal riverbero sui media, sia da meccanismi di tipo virale. Iniziano anche a circolare imitazioni e parodie, che in questi casi sono la cartina di tornasole del successo. Nell’ambiente della comunicazione, peraltro, agli apprezzamenti si sono frammiste le critiche.
Quel che è certo è che la campagna sembra segnare il ritorno allo stile che avevamo imparato ad associare a Benetton dai tempi di Oliviero Toscani: immagini a vario titolo provocatorie che veicolano un messaggio di tipo sociale. Stavolta la veste – con la creazione, addirittura, di una fondazione costituita all’uopo dal gruppo Benetton – è ben confezionata: l’iniziativa – di cui la campagna rappresenterebbe, secondo i promotori, solo il momento iniziale – è presentata come una questione di «strategia di responsabilità sociale del gruppo: non un esercizio cosmetico, ma un contributo che intende avere un impatto reale sulla comunità internazionale, specie mediante il veicolo della comunicazione». Alla campagna fotografica si sono affiancate per ora iniziative come un video – che fino a oggi ha avuto oltre 500000 visualizzazioni su YouTube – e il «Kiss Wall», su cui ognuno può inserire la propria immagine di un bacio.
Una delle più «scandalose» immagini firmate da Oliviero Toscani per Benetton raffigurava, come molti ricorderano, il bacio (eroticamente connotato, allora) tra un giovane prete e una giovane suora. Impossibile non associarla alla campagna odierna. Ma proprio Toscani ha rilasciato, rispetto a UNHATE, una dichiarazione che è difficile non considerare velenosa: «Più di 10 anni fa, quando lasciai la Benetton, il figlio di Luciano, Alessandro Benetton dichiarò: “Basta provocazioni, basta pubblicità trasgressive. Alla fine mi sembra che il padre sia stato più bravo e meno presuntuoso”».

Vassalli, confratelli, nemici

In che cosa consiste la provocazione? I baci, è bene precisare, sono letteralmente a fior di labbra (il che, fra l’altro, consente una certa semplicità del fotomontaggio, che può essere fatto in modo più realistico e meno manipolativo), e non compare alcun tipo di allusione erotica. Se forse è legittimo tradurre l’idea di UNHATE con «make love not war», certo non si tratta di «make sex». A essere in evidenza non è – se non come controcanto secondario – l’allusione sessuale, ma piuttosto l’inusitata associazione delle figure di leader politici, o religiosi, con il bacio.
Ma anche questa lettura non è esaustiva. Se non altro perché in certe epoche o culture, anche non lontane dalla nostra, il bacio tra potenti sarebbe percepito come gesto assolutamente comune: basti pensare al «bacio vassallatico», che nel Medioevo europeo suggellava il rapporto tra l’imperatore e il suo vassallo. Commentando la campagna UNHATE, molti hanno ricordato la foto con il bacio di Breznev e Honecker: ed effettivamente quello tra il leader sovietico e il presidente della DDR – uno Stato la cui posizione non era troppo diversa da quella di «vassallo» dell’URSS – potrebbe essere a giusto titolo essere considerato l’ultimo esempio celebre di bacio vassallatico, non per nulla rimontante a quel mondo slavo che era praticamente passato direttamente dall’ancien régime al socialismo reale. Eccettuando naturalmente i riti delle cosche mafiose, in cui i baci, veri o presunti, tra affiliati hanno conosciuto gli onori delle cronache anche in anni recentissimi. Se poi parliamo di religiosi, è facile ricordare il «bacio santo» che nella messa, ma anche in altre occasioni solenni, ci si scambiava – fin dai primi tempi del cristianesimo – tra pastori e tra fedeli (normalmente partendo dai presbiteri, quindi anche qui non senza una qualche connotazione gerarchica).
Si potrebbe pensare, allora, che la campagna di Benetton solletichi e ribalti quel tipo di archetipi, sostituendo l’amico col nemico, il confratello con l’avversario irriducibile. La percezione straniata con cui osserviamo il bacio smaschererebbe la cruda realtà sottostante al linguaggio ovattato e sorridente delle diplomazie, permettendo al tempo stesso di scoprire il fianco al semplice, ma paradossale invito «non odiare!». Per trovare nella nostra cultura un bacio che provoca un simile sbugiardamento delle umane convenzioni dovremmo rivolgerci direttamente a quello di san Francesco al lebbroso: che, rispetto a quello di Benetton, ha il pregevole vantaggio di essere – com’è probabile per un fatto completamente estraneo ai clichés agiografici – realmente accaduto.

