Discorso di David Sassoli, presidente del Parlamento Europeo, a Marzabotto nella ricorrenza dell’eccidio, il 6 ottobre 2019 – Discorso preparato e discorso pronunciato

11 ottobre 2019

Grazie.

Un saluto ai cittadini di Marzabotto, alle famiglie dei martiri, alle autorità civili e religiose, alle associazioni partigiane provenienti da tutta Italia, alle associazioni degli ex internati nei campi di concentramento, alle tante rappresentanze comunali che sono presenti, davvero tante. Volevo salutare i partiti e i sindacati, che sono strumenti della democrazia. Vorrei salutare con affetto le medaglie d’oro. E un ringraziamento particolare alla Sindaca di Marzabotto e al presidente Walter Cardi del Comitato regionale per le onoranze ai caduti di Monte Sole. Marzabotto per l’onore che Mi è stato concesso un grande onore di prendere la parola oggi in questa cerimonia che anno dopo anno non smette di interrogare la nostra coscienza.

La barbarie e la disumanità degli eccidi che sono stati compiuti dai nazifascisti nelle terre alle pendici di Monte Sole ci pone ancora molte domande e ogni anno offre spunti di riflessione a seconda del contesto politico e culturale in cui si svolge.

Fin dove è potuto arrivare l’odio? Fin dove si è spinta la guerra, la volontà di potenza, la strategia di sopraffazione? Fin dove il disprezzo dell’uomo?

Questo è un luogo della memoria. E La memoria è certamente un fardello perché chiede coerenza e costringe tutti a tenere gli occhi aperti, a non lanciare messaggi sbagliati, ad essere accurati nell’ nelle analisi, a discernere perché non è vero che l’orrore non potrà tornare, che le nostre libertà saranno sempre salde, che la democrazia accompagnerà per sempre la vita dei nostri paesi. No: non è vero, perché attorno a noi si sviluppano dinamiche che portano anche le istituzioni ad assecondare fenomeni di rimozione.

Confesso subito che quando giorni fa pensavo a questo all’appuntamento di stamattina c’era qualcosa che mi frullava nella testa. Non riuscivo a capire cosa, ma sentivo che si trattava di qualcosa di molto personale, se di personale si può parlare in tragedie collettive che hanno coinvolto e sconvolto generazioni di uomini e donne, provocato macerie: macerie di morti, macerie di città, macerie morali.

Concentrandomi meglio mi sono reso conto che si trattava della data della strage, di quei giorni dell’ottobre a cavallo tra il settembre e l’ottobre del 1944 che hanno per sempre reso Marzabotto luogo della memoria europea. E riflettendo sulla data mi è tornato alla memoria che negli stessi giorni in Jugoslavia si combatteva la battaglia per la liberazione di Belgrado, dura e feroce quanto la difesa di Stalingrado.

Un’associazione di pensieri personale, dicevo, che voglio condividere con voi: perché in quella battaglia c’era anche mio padre, che era arrivato lì; soldato italiano in Montenegro prima, partigiano nelle fila dell’Esercito di Liberazione della Jugoslavia dal ’43, prigioniero nel carcere tedesco di Mostar, ai lavori forzati nelle miniere di Bor, poi nel campo di concentramento di Saimjste alle porte di Belgrado.

Negli stessi giorni, qui c’erano tedeschi e fascisti impegnati nell’opera di annientamento di popolazioni civili innocenti, e al di là dell’Adriatico c’erano tedeschi che scappavano perché sulle sponde della Sava era finalmente arrivata l’Armata rossa.
Dal campo di Belgrado un gruppo di prigionieri riesce a scappare e a raggiungere il Comando russo di Sefkerin, nel Banato.

«Dai russi fui accolto molto bene – scriverà mio padre nella relazione per il Distretto militare di Firenze quando tornò una volta tornato a casa – ed avendo chiesto di combattere contro i tedeschi fui accolto in un battaglione ucraino col quale ho combattuto a Belgrado».

Mio padre non fu mai comunista, ma salendo fino a fin qui mi sono chiesto cosa avrebbe pensato, e con lui i suoi compagni, se qualcuno gli avesse detto che la sua guerra contro i nazisti, e la guerra che impegnava l’ stava impegnando i soldati dell’Armata rossa, fosse stata un giorno equiparata e associata solo di sfuggita alla criminalità nazista!

Cos’avrebbe pensato?

E cosa avrebbero pensato quanti, dopo l’8 settembre, gli eccidi, le stragi, i rastrellamenti, e le deportazioni, ebbero la forza di compiere la loro scelta di vita per la liberazione dell’Italia del nostro Paese? Cos’avrebbero pensato anche loro?

E allora ripetiamolo insieme, perché siamo qui per questo oggi, perché altrimenti, Walter, non avrebbe senso essere qui:, che il fascismo e il nazismo non sono opinioni, ma sono crimini!

Se io per primo, ma tutti eh, siamo tenuti a rispettare le Istituzioni, questo non significa essere d’accordo con conclusioni imprecise e confuse, perché la storia non si scrive a maggioranza e la storia non si scrive nei nostri Parlamenti. Rispetto non significa condivisione. Rispetto non significa alimentare confusione fra chi fu vittima e chi fu carnefice.

Capire le ragioni di giovani tedeschi che si spinsero fin qui a sterminare gente inerme – molti dei quali, come scrive Giuseppe Dossetti, poco tempo prima avranno anche partecipato al Te Deum – non può significare giustificarne ideologia e responsabilità.

Bene ha fatto la signora Sindaca e con lei il Comune di Marzabotto a richiamare tutti, anche le istituzioni europee, ad evitare equivoci, alimentare revisionismi, pronunciare giudizi superficiali.

Io raccolgo il loro invito e mi impegno perché presto vi sia un confronto fra il Comune di Marzabotto e il Comitato regionale presieduto da Walter Cardi per le vittime di Marzabotto con i gruppi parlamentari al Parlamento Europeo europeisti che hanno condiviso quella risoluzione. Abbiamo bisogno di spiegare, di spiegare, far conoscere e di condividere, magari insieme.

Dire mai più totalitarismi in Europa, in un momento in cui le forze estremiste e neofasciste nei nostri paesi hanno ripreso fiato, è utile e doveroso. Intervenire nella riscrittura della storia, invece, può prestarsi a distorsioni.

La guerra di liberazione dal nazifascismo in Europa è cosa molto precisa e ha consentito a noi di godere di libertà fondamentali, di ricostruire sistemi democratici, di lanciarci in un’avventura straordinaria come quella dell’unità europea.

Equiparazioni improprie minano la nostra identità; revisionismi superficiali o interessati a giustificare quello che non può essere giustificato, provocano la perdita della nostra identità e non rendono giustizia, ad esempio, a quanti nelle formazioni partigiane comuniste e nel Partito comunista italiano hanno lottato insieme ad altri democratici per la nostra libertà, e hanno contribuito alla nascita della nostra Repubblica, sono stati fra i protagonisti alla Costituente e non hanno mai smesso di impegnarsi a per rafforzare il nostro sistema democratico.

Noi non possiamo dimenticare da dove veniamo.

Il contesto in cui si svolge questo anniversario ci costringe oggi a riflettere sui rischi della perdita della di memoria.