Una reazione dura

Il comunicato della Sala stampa sembra concentrarsi sul fatto che l’immagine del Santo Padre è stata «manipolata e strumentalizzata» (il riferimento è evidentemente al fotomontaggio) «nel quadro di una campagna pubblicitaria con finalità commerciale». È questo – in una certa consonanza col comunicato della Casa Bianca – a essere considerato un «uso del tutto inaccettabile»; anche il comunicato della Segreteria di Stato si concentra sul «fotomontaggio, realizzato nell’ambito della campagna pubblicitaria Benetton». Le modalità in cui vi viene raffigurato il Papa vengono definite prima «tipicamente commerciali», poi «lesive non soltanto della dignità del Papa e della Chiesa Cattolica, ma anche della sensibilità dei credenti». La prima «lesione» della dignità è quindi vista nell’utilizzo indebito dell’immagine del Papa: e denunciare che si tratta né più né meno che di un annuncio pubblicitario, al di là delle asserite finalità sociali, è forse l’elemento più efficace del comunicato vaticano.
Tuttavia, si afferma che la lesione si deve anche al contenuto: anche il primo comunicato parlava di violazione delle «regole elementari del rispetto delle persone» e di «provocazione». Ma si evita accuratamente – come dandoli per scontati? – di esplicitare gli elementi considerati provocatori. È offensivo il fatto di ritrarre il Papa nell’atto stesso di un bacio, ancorché casto, sulla bocca? È determinante i protagonisti del bacio siano due uomini? È significativo che il «partner» sia un importante esponente di un’altra grande confessione religiosa, e segnatamente del musulmanesimo? Di ciò nulla è detto.

È circolata la voce che la fotografia abbia irritato personalmente Benedetto XVI. Notizia difficile da confermare come da smentire. Potrebbe essere semplicemente una supposizione tratta dalla durezza e dalla rapidità della reazione vaticana. Quanto alla rapidità, obiettivamente bastava che qualunque impiegato di Curia andasse a prendere una boccata d’aria in via della Conciliazione per accorgersi del manifesto, «bruciando» ogni scoop d’agenzia. Ma a che si deve una reazione così forte? Sicuramente «la sensibilità dei fedeli» è un elemento decisivo: se si può pensare che alcuni abbiano valutato la foto con simpatia o indulgenza, e avrebbero magari voluto che il Vaticano si mostrasse maggiormente disposto all’ironia, certo in altri l’immagine avrebbe provocato un prevalente senso di disturbo e di offesa, e questi andavano tutelati. Bisognava inoltre chiarire che l’operazione non era stata in alcun modo preventivamente autorizzata o comunque conosciuta dalla Santa Sede. Ma la questione è più complessa: vorrei analizzare qui due aspetti.

Di chi è l’«immagine» del Papa?

Dall’inizio del pontificato di Benedetto XVI si registra una crescita dell’attenzione vaticana sui «diritti» (nel senso commerciale del termine) connessi all’immagine del Papa e ai suoi scritti. È del 2005 una stretta – decisa dalla Segreteria di Stato, allora guidata dal Card. Sodano – sui diritti sull’utilizzo degli scritti di Benedetto XVI (ma anche di quelli di Ratzinger prima dell’elezione a pontefice) e in generale dei documenti emessi dagli organi della Curia vaticana. Una decisione discussa sul piano pastorale, ma impeccabile dal punto di vista giuridico e commerciale: fino ad allora, chiunque poteva riprodurre gratis e in modo incontrollato, anche a scopo di lucro, il testo di documenti come – per esempio – le encicliche o le catechesi del Papa; ora è richiesta l’autorizzazione e, di norma, il pagamento di una proporzionata royalty (bisogna ricordare che ora praticamente tutti i documenti vaticani sono pubblicati sollecitamente sul sito della Santa Sede: per chi ha internet, la consultazione e l’uso a fini non commerciali sono semplicissimi e gratuiti).
Alcuni anni dopo, invece, il 19 dicembre 2009, la Segreteria di Stato dichiarò la necessità di tutelare il rispetto del Papa e «salvaguardarne la figura e l’identità personale da iniziative che, prive di autorizzazione, adottano il nome e/o lo stemma dei Papi per scopi ed attività che nulla o ben poco hanno a che vedere con la Chiesa cattolica», anche «mediante l’uso di simboli nonché di loghi ecclesiali o pontifici», sottoponendo tutto all’autorizzazione della Santa Sede.
È del 19 marzo 2011, poi, la promulgazione della nuova legge vaticana sulla protezione del diritto d’autore, che aggiorna la precedente disciplina (risalente al 1960), ma che dedica anche uno spazio specifico alla tutela dell’immagine del Papa: in particolare, «l’immagine del Romano Pontefice non può essere esposta, riprodotta, diffusa o messa in commercio quando ciò rechi pregiudizio, in qualsiasi modo, anche eventuale, all’onore, alla reputazione, al decoro o al prestigio della Sua Persona»; inoltre, «salvo che ciò sia giustificato da scopi religiosi, culturali, didattici o scientifici e salvo che sia collegato a fatti, avvenimenti o cerimonie pubbliche o che si svolgono in pubblico, l’immagine del Romano Pontefice non può essere esposta, riprodotta, diffusa o messa in commercio senza il Suo consenso, espresso a mezzo degli organismi competenti» (la norma si applica anche «alla voce» del Papa).
La norma ha vari obiettivi: anzitutto limitare la proliferazione incontrollata e gratuita del merchandising, ma anche svolgere una funzione di controllo a più vasto raggio sull’immagine del Papa. E i comunicati vaticani sulla campagna del gruppo Benetton sembrano proprio richiamare il dettato della legge.

Un dialogo a rischio

Una seconda considerazione ci porta all’altro soggetto raffigurato nella fotografia, il grande imam della moschea di al-Azhar al Cairo. Per cominciare, cos’è esattamente al-Azhar? È prima di tutto un’università. La più prestigiosa dell’islam sunnita, dotata nel mondo islamico di ineguagliata autorevolezza religiosa e culturale. Nulla di paragonabile a un Vaticano – che è sede di un’autorità gerarchica ben definita – ma comunque un punto di riferimento di grande importanza in un mondo religioso non centralizzato come quello cattolico.
Al-Azhar – in virtù della sua autorevolezza ma anche della sua moderazione – è anche l’ente con cui il Vaticano ha stabilito da alcuni anni un dialogo istituzionale, fin dalla visita di Giovanni Paolo II all’università nel 2000: il «Comitato congiunto per il dialogo» tra il Comitato permamente di al-Azhar per il dialogo tra le religioni monoteiste e il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, che ha effettuato finora una dozzina di incontri annuali. Un appuntamento divenuto tanto più importante con l’aumento della tensione tra occidente e mondo islamico, dall’11 settembre in poi. Un aspetto che investì direttamente il Vaticano con le note polemiche sulla dichiarazione di Benedetto XVI a Ratisbona nell’ottobre del 2006: un «incidente» a seguito del quale la Santa Sede decise di intensificare con decisione i rapporti e i canali di dialogo con il mondo musulmano. Ma proprio con al-Azhar – e veniamo praticamente all’attualità – la tensione si impennò in occasione del sanguinoso attentato, nel Capodanno 2011, contro una chiesa copta (non cattolica) del Cairo. Nel consueto discorso d’inizio anno al corpo diplomatico, la richiesta del Papa di tutelare le minoranze religiose, auspicando anche un’azione diplomatica dei Paesi europei, venne considerata dall’Egitto una grave ingerenza, fino al punto di richiamare il proprio ambasciatore in Vaticano. Alla decisione fece seguito, da parte di al-Azhar, la sospensione immediata del dialogo in vigore col Vaticano per questa «inaccettabile intromissione negli affari dell’Egitto». Un atto che si inserisce chiaramente nelle complesse dinamiche dei rapporti di potere tra le istituzioni e le componenti della società egiziana (il grande imam di al-Azhar era stato nominato direttamente, pochi mesi prima, da Mubarak) in un momento gravido di tensione: sono i giorni dell’inizio della «primavera araba», e di lì a pochissimo sarebbe cominciata l’occupazione di piazza Tahrir.