«Quando si dice che la storia è maestra di vita – diceva un grande storico, Gaetano Salvemini, antifascista ed esule – quando si dice che la storia è maestra di vita, diceva, si rischia di dire una grande banalità, perché la storia non ci dice cosa dobbiamo fare – proseguiva Salvemini –, ma ci aiuta a capire meglio chi siamo, a conoscerci meglio, a sapere da dove veniamo».

L’Italia democratica è nata dal punto di massimo dolore.

Tornare ogni anno a Marzabotto significa riflettere se lontano da qui si è riusciti ad evitare l’oblio. Perché è lontano da dai luoghi come questo che la seduzione ideologica e diabolica dei fascismi e del nazismo si presta a presenta in forme nuove e corrosive.

È accaduto una volta, caro amico. Può ancora accadere ancora. E dobbiamo sentire l’impegno, ha scritto don Giuseppe Dossetti, «per una lucida coscienza storica», per rendere sempre testimonianza veritiera agli eventi che sono accaduti. Per impedire negazioni e amnesie, magari dettate da volgari opportunismi, come ha detto bene la sindaca di Marzabotto. Ma Dossetti ha anche aggiunto che la coscienza storica da sola non basta.
La nostra coscienza deve essere anche «vigile», capace cioè di «opporsi a ogni inizio di sistema di male, finché ci sia tempo».

Dossetti era uomo acutissimo, attento e sensibile ai segni dei tempi.

«Sentinella, quanto resta della notte?»

La sentinella non ha nostalgia del giorno passato. Vuole assicurare serenità e benessere alla propria comunità nel giorno che sta per nascere.

Il ricordo di comunità, che oggi compiamo, ci fa sentire figli della grande storia. Quella che ha provocato milioni di morti in Europa e nel mondo. Quella ha toccato il culmine nell’Olocausto. Quella che ha aperto la strada della Liberazione e ad una civiltà, certamente imperfetta, ma che è stata capace di promuovere pari dignità, diritti universali, crescita, opportunità, sicurezza sociale.

Questo ricordo, però, ci chiama anche ai nostri doveri di cittadini, di democratici e di europei. Alla nostra funzione di sentinelle del domani dei nostri figli. Non possiamo addormentarci. Non possiamo bendarci gli occhi.

Ecco perché, parafrasando Piero Calamandrei, invito i miei colleghi del Parlamento Europeo se vogliono vedere dove è nata l’Europa, a venire a Marzabotto, a leggere le date di nascita e di morte delle vittime, come abbiamo fatto stamattina, a guardare le foto sbiadite dei martiri, a pensare a come erano stati educati negli anni Venti del ’900 i loro assassini, a cosa si erano formati uomini che anche la fede non aveva reso immuni dall’orrore, e a chiedersi perché nella scala di questo sacrario sono state evocate le città e i luoghi delle città martiri in cui quella disumanità si è espressa.

Qui potranno trovare le loro radici perché il nazismo, come insegna il prof. Enzo Collotti, era impegnato in un nuovo ordine europeo che a partire proprio dall’invasione della Russia, e dalla tenace resistenza del popolo russo, ha cominciato ad entrare in crisi e ha capovolto la storia  alla fine è stato fermato. Ecco perché qui vi sono le nostre radici.

Ma non solo quelle dell’Italia repubblicana, non solo quelle o dell’Europa delle istituzioni democratiche.

No, qui si custodisce anche qualcos’altro: si custodisce il diaframma fra noi e il disumano, che significa il modo con cui noi guardiamo alla vita e alla sua dignità e alla nostra capacità di indignazione ogniqualvolta vediamo per diritti non garantiti, soprusi perpetrati nell’indifferenza, vite umiliate, ingiustizie mai risarcite. Qui si custodisce anche tutto questo.

I luoghi della memoria, d’altronde, non servono a far ricordare a chi non potrà mai dimenticare il baratro dell’umanità, in cui ragazzi tedeschi e fascisti vennero su questi monti ad assassinare dei bambini, a mitragliare le donne, a scannare uomini inermi in un «delitto castale», come lo definì Dossetti con la precisione del giurista.

Questi luoghi servono anche a chi è vive lontano da qui e alle istituzioni politiche a ricordare loro che la democrazia non si conquista una volta per sempre, che le nostre libertà sono fragilissime perché basta qualche investimento sui social per manipolare l’opinione pubblica, che i nazionalismi sono ancora incubatori di conflitti fra le nazioni europee. E noi siamo ancora convinti, come disse il presidente Mitterrand, che «il nazionalismo è la guerra». Di questo noi siamo convinti.

Ecco perché la seduzione ideologica e diabolica dei fascismi e dei nazisti deve essere evocata, ricordata, studiata, compresa, condannata ovunque, ma soprattutto lontano da questi luoghi.
È nelle facoltà di scienze, nelle nostre università che andrebbe messa una bella lapide che dica: «Erano scienziati coloro che firmarono il Manifesto della razza» (e scienziati tanti dei perseguitati). È Oppure nelle facoltà di diritto, di giurisprudenza che andrebbe messa una bella lapide che ricordi: «Erano magistrati coloro quelli che firmarono le condanne a morte della Rosa Bianca» in Germania. Erano magistrati.

L’Europa non è il frutto di una ribellione anticoloniale come gli Stati Uniti e non ha nemmeno una storia imperial-confessionale come quella della la Russia.

Noi cittadine e cittadini ddell’Europa siamo la risposta ai nostri errori, l’argine agli orrori che abbiamo perpetrato e di cui abbiamo verificato di essere capaci. Noi portiamo insieme il peso della colpa, della redenzione, della liberazione, e anche il dovere della vigilanza.

Prendete il razzismo e l’antisemitismo: noi lo abbiamo ripudiato in modo netto, sia in Europa che sia in Italia. Ma la scorsa settimana è venuto a trovarmi il Comitato dei Rabbini d’Europa per segnalarmi che famiglie ebree europee stanno lasciando lasciano l’Europa per un vento antisemita e razzista che ha ripreso a montare nei nostri Paesi… Vigilanza, dunque , nella difesa intransigente dei diritti e del diritto ad avere diritti.

Oggi ricordiamo le vittime di Marzabotto; lo facciamo con il capo chino. I loro nomi e i loro volti sono per noi memoria perenne, che nutre ancor più la responsabilità che abbiamo verso il bene comune e verso le generazioni che verranno. Memoria di persone che sentiamo come fratelli e sorelle. Proprio per questo parliamo di memoria di comunità e di memoria europea.

Viviamo un tempo affascinante e al tempo stesso pericoloso.

Le trasformazioni in atto offrono opportunità straordinarie, che dobbiamo saper utilizzare per migliorare la qualità della nostra vita, per correggere lo sviluppo dell’economia, e della società, nel senso della sostenibilità sociale, e ambientale, per ridurre le distanze, e le diseguaglianze. Ma il nostro tempo alimenta anche paure, egoismi, rancori, chiusure, violenze, talvolta irrazionali, e pericolose tentazioni di ritorno indietro.

Per avere un’assicurazione sulla vita delle nostre democrazie dobbiamo rafforzare lo spazio europeo.
L’Europa stessa è nata nel segno dell’apertura, della cooperazione, della consapevolezza di che abbiamo tutti un destino comune. È nata da una grande visione, da un ideale coraggioso che solo poteva trarre forza da una tragedia così immane come quella provocata dalla seconda guerra mondiale e dal folle disegno nazifascista nazista.