Questo caso può ricordare quello più noto e più violento delle vignette satiriche su Maometto pubblicate originariamente da un giornale danese nel 2005, che provocarono nei mesi successivi grande sollevazione e forti polemiche nel mondo islamico.
Anche in quel caso la Santa Sede cercò, molto faticosamente, di non rimanere associata all’immagine di un Occidente irrispettoso – in nome del principio di libertà di espressione – verso l’islam e in generale verso i valori religiosi: Benedetto XVI affermo la necessità «che le religioni e i loro simboli vengano rispettati, e che i credenti non siano oggetto di provocazioni»: parole che proprio il Comitato congiunto per il dialogo tra la Santa Sede e al-Azhar citò per condannare, due anni dopo (quando numerosi quotidiani danesi ripubblicarono le vignette dopo la scoperta di una cellula di terroristi islamici nel Paese), «la ripubblicazione di vignette offensive e il crescente numero di attacchi contro l’islam e i suoi profeti, e così pure altri attacchi contro la religione».
Anche la dichiarazione del consigliere di al-Azhar dopo la campagna Benetton ha espresso un dubbio analogo se simili iniziative non fossero «pericolose per i valori universali e la libertà di espressione come le si intende in Europa». Tantopiù in una fase di incomprensione con al-Azhar – e in cui i rapporti tra le fedi religiose in Egitto, e non solo, sono sottoposti a crescenti sfide – il Vaticano non può concedere il minimo sospetto d’indulgenza verso un’iniziativa che comunque è difficilmente compresa e accettata dalla controparte coinvolta.

Conclusione, e un divertissement

Non si sa quanto la reazione vaticana fosse messa in conto dai promotori di UNHATE. Certo è che essa – come avviene in questi casi – ha ulteriormente catalizzato l’attenzione dei media sulla campagna, cosa che non può essere risultata sgradita. La stessa foto del Papa e dell’imam ha goduto di un’immensa circolazione spontanea, specie via internet, nonostante il ritiro tempestivo, che ha dato perdipiù al gruppo Benetton l’occasione di esibire un comportamento ineccepibile.
Riusciranno i procedimenti legali che dovrebbero essere intrapresi per conto della Santa Sede a scoraggiare iniziative analoghe? Quel che è certo, finora, è che la reazione del Vaticano, seppur considerata da alcuni comprensibile o doverosa, è stata vista da altri come un esempio di oscurantismo e di atteggiamento censorio, o quantomeno di un rapporto difensivo e controverso rispetto al mondo contemporaneo.

Una piccola fantasia: se il Vaticano, pur rivendicando il diritto di adire le vie legali, avesse dichiarato di rinunciarvi, e di donare il corrispettivo delle spese alle organizzazioni umanitarie che lottano contro il lavoro minorile (cf. Guida al consumo critico, EMI 2011, voce «Benetton») o a quelle che si battono per la difesa del popolo Mapuche, quale sarebbe stato il punteggio di questo interessante match comunicativo?


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