«Nel crogiolo della Resistenza – è scritto in un foglio clandestino del Movimento federalista europeo, L’unità europea, diffuso proprio nei giorni in cui c’era si compiva l’eccidio di MarzabottoNel crogiolo della Resistenza – scrivevano – si è scoperta la solidarietà fra i popoli liberi del Continente. Si è scoperta la nostra comunità di destino, la quale vuole che libertà, pace e progresso siano dei beni di cui tutti i popoli europei devono congiuntamente godere o che tutti devono congiuntamente perdere». Pensate: questo veniva scritto in quei giorni terribili di dolore che si annidavano sulle pendici di Monte Sole.

Sì, Perché l’Europa è ancora il nostro destino. Ecco perché all’inizio di questa legislatura, dopo il consenso ricevuto dai cittadini, serve oggi, adesso, uno sforzo per rafforzare gli strumenti della democrazia europea.

È stato detto bene stamattina in chiesa: non partiamo però da zero perché in Europa in questi 75 anni è successo qualcosa di straordinario, mai accaduto altrove e mai accaduto prima.

Che nazioni abituate a conflitti e a farsi la guerra oggi discutono e si confrontano in uno spirito di cooperazione, di pace ed avendo tutti come riferimento le norme del diritto europeo. Per noi democratici questi anni non sono passati invano come vogliono invece farci credere coloro che vorrebbero dividerci e farci tornare indietro. No: noi viviamo bene con le nostre libertà.

La libertà innanzitutto di poterci esprimere, di poterci muovere, di poterci innamorare senza costrizioni, di poter vivere la propria sessualità senza discriminazioni, di non poter essere reclusi per le nostre opinioni, di vivere in paesi in cui la pena di morte è condannata per sempre e in cui la democrazia e lo stato di diritto sono il filo conduttore per poter rafforzare l’Unione Europea.

Siamo anche fieri di un’altra cosa, che non è consueta fieri di tutto questo e anche del fatto, non consueto fuori dallo spazio europeo, che ogni Stato membro sia sotto costante esame e se violazioni allo stato di diritto avvengono vi siano procedure di infrazione capaci di riaffermare i valori comuni. Sta succedendo, eh. Sta succedendo nei confronti di alcuni paesi europei e questo dimostra la nostra vitalità civiltà.

Riprendo un pensiero del presidente Sergio Mattarella, che salutiamo con affetto e riconoscenza, proprio contenuto proprio nel messaggio che abbiamo letto prima nella dichiarazione per il 75° dell’eccidio di Marzabotto: la storia, anche quella dolorosa, ci fa dire «mai più» ai nazionalismi che esasperano i contrasti.

L’Unione Europea nasce «unità nella diversità» e può testimoniare con orgoglio questo valore al mondo intero. Il pianeta ha bisogno di un’Europa all’altezza dei suoi ideali, ideali di giustizia che non si raggiungono una volta per sempre. Sappiamo che l’Europa non è quella che noi vorremmo. Che ha limiti, lacune, e nel suo spazio e nei nostri Paesi si producono troppe ingiustizie. Che tanti gli egoismi ci frenano e le istituzioni hanno bisogno di maggiore coraggio politico. Ma non c’è un’altra strada che possiamo percorrere e noi dobbiamo farlo con le opinioni pubbliche, non con i poteri forti. Con i cittadini. Questo deve renderci più coraggiosi.

A volte paure ed opportunismi ci spingono a pensare che si può rallentare l’integrazione, che si può derogare alla solidarietà, che si possono fare eccezioni alla tolleranza, al rispetto degli altri, che si può persino transigere sull’umanità delle nostre scelte.

Guai se per paura o per demagogia amputeremo le nostre più autentiche radici. Non sfuggiremo ai pericoli nascondendo il nostro volto, cambiando il nostro essere, e il nostro modello sociale. Così la daremmo solo vinta alla paura. E ai tanti che cavalcano la paura.

Cento anni fa in un famoso discorso ai Fasci di combattimento, Mussolini disse diceva ai suoi: «Dobbiamo riuscire a trasformare la paura in odio».

Purtroppo sono parole molto attuali.

Noi cent’anni dopo qui a Marzabotto possiamo dire che invece dobbiamo trasformare la paura in solidarietà. Perché la solidarietà è moltiplicatore di benessere e ed è moltiplicatore di sicurezza per tutti. Ma questo è possibile solo con una società viva, plurale, dialogante, democratica, sorretta da principi di umanità.

Ieri mi chiedevano: “Cosa ne pensa della legge sullo ius culturae?”. C’è qualcuno che pensa che approvare quella legge sia fare un favore a Salvini. Io penso che se non si approva quella legge si fa un favore a Salvini.

«Sogno un’Europa di cui si possa dire che il suo ultimo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia», ci ha ricordato papa Francesco al Premio Carlo Magno. Anch’io lo penso, dobbiamo pensarlo tutti: mai rinunciare, abdicare alla nostra umanità. Ma dobbiamo restare molto saldi.

E a 75 anni dall’eccidio di Marzabotto non dimenticare che qui, nel dolore e nella violenza, fra le raffiche e le urla, nella pietà che non si è manifestata, è nata la nostra Repubblica e l’Europa democratica e che purtroppo vi sono virus che cercheranno sempre di farci tornare indietro.

Uno in particolare, il più pericoloso, che è quello dell’indifferenza.

«L’indifferenza – ripete la senatrice Liliana Segre, che salutiamo«è l’apatia morale – ripete la senatrice Liliana Segre – di chi si volta dall’altra parte: e succede anche oggi verso il razzismo e gli altri orrori del mondo».

Non voltiamoci mai dall’altra parte, non pensiamo mai che non ci riguardi.

E allora essere oggi a Marzabotto riacquista per tutti un grande significato per la nostra vita. Grazie.

Legenda
Il testo in nero corrisponde al discorso scritto ed effettivamente pronunciato.
Il testo in beige corrisponde alle parti aggiunte a voce rispetto al discorso scritto.
Il testo barrato corrisponde alle parti del discorso scritto che non sono state pronunciate a voce.
Vengono indicate con gli stessi mezzi frasi e parole spostate, nonché lievi differenze testuali. La base della punteggiatura è quella del discorso scritto, ma è stata modificata in modo da corrispondere al discorso effettivamente pronunciato.
La fonte del discorso scritto è il testo pubblicato sulla pagina Facebook “PD Castelnuovo di Porto”. La fonte del discorso pronunciato sono i video pubblicati da Paolo Gatti sul suo profilo Facebook. Ringrazio entrambi e inoltre, rispettivamente, Simona Biagi e Anna Maria Testa per avermeli segnalati.

 

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Episcopalis communio: papa Francesco riforma il Sinodo dei vescovi

24 settembre 2018

Lunedì 17 settembre è stata pubblicata la nuova costituzione apostolica di papa Francesco sul Sinodo dei vescovi Episcopalis communio. Il documento è entrato in vigore al momento della pubblicazione, quindi sarà applicato, per quanto possibile, alle assemblee sinodali già convocate come quella imminente sui giovani e quella sull’Amazzonia.

Cos’è il Sinodo dei vescovi

Il Sinodo dei vescovi è una riunione di vescovi – prevalentemente nominati dalle conferenze episcopali di ogni nazione – convocata dal papa per trattare temi importanti della vita della Chiesa. Dopo la convocazione vi è una fase preparatoria, che dura parecchi mesi e nella quale vengono elaborati alcuni documenti di lavoro; segue la riunione vera e propria, della durata di qualche settimana. Per consuetudine avviene in ottobre. Un sinodo ordinario comprende più di 200 membri, più svariate decine di esperti e uditori (compresi alcuni rappresentanti di altre Chiese cristiane, detti “delegati fraterni”). Vi sono poi sinodi più ristretti (detti straordinari) e altri dedicati a una singola area geografica (detti speciali).

Il Sinodo dei vescovi è stato istituito da Paolo VI nel 1965 col motu proprio Apostolica sollicitudo, durante l’ultima fase del Concilio Vaticano II. Introdurre uno strumento di consultazione dei vescovi, seppure giocoforza ridotto rispetto a un concilio, pareva allora un modo per conservare e innestare permanentemente nella vita della Chiesa un elemento importante dell’esperienza conciliare.
Oggi il sinodo è un momento importante della vita della Chiesa, anche se è spesso criticato – oltre che per essere composto da soli vescovi – perché fortemente controllato dalla Curia, che redige i documenti preparatori su cui la discussione in assemblea spesso non riesce a incidere in modo sostanziale. Nel 2006, sotto il pontificato di Benedetto XVI venne emanato un regolamento che sostituiva i precedenti e introduceva alcune limitate riforme (per esempio riservando un certo spazio al libero confronto tra i membri).

Il seminario di studio del 2016

La costituzione apostolica di papa Francesco rivede complessivamente il funzionamento del Sinodo, pur conservandone gli elementi sostanziali. Per i dettagli, il documento rimanda a future istruzioni e regolamenti demandati alla Segreteria generale del sinodo (che è una sorta di comitato permanente a cui è demandata l’organizzazione delle assemblee).
Non mi pare sia stato ancora rimarcato che le principali novità ricalcano con notevole precisione le conclusioni di un seminario di studio organizzato dalla Segreteria generale del Sinodo nel febbraio del 2016, in cui già si adombrava l’idea di «una revisione della normativa sul Sinodo dei vescovi». Il breve comunicato riportato in questo link – che a sua volta si riferisce al discorso di papa Francesco per il 50° dell’istituzione del Sinodo – è denso e illuminante e andrebbe esaminato in dettaglio dagli studiosi. A sua volta, alcune delle innovazioni proposte dal comunicato del 2016 sono state tratte dall’esperienza dei sinodi sulla famiglia del 2014 e 2015.

Il proemio dottrinale: cenni di teologia del sinodo

Come si vede, il suggerimento di un «proemio dottrinale» è stato sostanzialmente seguito. L’introduzione della costituzione apostolica – non particolarmente ampia, ma molto più lunga rispetto al motu proprio di Paolo VI del 1965 – ha infatti un carattere prevalentemente storico e pastorale, ma al suo interno si possono rintracciare facilmente concetti teologici significativi.
Ciò vale prima di tutto per l’enunciazione iniziale per cui «La comunione episcopale (Episcopalis communio), con Pietro e sotto Pietro, si manifesta in modo peculiare nel Sinodo dei vescovi»: infatti – come è detto non molto più avanti – «la dimensione sovradiocesana del munus episcopale», se propriamente «si esercita in modo solenne nella veneranda istituzione del concilio ecumenico», tuttavia «si esprime pure nell’azione congiunta dei vescovi sparsi su tutta la terra, azione che sia indetta o liberamente recepita dal romano pontefice». Inoltre, si sottolinea che «il vescovo è contemporaneamente maestro e discepolo. Egli è maestro quando, dotato di una speciale assistenza dello Spirito Santo, annuncia ai fedeli la Parola di verità in nome di Cristo capo e pastore. Ma egli è anche discepolo quando, sapendo che lo Spirito è elargito a ogni battezzato, si pone in ascolto della voce di Cristo che parla attraverso l’intero popolo di Dio, rendendolo “infallibile in credendo”». Proprio in questo senso, «il Sinodo dei vescovi deve sempre più diventare uno strumento privilegiato di ascolto del popolo di Dio»: infatti, «benché nella sua composizione si configuri come un organismo essenzialmente episcopale, il Sinodo non vive pertanto separato dal resto dei fedeli. Esso, al contrario, è uno strumento adatto a dare voce all’intero Popolo di Dio proprio per mezzo dei vescovi»… «mostrandosi di assemblea in assemblea un’espressione eloquente della sinodalità come “dimensione costitutiva della Chiesa”».

La fase preparatoria: consultazione dei fedeli

In generale, i concetti espressi nella parte introduttiva servono a giustificare e contestualizzare quanto stabilito dalla parte dispositiva, in particolare le novità.

Tra esse, spicca sicuramente l’attenzione riservata alla consultazione dei fedeli, che viene definita come lo scopo della fase preparatoria del sinodo. Il risalto che viene dato a questa fase è fortemente innovativo. Si stabilisce che «la consultazione del popolo di Dio si svolge nelle Chiese particolari» (cioè nelle singole diocesi e quindi non solo a livello di conferenze episcopali), e anzi «in ciascuna Chiesa particolare i vescovi svolgono la consultazione del popolo di Dio avvalendosi degli organismi di partecipazione previsti dal diritto, senza escludere ogni altra modalità che essi giudichino opportuna» (nell’introduzione si afferma esplicitamente: «può rivelarsi fondamentale il contributo degli organismi di partecipazione della Chiesa particolare, specialmente il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale»).
Per i religiosi, se prima era prevista la mera consultazione dell’Unione dei superiori generali, ora si precisa che «le unioni, le federazioni e le conferenze maschili e femminili degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica consultano i superiori maggiori, che a loro volta possono interpellare i propri consigli e anche altri membri». Si aggiunge inoltre che «anche le associazioni di fedeli riconosciute dalla Santa Sede consultano i loro membri». dei suddetti Istituti e Società. Ma «la Segreteria generale del sinodo può individuare pure altre forme di consultazione».
Viene altresì previsto il «coinvolgimento degli istituti di studi superiori». Infine, viene sancito che «rimane integro il diritto dei fedeli, singolarmente o associati, di inviare direttamente i loro contributi alla Segreteria generale del sinodo»: ad onta della terminologia usata, si tratta di una prassi invalsa con il sinodo sulla famiglia, ma precedentemente sconosciuta.

Il ruolo della Segreteria generale

Altra possibilità prefigurata dal percorso sinodale sulla famiglia – in cui l’assemblea del 2014 è stata legata a quella del 2015 in un unico processo – è quella per cui «l’assemblea del sinodo può essere celebrata in più periodi tra loro distinti». Qui spicca il ruolo della Segreteria generale (sia pur «insieme al relatore generale e al segretario speciale dell’assemblea») di «promuovere lo sviluppo della riflessione sul tema o su alcuni aspetti di particolare rilievo emersi dai lavori assembleari». Va nella stessa direzione la possibilità (già verificatasi per il Sinodo sui giovani) di «promuovere la convocazione di una riunione presinodale con la partecipazione di alcuni fedeli» designati dalla Segreteria stessa.
Il rafforzamento complessivo della Segreteria generale del sinodo, pure auspicato dal documento del 2016 che parlava della possibilità di «prospettare in certo modo il carattere permanente dell’organismo sinodale» (concetto peraltro già introdotto nel regolamento del 2006), avviene non solo introducendo la figura del sottosegretario e assicurando esplicitamente la presenza di «un congruo numero di officiali e di consultori», ma con l’affermazione che la Segreteria è «competente nella preparazione e nell’attuazione delle assemblee del sinodo, nonché nelle altre questioni che il romano pontefice vorrà sottoporle per il bene della Chiesa universale».

Le assemblee del sinodo

La composizione del sinodo e la fase celebrativa dello stesso rappresentano probabilmente l’aspetto meno innovativo della costituzione apostolica, eccezion fatta per l’importante previsione per cui «secondo il tema e le circostanze, possono essere chiamati all’Assemblea del Sinodo anche alcuni altri, che non siano insigniti del munus episcopale [cioè: non vescovi], il ruolo dei quali viene determinato di volta in volta dal romano pontefice». Era una possibilità non esclusa dal Codice di diritto canonico (che parla semplicemente di “maggioranza di vescovi”), ma di fatto non sfruttata se non per l’inserimento di alcuni religiosi. Bisogna inoltre notare che l’elezione dei membri non viene normata in modo particolareggiato: l’istruzione applicativa potrà quindi contenere elementi innovativi.
Per il resto, se il documento del 2016 proponeva «un maggiore ascolto e coinvolgimento dei fedeli che partecipano all’assemblea sinodale… valorizzando ulteriormente la presenza nelle assemblee sinodali degli esperti e degli uditori», Episcopalis communio non pare indicare a tale proposito nuove piste; andrà piuttosto notato che viene recepito dal regolamento del 2006, e dalla prassi invalsa dall’anno precedente, il momento di «libero scambio di opinioni tra i membri».
Viene però rilevata l’importanza della dimensione liturgica nel sinodo stesso («È … necessario che, nel corso dei lavori sinodali, ricevano particolare risalto le celebrazioni liturgiche e le altre forme di preghiera corale, per invocare sui membri dell’Assemblea il dono del discernimento e della concordia. È altresì opportuno che, secondo l’antica tradizione sinodale, il libro dei vangeli sia solennemente intronizzato all’inizio di ogni giornata, rammentando anche simbolicamente a tutti i partecipanti la necessità di rendersi docili alla Parola divina, che è “Parola di verità” [Col 1, 5]»): una sottolineatura che andrebbe confrontata a quanto papa Francesco ha sovente rimarcato descrivendo l’esperienza della Conferenza dell’episcopato latinoamericano ad Aparecida.

La fase attuativa

È invece profondamente innovativo il fatto che la «fase attuativa» del sinodo, cioè l’«accoglienza e l’attuazione delle conclusioni dell’assemblea», sia considerata – così auspicava il documento del 2016 – «un momento interno al processo sinodale»: essa è demandata primariamente ai vescovi (anche qui è previsto «l’aiuto degli organismi di partecipazione previsti dal diritto») e coordinata dalle conferenze episcopali, che possono «predisporre iniziative comuni». È però prevista anche un’azione da parte della Segreteria generale – di concerto col dicastero vaticano pertinente –, che può costituire a tale scopo una commissione di esperti, predisporre studi e altre iniziative, ma anche, «con il mandato del romano pontefice, … emanare documenti applicativi, sentito il dicastero competente».

Il documento finale

Quest’ultima novità si lega all’altro elemento di particolare importanza introdotto da Episcopalis communio e giustamente rimarcato dai commentatori: cioè lo status del documento finale dell’assemblea.
Occorre ricordare che, fino al 2005, l’unico documento del sinodo che veniva pubblicato era il messaggio dei padri sinodali, generalmente un breve documento di carattere esortativo e di scarsa rilevanza dottrinale e pastorale.  L’assemblea sfociava sì in un «elenco finale delle proposizioni» formulate – in latino –, votate dai padri sinodali al termine del sinodo e «presentate alla considerazione del sommo pontefice»; ma tali proposizioni non erano di pubblico dominio. L’unico esito pubblico e ufficiale del sinodo era pertanto il documento post-sinodale emanato direttamente dal papa, normalmente uno-due anni dopo. La dialettica interna al sinodo e tra il sinodo e il documento papale rimaneva quindi completamente occultata.
Benedetto XVI fin dal 2005 autorizzò invece la pubblicazione delle proposizioni (seppure in «una versione in lingua italiana, provvisoria, ufficiosa e non ufficiale»), consuetudine da allora invalsa. Al sinodo del 2014 vi fu un’ulteriore importante innovazione: anzitutto, l’elenco delle proposizioni venne sostituito da una «relazione del sinodo»; questo non solo fu pubblicato, ma vennero anche riportati i voti ottenuti dai singoli paragrafi. Il fatto è tantopiù rilevante perché quella relazione venne poi a costituire il documento preliminare per il sinodo del 2015. Anche nel 2015 la relazione finale venne pubblicata con i voti ottenuti dai singoli punti.

La nuova costituzione apostolica prevede invece che «se approvato espressamente dal romano pontefice, il documento finale partecipa del magistero ordinario del successore di Pietro». Inoltre «qualora poi il romano pontefice abbia concesso all’Assemblea del sinodo potestà deliberativa, a norma del can. 343 del Codice di diritto canonico, il documento finale partecipa del magistero ordinario del successore di Pietro una volta da lui ratificato e promulgato. In questo caso il documento finale viene pubblicato con la firma del romano pontefice insieme a quella dei membri». Occorre ricordare che la possibile potestà deliberativa dell’assemblea sinodale era già stata indicata nell’Apostolica sollicitudo di Paolo VI, ma non era mai stata applicata. Ora, comunque, si stabilisce che, sia pure a seguito dell’approvazione del papa, oppure della ratifica e promulgazione da parte dello stesso, il documento finale del sinodo gode di per sé dell’autorità di un documento papale. Ciò conferisce, com’è evidente, una dignità precipua al percorso sinodale: certo senza impedire in alcun modo al papa di pubblicare un proprio documento che ne recepisca il frutto (anzi, ciò si renderà probabilmente necessario qualora si tratti di introdurre innovazioni giuridiche specifiche), ma conferendo al Sinodo – cum Petro et sub Petro – la pienezza di quel valore che era affermato fin dalla sua origine, nel seno stesso del concilio Vaticano II.


Francesco, Scalfari e l’inferno del non mettersi in gioco

2 aprile 2018

Nel valutare la questione dell’intervista di Eugenio Scalfari a papa Francesco pubblicata da Repubblica e poi smentita – nel suo carattere d’intervista e nei virgolettati attribuiti a Bergoglio, contenenti alcune affermazioni dottrinalmente discutibili, ad esempio sull’esistenza dell’inferno, ma non negata come colloquio effettivamente avvenuto – dalla Santa Sede, occorre prima di tutto una premessa.

Serve cioè avere ben chiara la distinzione tra dottrina e teologia: con la seconda che funge da “punta avanzata” dell’esplorazione del messaggio del vangelo, e la prima che – dalle origini del cristianesimo – si limita a mettere dei paletti, segnalando le elaborazioni teologiche eccessivamente devianti. La dottrina non si sviluppa come una monolitica e coerente verità ufficiale, ma come una progressiva conglomerazione di negazioni, ciascuna delle quali non di rado nega l’estremizzazione della negazione precedente, di modo che un’effettiva fisionomia emerge casomai per successive scheggiature, o in qualche modo di riflesso, a sbalzo. Se la teologia è un pendio, la dottrina non è un sentiero definito, ma tuttalpiù una larga pista da slalom supergigante, che si limita a indicare i dirupi e i vicoli ciechi senz’altro da non imboccare. Questa conformazione “per negazione” (apofatica) della dottrina si è conservata in modo più puro nella tradizione ortodossa, mentre il cattolicesimo più spesso, dalla Scolastica in poi, ha flirtato con la tentazione di adottare una teologica “positiva” ufficiale.

Ciò per dire che cosa? Che non c’è nulla di strano se un prete, che pure è il papa ma non ha affatto intenzione di smettere del tutto di fare il prete, in un dialogo – che è conversazione, prima che conversione, oltre che reciproco diletto e conforto – con un anziano amico intellettualmente inquieto e stimolante, percorra strade anche impervie e suggestive, e magari fragili, attorno a un concetto (un luogo teologico, un teologùmeno) come l’inferno, in cui i contenuti fissati dalla dottrina (davvero pochi e scarni, basti un’occhiata al Catechismo cattolico) lasciano obiettivamente molto spazio di possibile elaborazione teologica, di cui i primi secoli mostrano esempi notevoli.
È importante, naturalmente, che ciò non venga preso ad alcun titolo per un pronunciamento dottrinale; sarebbe pernicioso sia per la dottrina, sia per la teologia considerare come affermazione dotata di valore magisteriale ciò che è invece una suggestione, tuttalpiù un brandello di ragionamento fluttuante e in alcun modo determinato: da qui, è facile capire, le precisazioni sulla conversazione, che è appunto tale e non intervista, perché l’intervista, sia pure di livello autoritativo dubbio nel sistema articolato – e flessibile, come dimostrato anche da prima di Bergoglio – dei generi letterari papali, è pur sempre uno strumento per trasmettere volontariamente, “urbi et orbi”, un contenuto specifico.
Ma la testimonianza di quella conversazione rimane, in modo tutt’altro che casuale. Ciò che Francesco vuole dirci, con essa, non è sul piano dei contenuti, ma del metodo. Quanto ai contenuti, infatti, papa Bergoglio ha dimostrato di saper dire senza alcun problema, in contesti pubblici e sovente anche ufficiali, cose anomale, impreviste, scomode, o affatto importune sotto vari aspetti. Ed è chiaro che il papa è completamente padrone – al netto di imprecisioni e infortuni che pure possono capitare – della propria comunicazione, e che il sistema comunicativo del Vaticano (attualmente sotto riforma) si modella attorno alla comunicazione del papa e non viceversa, cosa vera più per Bergoglio – come per un altro grande comunicatore come Giovanni Paolo II, morto esattamente tredici anni fa – che per altri suoi non remoti predecessori. Per altro verso, la perizia teologica sovente dimostrata dal gesuita Bergoglio – al netto di un’interessata e maldestra vulgata – mostra un evidente sostrato latinoamericano, in cui l’insistenza per gli aspetti sociali si mescola, in modo alquanto naturale, con aspetti tradizionali come la devozione per Maria e i santi e – fra l’altro – richiami non infrequenti al diavolo.
Improbabile davvero, quindi, ipotizzare che la chiacchierata con Scalfari serva a Bergoglio per dire-non-dire chissà quale presunto contenuto teologico. Tuttavia essa ha indubbiamente un’utilità e uno scopo. Precisamente quello di mostrare un cristiano e un prete – che è papa – intento a mettersi in gioco a tutto tondo nel dialogo, senza lasciarsi ostacolare e irrigidire da uno schema dottrinale; un papa che si lascia provocare, rispondendo creativamente, senza disporsi in occhiuta difesa, lontano dall’apologetica, in una libertà consapevole e responsabile: come è la libertà stessa della teologia, qui esercitata – perfino con disinvoltura – dal custode della dottrina. (Va detto che anche Benedetto XVI, da papa, aveva scritto i suoi tre libri su Gesù esplicitando che essi non avevano valore magisteriale. Ma questo paragone sarebbe da approfondire guardando alle differenze oltre che alla somiglianza.) Non per mero sfizio o piacere intellettuale, che pure non sono negati: ma in ossequio all’adagio per cui salus animarum suprema lex Ecclesiae, la suprema legge della Chiesa è la salvezza delle anime. Fosse pure di un’anima sola. Qui Bergoglio si fa modello per gli operatori pastorali – cioè per tutti i cristiani: non a costo di confondere il popolo fedele, ma prendendosi il rischio, e probabilmente il gusto, di épater les (catholiques) bourgeoises oltre che di creare grattacapi ai comunicatori vaticani. Ad maiorem Dei gloriam, s’intende.


Da Müller a Ladaria Ferrer: un “cambio” naturale ma non scontato alla Congregazione per la dottrina della fede

3 luglio 2017

La sostituzione del card. Müller con mons. Ladaria Ferrer come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il più importante dicastero vaticano, non è in alcun modo “spoil system”. In primo luogo perché Müller è arrivato alla conclusione naturale del suo mandato quinquennale. In secondo luogo perché lo spagnolo Ladaria Ferrer è il suo successore più naturale: segretario – cioè “numero due” – della Congregazione, nominato come Müller da Benedetto XVI già nel 2008, dopo una “carriera” da teologo tutta romana, prima alla Pontificia università gregoriana poi nella stessa Congregazione.

L’avvicendamento di Müller  è stato annunciato dal Vaticano sabato 1° luglio dopo una giornata di voci sempre più insistenti, le prime nel sottobosco dei blog tradizionalisti. La tempistica ha fatto pensare a molti osservatori che la fonte fosse lo stesso Müller, che era stato ricevuto in udienza dal papa proprio venerdì 30 giugno.
Müller, beninteso, è un personaggio poliedrico: non si può considerare un conservatore a tutto tondo, né tantomeno un tradizionalista. Vanno ricordate, per esempio, le sue aperture e i suoi gesti nei confronti degli esponenti della teologia della liberazione. Nel serrato dibattito che dura dalla pubblicazione di Amoris laetitia sicuramente ha promosso un’interpretazione “continuista” dei passi più discussi, diversa da quella a cui papa Francesco ha dimostrato di accordare favore; mentre nel dibattito del sinodo sulla famiglia del 2015 è stato – insieme ad altri esponenti di primo piano della Curia come Pell e Sarah – tra i firmatari della “lettera dei 13 cardinali” (alcuni poi, non lui, negarono di averla sottoscritta) che protestavano per alcune procedure sinodali.

Un altro momento irrituale fu la sua dichiarazione, nell’aprile del 2015, per cui la Congregazione per la dottrina della fede aveva il compito di “strutturare teologicamente” un pontificato. Poco prima, peraltro, aveva pubblicato un articolo piuttosto strutturato sui “Criteri teologici per una riforma della Chiesa e della Curia romana”, mostrando un’adesione convinta al progetto di riforma di Francesco e mettendone in evidenza la continuità con gli intenti di Benedetto XVI.
Più che le singole posizioni espresse, può essere che sia stato il piglio piuttosto presenzialista di Müller a convincere papa Francesco a non rinnovare il suo incarico. Forse, invece, hanno avuto un ruolo decisivo le accuse alla Congregazione per la dottrina della fede di conservare ancora zone d’ombra in cui si annidavano efficaci resistenze alla “linea dura” del Vaticano – inaugurata, beninteso, da Benedetto XVI – contro la pedofilia nel clero (in particolare rispetto alla deposizione dei vescovi negligenti): sono di poche settimane fa le dichiarazioni molto dure di Marie Collins in polemica col card. Müller dopo le dimissioni della Collins dalla Commissione per la tutela dei minori istituita nel 2014.

Ladaria Ferrer ha un profilo dottrinalmente moderato e personalmente riservato. Certo è un gesuita, come Francesco, cosa che rendeva per alcuni improbabile la successione. Da lui è lecito attendersi una discontinuità nell’atteggiamento più che nella posizione dottrinale. Sarà interessante osservare chi sarà il nuovo segretario della Congregazione: probabilmente sarà nominato dopo una consultazione con lo stesso Ladaria Ferrer: un altro segno di un avvicendamento “fisiologico” anche se non scontato.


Il discorso di Bernie Sanders in Vaticano – traduzione in italiano

16 aprile 2016

Presento qui la mia traduzione in italiano del discorso pronunciato il 15 aprile 2016 da Bernie Sanders in Vaticano alla conferenza organizzata dalla Pontificia accademia di scienze sociali.
La fonte: https://berniesanders.com/urgency-moral-economy-reflections-anniversary-centesimus-annus/

 

L’urgenza di un’economia morale: riflessioni sul 25° anniversario della Centesimus Annus

Sono onorato di essere con voi oggi e sono stato lieto di ricevere il vostro invito a parlare a questa conferenza della Pontificia accademia di scienze sociali. Oggi celebriamo l’enciclica Centesimus annus e riflettiamo sul suo significato per il nostro mondo, un quarto di secolo dopo che fu pubblicata da Giovanni Paolo II. Con la caduta del comunismo, papa Giovanni Paolo II ha lanciato un appello per la libertà umana nel suo senso più vero: la libertà che difende la dignità di ogni persona ed è sempre orientata al bene comune.

Il magistero sociale della Chiesa, che risale alla prima enciclica sull’economia industriale, la Rerum novarum, del 1891, per arrivare alla Centesimus annus e all’ispirata enciclica Laudato si’ di papa Francesco dell’anno scorso, si è cimentato con le sfide dell’economia di mercato. Ci sono pochi luoghi nel pensiero moderno che possono competere con la profondità e la capacità di intuizione dell’insegnamento morale della Chiesa sull’economia di mercato.

Oltre un secolo fa, papa Leone XIII  evidenziò nella Rerum novarum problemi e sfide nel campo dell’economia che continuano a tormentarci, come quella che chiamava “l’enorme ricchezza di pochi, contrapposta alla povertà dei molti”.

E siamo chiari: la situazione oggi è peggiore. Nel 2016, l’un per cento della popolazione del pianeta possedeva più ricchezza del restante 99 per cento, mentre le sessanta persone più ricche – sessanta persone – possiedono di più della metà più povera – 3 miliardi e mezzo di persone. Nel momento in cui così pochi hanno così tanto, e così tanti hanno così poco, dobbiamo rifiutare i fondamenti di questa economia contemporanea come immorale e insostenibile.

Le parole della Centesimus annus, similmente, risuonano oggi tra di noi. Un esempio  impressionante: “Inoltre, la società e lo Stato devono assicurare livelli salariali adeguati al mantenimento del lavoratore e della sua famiglia, inclusa una certa capacità di risparmio. Ciò richiede sforzi per dare ai lavoratori cognizioni e attitudini sempre migliori e tali da rendere il loro lavoro più qualificato e produttivo; ma richiede anche un’assidua sorveglianza ed adeguate misure legislative per stroncare fenomeni vergognosi di sfruttamento, soprattutto a danno dei lavoratori più deboli, immigrati o marginali. Decisivo in questo settore è il ruolo dei sindacati, che contrattano i minimi salariali e le condizioni di lavoro” (n. 15).

La saggezza essenziale della Centesimus annus è questa: un’economia di mercato benefica per la produttività e per la libertà economica. Ma se lasciamo che la ricerca del profitto domini la società; se i lavoratori diventano ingranaggi usa e getta del sistema finanziario; se grandi disuguaglianze di potere e di ricchezza portano alla marginalizzazione di chi è povero e privo di potere; allora il bene comune è dissipato e l’economia di mercato ci rovina. Papa Giovanni Paolo II si esprime in questo modo: il profitto che è prodotto “dall’illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla rottura della solidarietà nel mondo del lavoro… non ha nessuna giustificazione e costituisce un abuso al cospetto di Dio e degli uomini” (n. 43).

Oggi siamo a venticinque anni dalla caduta dei regimi comunisti nell’Europa dell’est. Dobbiamo riconoscere che gli avvertimenti di papa Giovanni Paolo sugli eccessi di una finanza incontrollata erano profondamente preveggenti. Venticinque anni dopo la Centesimus annus, la speculazione, i flussi finanziari illeciti, la distruzione dell’ambiente e l’indebolimento dei diritti dei lavoratori sono molto più gravi di un quarto di secolo fa. Gli eccessi della finanza, anzi la diffusa criminalità finanziaria nelle borse, hanno giocato un ruolo diretto nel causare la più grave crisi finanziaria mondiale dopo la Grande Depressione.

Abbiamo bisogno di un’analisi politica e anche di un’analisi morale e antropologica per comprendere che cos’è avvenuto dal 1991. Possiamo dire che con la globalizzazione priva di regole, un’economia mondiale di mercato costruita sulla finanza speculativa ha distrutto le limitazioni legali, politiche e morali che un tempo erano servite a proteggere il bene comune. Nel mio Paese, patria dei più grandi mercati finanziari del mondo, la globalizzazione è stata usata come pretesto per deregolamentare le banche, ponendo fine a decenni di protezioni legali dei lavoratori e dei piccoli imprenditori.
I politici si sono uniti ai grandi banchieri per permettere alle banche di diventare “troppo grandi per fallire”. Il risultato: otto anni fa l’economia americana e gran parte del mondo sono sprofondato nel peggiore declino economico dagli anni Trenta. I lavoratori hanno perso il lavoro, la casa e i risparmi, mentre i governi salvavano le banche.

Inspiegabilmente, il sistema politico statunitense ha raddoppiato questa spericolata deregolamentazione finanziaria, mentre la Corte Suprema, con una serie di decisioni profondamente fuorviate, ha fatto irrompere nella politica americana un flusso di denaro senza precedenti. Queste decisioni sono culminate nel famoso caso Citizen United, che ha aperto i rubinetti finanziari per enormi donazioni elettorali da parte di miliardari e grandi industrie per volgere a proprio stretto e ingordo vantaggio il sistema politico americano. Si è istituito un sistema in cui i miliardari possono comprare le elezioni. Piuttosto che un’economia indirizzata al bene comune, siamo rimasti con un’economia gestita dall’1% più ricco, che diventa sempre più ricco, mentre la classe lavoratrice, i giovani e i poveri ricadono sempre più indietro. E i miliardari e le banche hanno raccolto il frutto dei loro investimenti elettorali, sotto forma di speciali privilegi fiscali e di accordi commerciali squilibrati che favoriscono gli investitori piuttosto che i lavoratori, e che danno alle imprese multinazionali un potere extragiudiziale sui governi che tentano di regolamentarle.

Ma – come papa Giovanni Paolo II e papa Francesco hanno messo in guardia noi e il mondo – le conseguenze sono state ancora più terribili dei disastrosi effetti delle bolle finanziarie e hanno fatto crollare gli standard di vita delle famiglie della classe lavoratrice. L’anima stessa della nostra nazione ha sofferto, nel momento in cui i cittadini hanno perso la fiducia nelle istituzioni politiche e sociali. Come ha affermato papa Francesco: “Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano” [Evangelii gaudium, n. 75]

E anche: ” Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune” [Discorso del 16 maggio 2013].

Papa Francesco nell’Evangelii gaudium ha chiamato il mondo a dire “no a un sistema finanziario che governa invece di servire” [n. 57]. E ha esortato i dirigenti finanziari e i leader politici a perseguire una riforma finanziaria che sia informata da considerazioni etiche. Ha affermato in modo chiaro e con forza che il ruolo della ricchezza e delle risorse in un’economia morale dev’essere quello di servitore, non di padrone.

Il crescente divario tra ricchi e poveri, la disperazione degli emarginati, il potere delle imprese sulla politica non sono fenomeni unicamente statunitensi. Gli eccessi dell’economia globale deregolamentata hanno causato ancora più danno nei paesi in via di sviluppo. Essi soffrono non solo per i cicli espansivo-recessivi delle borse, ma per un’economia mondiale che mette il profitto al di sopra dell’inquinamento, le compagnie petrolifere al di sopra della sicurezza climatica e il commercio di armi al di sopra della pace. E mentre una parte credente della nuova ricchezza e del nuovo reddito va a una piccola frazione dei più ricchi, rimediare a questa grossolana disuguaglianza è divenuta una sfida centrale. Il problema della disuguaglianza della ricchezza e del reddito è il grande problema economico del nostro tempo, il grande problema politico del nostro tempo e il grande problema morale del nostro tempo. È un problema con cui ci confrontiamo nella mia nazione e in tutto il mondo.

Papa Francesco ha dato alla difficile situazione della società moderna il nome più potente: la globalizzazione dell’indifferenza. “Quasi senza accorgercene”, ha sottolineato, “diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete”. Abbiamo visto a Wall Street che la frode finanziaria è divenuta non solo la norma ma in vario modo il nuovo modello di affari. I grandi banchieri non hanno mostrato alcuna vergogna per il loro cattivo comportamento e non hanno porto le scuse ai cittadini. I miliardi e miliardi di dollari di multe che hanno pagato per le frodi finanziarie sono solo un altro costo d’impresa, un’altra scorciatoia verso gli ingiusti profitti.

Alcuni potrebbero pensare che combattere il sistema economico sia senza speranza, che una volta che l’economia di mercato è uscita dai confini della moralità sia impossibile riportarla indietro, sotto gli imperativi della moralità e del bene comune. Mi è stato detto tante e tante volte dai ricchi e potenti, e dai media dominanti che li rappresentano, che noi dovremmo essere “pratici”, che dovremmo accettare lo status quo; che un’economia veramente morale è fuori dalla nostra portata. Bene, papa Francesco stesso è certamente la più grande dimostrazione al mondo contro una simile resa alla disperazione e al cinismo. Egli ha aperto ancora una volta gli occhi del mondo alle richieste di misericordia e di giustizia e alla possibilità di un mondo migliore. Ispira il mondo a trovare un nuovo consenso globale per la nostra casa comune.

Io vedo ogni giorno questa speranza e questo senso di possibilità tra i giovani dell’America. I nostri giovani non si accontentano più di una politica corrotta e guasta e di un’economia di aspra disuguaglianza e ingiustizia. Non sono soddisfatti della distruzione del nostro ambiente da parte di un’industria dei combustibili fossili la cui avidità ha messo i profitti di breve termine al di sopra del cambiamento climatico e del futuro del nostro pianeta. Essi vogliono vivere in armonia con la natura, non distruggerla. Esortano a un ritorno all’equità: a un’economia che difende il bene comune assicurando che ogni persona, ricca o povera, abbia accesso a sanità, cibo e educazione di qualità.

Come papa Francesco ha reso potentemente chiaro l’anno scorso nella Laudato si’, abbiamo la tecnologia e la competenza per risolvere i nostri problemi – dalla povertà al cambiamento climatico, alla sanità, alla protezione della biodiversità. Abbiamo anche enormi risorse per farlo, specialmente se i ricchi faranno la loro parte nel pagare le tasse dovute, anziché nascondere il loro denaro nei paradisi fiscali – come hanno mostrato i Panama Papers.

Le sfide poste davanti al nostro pianeta non sono principalmente tecnologiche, e nemmeno finanziarie, poiché – come mondo – siamo sufficientemente ricchi per accrescere i nostri investimenti in capacità, infrastrutture e competenze tecnologiche per soddisfare i nostri bisogni e proteggere il pianeta. La nostra sfida è prevalentemente morale, per reindirizzare i nostri sforzi e la nostra prospettiva verso il bene comune. La Centesimus annus, che celebriamo e su cui riflettiamo oggi, e la Laudato si’, sono messaggi potenti, eloquenti e ricchi di speranza per questa possibilità. Sta a noi imparare da essi e incamminarci con audacia verso il bene comune nel nostro tempo.


La prima riforma di papa Francesco

17 aprile 2013

Dal “consiglio degli otto” nominato dal papa può nascere un cambiamento della Chiesa nel segno della collegialità conciliare. La sola ipotesi che la riforma della Curia sia promulgata il 4 ottobre, festa di San Francesco, ne lascia intendere il valore epocale.

Sabato 13 aprile il Bollettino della Sala stampa della Santa Sede ha annunciato che papa Francesco “ha costituito un gruppo di cardinali per consigliarlo nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della costituzione apostolica Pastor bonus sulla Curia romana”.
L’annuncio avviene mediante un comunicato della Segreteria di Stato, e proprio il giorno dopo che il papa aveva visitato gli uffici e i dipendenti della Segreteria. Delicatezze formali – confermate dall’understatement mostrato dal portavoce della Santa Sede, padre Lombardi, nel commentare l’annuncio – che indicano, anziché nascondere, il punto cruciale: il papa intende lavorare immediatamente a una riforma della Curia mediante uno snello gruppo di lavoro completamente distinto dalla Curia stessa. Ma il compito dei nominati non si limita a questo, anzi è in primo luogo una funzione di “consiglio nel governo della Chiesa universale” che sembra alludere in modo trasparente a un organismo permanente, del tutto nuovo: la riforma non è unicamente annunciata, ma inizia già.
La data, a un mese esatto dall’elezione, non è casuale: indica una cadenza ravvicinata ma al tempo stesso ragionata, stabilita con pacata decisione.

L’articolo continua qui, su BoDem.


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